Diritto, Femminismo, Temi, Interventi

1. La riforma: la proposta di riformulazione dell’art. 609-bis c.p.

Il 13 novembre 2025 la Camera dei deputati ha approvato, con un voto trasversalmente bipartisan, la nuova formulazione dell’art. 609-bis c.p., recependo il testo del disegno di legge a prima firma Laura Boldrini e l’emendamento Michela Di Biase – Carolina Varchi, volto a riscrivere la fattispecie di violenza sessuale superando definitivamente l’impianto originario del 1996, ancora imperniato sul paradigma della “costrizione mediante violenza, minaccia o abuso”.

L’emendamento approvato riscrive il reato configurandolo nel far compiere o subire atti sessuali a un’altra persona senza il consenso libero e attuale di quest’ultima, condotta alla quale si affiancano la costrizione con violenza o minaccia, l’abuso di autorità, l’abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica o di particolare vulnerabilità, e l’inganno mediante sostituzione di persona.

La riforma si colloca all’incrocio di più traiettorie convergenti: le raccomandazioni dei meccanismi internazionali di tutela dei diritti umani (CEDAW, GREVIO, Corte EDU) e l’evoluzione della giurisprudenza, compresa quella italiana, oltre a quella delle corti per i diritti umani e dei tribunali penali internazionali, che hanno elaborato una nozione sostanziale di consenso già orientata alla libertà individuale e alla reversibilità della scelta, ciò grazie a una pratica sociale e politica delle donne che negli anni hanno lottato a partire da sé per una riscrittura della libertà sessuale.

L’associazione Differenza Donna, in sede di audizione in Commissione Giustizia nell’ambito dell’esame del Ddl AC 16931, ha ricostruito la genealogia politica del dibattito femminista sulla violenza sessuale e ha posto l’accento sui limiti strutturali dell’attuale configurazione del reato, esito di un percorso di lunga durata che, pur segnando un avanzamento simbolico (lo spostamento del reato tra i delitti contro la persona), ha mantenuto al centro un modello coercitivo fondato sulla violenza, sulla minaccia o sull’abuso di autorità.

In questo quadro, l’associazione Differenza Donna ha chiarito la consapevolezza che il diritto penale, da solo, non avrebbe potuto trasformare e non trasforma i rapporti di potere che invece impongono un impegno politico complesso e costante per la trasformazione del significato sociale della libertà sessuale femminile: significare, nominare e agire nuove relazioni tra i sessi, rendere dicibile la violenza, istituire nella società la libertà sessuale femminile come libertà positiva e non come eccezione da dimostrare sostanzia l’impegno femminista di trasformazione sociale.

In sede di audizione abbiamo richiamato gli standard internazionali e, in particolare, la decisione A.F. c. Italia del Comitato CEDAW (luglio 2022), promossa dall’associazione: il Comitato ha raccomandato all’Italia di riformulare il reato di violenza sessuale ponendo al centro il consenso, superando ogni modello che riproduca stereotipi sessisti, miti sullo stupro, presunzioni sulla disponibilità sessuale e oneri di resistenza in capo alla vittima.

La riforma della fattispecie incriminatrice non è dunque una scelta discrezionale del legislatore, ma un obbligo giuridico derivante dalla CEDAW e dalla Convenzione di Istanbul rispetto alla quale però è imperativo preservare un elemento di avanzamento tecnico-giuridico già contenuto nella legge n. 66/1996, ossia il superamento della distinzione, foriera di ulteriore vittimizzazione a causa di un accertamento intrusivo e violento a sua volta ai danni della persona offesa, tra atto sessuale non consensuale con penetrazione e “altri” atti sessuali.

Il Commentario della Convenzione di Istanbul fornisce un chiarimento decisivo sullo standard che gli Stati sono tenuti ad adottare nella definizione del reato di violenza sessuale, richiamando espressamente la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, in particolare la sentenza M.C. c. Bulgaria del 4 dicembre 2003. In quel caso la Corte ha affermato che qualsiasi approccio rigido alla persecuzione dei reati sessuali, come l’esigere la prova della resistenza fisica della vittima in tutte le circostanze, rischia di lasciare impunite molte forme di stupro e di compromettere la protezione effettiva dell’autonomia sessuale. Gli obblighi positivi degli Stati ai sensi degli artt. 3 e 8 CEDU richiedono, di conseguenza, la penalizzazione e la persecuzione effettiva di qualsiasi atto sessuale non consensuale, anche quando la vittima non sia stata in grado di opporre resistenza fisica.

