Lungo il corso del Novecento, ogni qual volta una novità scientifica o tecnologica si è affacciata all’orizzonte, immancabilmente i mezzi di informazione si sono rivolti ai grandi guru della fantascienza per ricevere lumi e indicazioni di prospettiva. Negli Stati Uniti esiste, fin dai primi anni Novanta del secolo scorso, un’associazione (SIGMA) che raccoglie autori di fantascienza che offrono “consulenze di futurologia al governo degli Stati Uniti e a specifiche ONG”. Una decina di anni fa, durante una ricerca studio sulla previsione scientifica, non restai particolarmente sorpreso di imbattermi nel sito del hieroglyph project dell’Università dell’Arizona. Anche se i desiderata che accompagnavano l’iniziativa, risalente al 2011, erano piuttosto diversi da quelli dell’associazione SIGMA: i promotori del hieroglyph insistevano soprattutto sull’esigenza di una fantascienza ottimista che tornasse a orientare lettori e scienziati nella direzione del progresso. Ebbi immediatamente la sensazione di trovarmi di fronte a un tentativo, di ispirazione aziendalista, di rilanciare una fantascienza fatta di UFO, astronavi a forma di sigaro e pistole a raggi laser, protesa nella celebrazione di un futuro di colonizzazioni spaziali e guerre interstellari. Ancora oggi, sul sito del hieroglyph project si legge:
«Il progetto mira a rompere la cupa e distopica routine che domina molte delle nostre visioni del futuro, ispirando le persone a pensare in modo critico e creativo alla scienza, alla tecnologia e alla società».
Uno come me, che non nasconde la sua simpatia nei confronti dei ragazzi di Ultima generazione, può arrivare, con un certo sforzo, ad apprezzare le buone intenzioni (“pensare in modo critico e creativo alla scienza”) ma certo non può condividere un programma che mira a rimuovere le poche prudenti avvertenze in materia di scienza e sviluppo tecnologico che il Novecento ci ha lasciato eredità e ci ha chiesto di custodire.
Un caro amico, mi ha regalato un Urania uscito a luglio di quest’anno, intitolato Tecnologie del futuro e curato da Marco Passarello. Leggendo l’introduzione di Passarello ho appreso, con un certo stupore, che si tratta della versione italiana del hieroglyph project. Del quale il mio amico, ovviamente, non sapeva nulla. A questo punto mi è sembrato inevitabile provare a inquadrare meglio il hieroglyph project, a partire dal contesto, molto lontano nel tempo, in cui si è sviluppato. Per decifrare i particolari, ingrandire il disegno.
Non sono un lettore abituale di fantascienza, i pochi Urania presenti nei miei scaffali fanno capo a un unico filone, quello cyberpunk, di cui effettivamente sono appassionato. E per una ragione su tutte le altre: considero il cyberpunk come una forma di letteratura contemporanea, forse iperrealista, ma certamente non fantastica nel senso che di solito si attribuisce a questo termine. Quanti sono alla ricerca del senso storico della letteratura dell’ultimo quarto del Novecento dovrebbero, a mio modo di vedere, mettere momentaneamente da parte Pasolini e provare a rileggere Neuromante di William Gibson.
Nei primi anni Novanta, di passaggio a Venezia, Gibson confidò all’antropologo George Lapassade di essere rimasto colpito della forte presenza, tra gli appassionati di letteratura cyberpunk italiani, di gruppi di post-marxisti, teknoanarchici, neoluddisti e così via1. Chi scrive frequentava, e continua a farlo, conventicole di quel genere lì.
Ma prima di occuparci di Gibson è opportuno fare un cenno a James Ballard che, oltre a essere, insieme a Philip Dick, uno dei santi patroni del cyberpunk è stato anche, volente o nolente, un autore di culto della sinistra radicale europea. Nel 1962, appena trentenne, Ballard pubblica su una rivista inglese di fantascienza un celebre editoriale di cui mi sembra indispensabile riportare almeno un paio di passi cruciali. Intanto l’apertura:
«Uno sfortunato sottoprodotto della corsa spaziale russo-americana, e dell’immensa pubblicità data agli astronauti rivali, è probabilmente un’identificazione ancora più stretta, nella mente del grande pubblico, della fantascienza con le navi a razzo e le pistole a raggi di Buck Rogers».
Questo già chiarisce il senso dell’operazione di Ballard: sganciare la fantascienza da questa identificazione stretta con i fumetti degli anni Trenta e le serie televisive americane degli anni Cinquanta per riconvertirla a nuove possibilità espressive. A prima vista, Ballard sembrava preoccupato soprattutto del futuro del “genere” che, sebbene in quegli anni stesse attraversando un momento di splendore (la cosiddetta Golden Age della fantascienza) rischiava di insterilirsi in una ripetizione stereotipa delle sue mitologie fondative. In realtà, l’obiettivo era meno prosaico e decisamente più ambizioso: Ballard intendeva dissolvere l’intero orizzonte della fantascienza tradizionale per orientarla verso lo “spazio interiore”. E per una ragione su tutte le altre:
«I più grandi sviluppi nell’immediato futuro avranno luogo, non sulla Luna o su Marte, ma sulla Terra, ed è lo spazio interiore, non quello esterno, che deve essere esplorato. L’unico pianeta veramente alieno è la Terra».
Si tratta del celebre inner space ballardiano, musica celestiale per le orecchie di un appassionato di filosofia della mente e di psicologia sperimentale come il sottoscritto.
William Gibson riprenderà quasi vent’anni dopo – nel suo primo racconto pubblicato in una rivista di fantascienza, Il continuum di Gernsback(1981) – l’operazione di debunking avviata da Ballard in quell’editoriale del 1962. Anche il racconto di Gibson è un testo seminale che, non a caso comparirà, qualche anno dopo, in apertura della più importante raccolta di fantascienza cyberpunk, Mirrorshades (1986)curata da Bruce Sterling e considerata all’unanimità il manifesto del movimento.
L’Hugo Gernsback a cui si riferisce il titolo del racconto di Gibson è un celebre editore che iniziò il suo lavoro negli anni Venti del Novecento con una rivista intitolata Amazing Stories. Considerato tra i grandi padri della fantascienza, Gernsback promuoveva un’estetica futurista, “istruttiva” e nel segno dello scientismo positivista all’epoca imperante. In modo ironico, inquietante e visionario, Gibson rivela in quel racconto come le mitologie e gli immaginari di cui si serviva Gernsback, a dispetto dei successi editoriali di Ballard e della stagione della fantascienza sociologica, fossero ancora ben radicati nell’immaginario collettivo degli anni Ottanta, sia pure nella forma, come scriverà, di “spettri semiotici”. Lungi dall’aver esaurito il loro potere di fascinazione, le astronavi a forma di sigaro, le pistole a raggi laser e gli alieni da colonizzare si ripresentavano al protagonista del racconto di Gibson come allucinazioni: una prosecuzione inconscia (il continuum)di forme narrative e architettoniche dotate di una persistenza tale da far pensare a una loro dimensione archetipica. Il futuro immaginato dall’ottimismo tecnologico di Gernsback, prendeva forma nelle allucinazioni:
«in una logica onirica che non conosceva l’inquinamento, la limitatezza dei combustibili fossili, le guerre in terra straniera che si potevano anche perdere».
Si tratta sicuramente di un caso, ma le allucinazioni retro-futuriste del protagonista del racconto di Gibson iniziano a manifestarsi proprio in quell’Arizona dove, trent’anni dopo, un celebre scrittore di fantascienza che si chiama Neal Stephenson, lancerà con grande fanfara il hieroglyph project. Dunque, colpo di scena, Stephenson è il teorico del hieroglyph project. Non ho potuto fare a meno di chiedermi per quale motivo, uno scrittore come Stephenson, di chiara ascendenza cyberpunk, abbia deciso di lanciare un progetto culturale che sembra andare in una direzione del tutto contraria a quella indicata prima da Ballard e poi da Gibson. E per provare a capirlo ho rimesso mano all’Urania a cura di Marco Passarello.
In effetti, quel libro costituisce il coronamento di un lavoro di diversi anni, passato per la stesura di due precedenti volumi, pubblicati da Delos-Digital nel 2019 e nel 2022, anch’essi a cura di Marco Passarello. Libri che, del modello lanciato da Stephenson all’università dell’Arizona, conservano sicuramente il metodo – quello di intervistare scienziati veri per poi chiedere a scrittori di fantascienza (professionisti) di scrivere altrettanti racconti ispirati alle interviste – ma che invece, sul piano dei contenuti, si rivelano decisamente lontani dalle intenzioni del project di Stephenson: nel corso della lettura di Tecnologie del futuro non ho incontrato claim felicisti né alcuna traccia di quell’ottimismo tecnologico da fantascienza Gernsback che dava l’orticaria a Ballard e a Gibson. La raccolta Urania, composta di tredici interviste e degli annessi testi di narrativa – tutti eccellenti – si apre, al contrario, con un racconto di dura critica sociale, che peraltro affronta un tema di scottante attualità: il destino degli anziani non autosufficienti nei sistemi sanitari delle società neoliberali. Per queste ragioni il mio amico ha pensato di regalarmene una copia sapendo che lo avrei apprezzato. Come puntualmente è avvenuto.
Due interrogativi si stagliano all’orizzonte. Il primo, cui cercheremo di dare una risposta nelle conclusioni, è se Tecnologie del futuro tradisce le intenzioni del hieroglyph program di Stephenson per necessità o per virtù. Riformulata in altri termini la domanda suona così: si è trattato di una scelta deliberata degli autori e del curatore (virtù), o, piuttosto, della conseguenza inevitabile dello stato dell’arte, di ciò che effettivamente avviene sul terreno concreto della ricerca scientifica (necessità)? Sono per la seconda ipotesi, sebbene consideri straordinariamente virtuosi tanto il curatore quanto gli autori dei racconti e gli scienziati intervistati. Spiegherò dopo il perché di questa mia opzione. Il secondo interrogativo rimasto in sospeso, cui ho già accennato, è invece questo: perché Neal Stephenson ha scelto di dare al hieroglyphic program degli obiettivi in aperto contrasto con quelli che, fino a quel momento, avevano caratterizzato in modo così netto la corrente cyberpunk? Per trovare una risposta non c’è bisogno di conoscere in dettaglio l’opera omnia di questo complesso scrittore. Basta leggere quello che può essere considerato il testo fondativo del hieroglyphic program, un saggio di poche pagine pubblicato nel 2011 sul World Policy Journal e intitolato Innovation Starvation, in cui Stephenson dichiara implicitamente di essere un nostalgico della fantascienza anni Trenta:
«Dov’è la mia stazione spaziale a forma di ciambella? Dov’è il mio biglietto per Marte?».
Stephenson lamenta in quelle pagine la fine dell’era dei grandi sogni tecnologici, come le stazioni spaziali o i viaggi interplanetari, e propone una riflessione su come la fantascienza possa tornare a ispirare l’innovazione reale. E continua con toni sarcastici e dolenti:
«L’esplorazione spaziale ha sempre avuto i suoi detrattori. Lamentarsi del suo declino significa esporsi agli attacchi di coloro che non hanno alcuna comprensione per il fatto che un ricco americano bianco di mezza età non abbia vissuto abbastanza per vedere i suoi sogni d’infanzia realizzati».
Quando si scopre, tra le sue note biografiche, che Stephenson ha lavorato per i programmi spaziali di Jeff Bezos e che è nato e cresciuto a Fort Meade nel Maryland, sede della NSA (National Security Agency), si è tentati di fare due più due e andare subito alla conclusione: abbiamo a che fare con un autore che del cyberpunk condivide lo stile, gli interessi principali ma non gli orientamenti politici e culturali. Basti qui ricordare che William Gibson, statunitense, vive in a Vancouver da quando, per sottrarsi alla guerra del Vietnam, ha deciso di fuggire in Canada. L’altro guru del cyberpunk DOCG, Bruce Sterling, sebbene piuttosto prudente e abbottonato, ha pur sempre scritto un libro come Giro di vite contro gli hacker. Come se non bastasse, nel fandom di Neal Stephenson c’è il Gotha della Silicon Valley: Bill Gates, Sergey Brin, John Carmack e Peter Thiel sono suoi lettori appassionati. Gente che ha sempre guardato con sospetto e preoccupazione la cyber-culture degli anni Novanta e i suoi principali protagonisti.
Ma quel che trovo particolarmente interessante, al di là delle relative posizioni politiche, è che la contrapposizione tra Stephenson e Gibson investe in pieno il terreno della semiotica, particolarmente nei suoi rapporti con la mitologia. Vi sarete certamente chiesti cosa significhi hieroglyph. Ovviamente, significa geroglifico. Ma cosa significa geroglifico in un programma che si propone di stimolare la ricerca scientifica attraverso la narrativa di fantascienza? Approssimativamente, dovrebbe indicare una struttura simbolica potente, archetipica. Ho chiesto lumi all’AI, che mi ha risposto:
«Stephenson ha definito certi elementi della fantascienza come “geroglifici” – simboli riconoscibili e coerenti che possono guidare l’immaginazione tecnica e sociale.»
Si tratta, evidentemente, di quei simboli che Ballard voleva mandare al macero e che al protagonista del racconto di Gibson si ripresentavano in forma di allucinazioni: gli “spettri semiotici” secondo la definizione dello stesso Gibson. Si direbbe allora che il contenzioso verta tra chi gli spettri semiotici vuole cancellarli e chi invece intende evocarli. Ma qual è lo statuto di questi spettri?
Sul sito di uno studioso italiano trovo un’introduzione al testo di Ballard del 1962 sull’Inner Space particolarmente illuminante a questo riguardo. Secondo Emiliano Di Marco (questo il suo nome), Ballard in quell’editoriale potrebbe essersi ispirato a Miti d’oggi di Roland Barthes (1957). La concezione del mito che Barthes proponeva in quelle pagine aveva, secondo Di Marco, due aspetti:
«Questo Mito allora deve essere inteso come avente due significati. Innanzitutto è, come suggerisce l’etimologia greca, una leggenda, un resoconto simbolico della condizione umana. In secondo luogo è una bugia, una mistificazione.»
Nel nostro ragionamento il problema si pone precisamente a questo livello: la fantascienza di Gernsback è una realtà ineludibile, fondata su strutture della mente inalterabili o, piuttosto, è una bugia, un effetto di ripetizione? Nella concezione di Barthes, il mito è parola: un prodotto linguistico che non va oltre le categorie proprie del linguaggio e della scrittura. In quanto narrazione, non trova fondamento in strutture profonde della mente, in qualche tipo di archetipo. Se le cose stanno così, che li si chiami spettri semiotici o piuttosto geroglifici, non sono comunque loro a guidare gli orientamenti della ricerca scientifica contemporanea. E dunque Passarello e gli scienziati dell’Istituto Tecnologico Italiano non hanno tradito Stephenson e il Hieroglyph Project. Il loro libro non è un cavallo di troia. Al contrario, l’obiettivo di mettere la fantascienza al servizio dello sviluppo scientifico e tecnologico l’hanno preso molto sul serio. A dare ragione a Ballard è stato, piuttosto, l’insieme di obiettivi che oggi di fatto guidano la ricerca scientifica. Stephenson, insomma, perde questa battaglia sul terreno dei fatti, non su quello delle teorie semiotiche sul mito. Quel che si legge nelle interviste di Passarello agli scienziati dell’IIT non ha niente a che fare con gli UFO o con le grandi rampe per i viaggi spaziali che sogna Stephenson. Nessuno degli scienziati intervistati da Passarello discute dell’ipotesi di conquistare lo spazio e nessuno di loro si spende per poter viaggiare un giorno su Marte.
Questa, per esempio, è una delle risposte di Arash Ajoudani – responsabile per l’IIT della HRI (Human-Robot Interfaces and Interaction Laboratory) – a una domanda sul futuro:
«Se immagino il futuro come vorrei… Un’industria in cui non vedi mani che trasportano oggetti pesanti, o che rischiano di perdere le dita utilizzando macchinari pericolosi o che, dopo aver lavorato per 50 o 60 anni, accusano forti dolori alla schiena, subiscono un intervento chirurgico e vengono lasciati in ospedale senza riabilitazione».
Ajudani non si occupa di viaggi spaziali ma della costruzione di esoscheletri che interessano gli aspetti quotidiani della vita ordinaria: il lavoro nelle manifatture, la riabilitazione motoria. Nella maggior parte delle interviste e dei racconti che si trovano all’interno di Tecnologie del futuro si avverte quanto le scienze della vita siano cresciute d’importanza in ambito tecnologico e quanto la loro presenza sia diventata pervasiva. Scienze della vita che si rivelano molto prossime all’inner space ballardiano, come emerge chiaramente da un racconto quale Turno di Notte di Serena Barbacetto, che interpreta la problematica squisitamente cyberpunk dell’avatar, del controllo a distanza, con una sensibilità umanistica, immaginando una forma avanzata di telelavoro, che risolve emergenze su tutto il pianeta grazie al talento di un reduce di guerra, un diversamente abile dotato di risorse mentali particolari e capace di lavorare nel sonno.
Aveva sicuramente ragione Ballard nel 1962: più grandi sviluppi non sono avvenuti sulla Luna o su Marte, ma sulla Terra, ed è lo spazio interiore, non quello esterno, che stiamo esplorando da decenni. Il problema principale che abbiamo di fronte è che non tutti i protagonisti di questa esplorazione dell’inner space stanno giocando la loro partita onestamente. Evocare gli spettri semiotici della fantascienza del passato non aiuta la ricerca scientifica a progredire. Eventualmente, aiuta la modernità capitalista a celebrarsi e a nutrirsi di mitologie scadute, come quella della conquista dello spazio, come se da un’esperienza tragica come il colonialismo non si fosse ancora imparato nulla.
Nota
1 George Lapassade, Stati Modificate e Transe, Sensibili alle Foglie, 1993.
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