Il Commentario traduce questi principi in alcuni criteri: l’accertamento del consenso deve essere sensibile al contesto e non può basarsi su aspettative stereotipate circa il “comportamento tipico” di chi subisce un’aggressione; l’interpretazione delle norme non deve essere influenzata da miti sulla sessualità femminile e maschile; gli Stati devono adottare una legislazione penale che riconduca a reato qualunque atto sessuale privo di consenso liberamente dato, a prescindere dall’atto specifico e dalla relazione tra autore e vittima.

Tenendo conto delle diverse legislazioni interne agli Stati membri del Consiglio d’Europa, l’articolo 36 della Convenzione di Istanbul chiarisce che v’è l’obbligo positivo di predisporre una normativa penale interna che punisca tutti gli atti a connotazione sessuale che implichino o meno penetrazione, non derivando da ciò però l’obbligo di reintrodurre una distinzione superata dal nostro ordinamento: l’elencazione e distinzione che si rinviene nel testo della convenzione internazionale hanno infatti lo scopo di esplicitare l’ampiezza e la pluralità delle condotte da incriminare, alla luce delle diverse legislazioni nazionali che puniscono/punivano al tempo della redazione della convenzione alcuni atti (quelli con penetrazione) sottovalutando o ignorando tutte le altre condotte rilevanti.

Ritornando alla questione del consenso quale elemento costitutivo della fattispecie, già nel corso del dibattito parlamentare degli anni Ottanta e Novanta, la dottrina penalistica italiana segnalava perplessità riguardo alla centralità della violenza e minaccia come modalità di coartazione della volontà, elemento da sempre contestato dal movimento delle donne. Si evidenziava in particolare la contraddittorietà di un ordinamento nel quale appariva meglio formulato il reato di violazione di domicilio, per il quale basta l’ingresso “contro la volontà espressa o tacita” di chi ha il diritto di escludere, mentre per la violenza sessuale la persona offesa è chiamata a confrontarsi con la prova della violenza o della minaccia.

Su questa base, in audizione, abbiamo proposto un modello normativo centrato sul compimento di atti sessuali contro la volontà, o meglio ancora in assenza di consenso, formulazione che supera l’aggravio concettuale del verbo “costringe”, presente nel ddl al momento dell’audizione, e l’ambiguità probatoria che “contro la volontà” contiene.

2. Il discorso pubblico: la presunzione di innocenza come schermo, il panico morale e la difesa dell’ordine sessuale

La riscrittura dell’articolo 609-bis, che sancisce quindi il passaggio da un modello coercitivo a un modello consensuale, non è un mero affinamento tecnico ma offre la possibilità di recepire un cambiamento di paradigma che viene dalle relazioni sociali: il diritto penale riconosce che la libertà sessuale non implica più la capacità di resistere alla violenza o alla minaccia, ma si risignifica in una dinamica relazionale paritaria che implica la capacità di ciascuno/a di riconoscere e riconoscersi nella libertà e nella soggettività dell’altra/o, assumendone desideri, limiti, esitazioni e revoche come misura originaria della relazione e confine invalicabile dell’agire.

L’introduzione del consenso come elemento costitutivo della fattispecie ha prodotto, nel dibattito pubblico e politico, una reazione immediata, spesso più emotiva che tecnica, fino a impedirne l’approvazione al Senato. Le obiezioni si sono concentrate sulla presunta “inversione dell’onere della prova”, sul rischio di “compromettere la presunzione di innocenza”, sulla difficoltà di “provare il consenso”, fino alle immancabili allusioni al pericolo di “false denunce”.

Questi argomenti non contestano secondo me realmente la struttura del reato, ma tendono a mettere in discussione la trasformazione simbolica che la riforma implica e presuppone. La posta in gioco non è, infatti, la tenuta delle garanzie processuali, che restano intatte, ma la messa in crisi della presunzione patriarcale di accessibilità sessuale del corpo femminile, al quale è ridotto qualsiasi altro corpo che socialmente è collocato in una posizione dimidiata (WRC, 2019) quella presunzione che per secoli ha reso superfluo chiedersi se la donna fosse libera, consenziente, desiderante.

In questo senso, le polemiche sulla presunzione di innocenza rovesciano la domanda: non più “la donna aveva voluto?”, ma “l’uomo come poteva sapere?”. È un modo di spostare l’attenzione dal potere alla conoscenza, eludendo il nodo politico centrale: il passaggio da un modello di relazioni tra i sessi in cui la sessualità maschile è presunta legittima fino a prova contraria a un modello in cui la libertà sessuale dell’altra/o è il punto di partenza, il criterio che orienta potere, responsabilità e modalità del contatto.

Le critiche alla “impossibilità di provare il consenso” mostrano un fraintendimento ulteriore: il consenso non è da intendersi secondo la nozione civilistica che ne fa l’elemento centrale di un contratto, non è un atto formale da documentare né un gesto rituale.

È, a partire dalle relazioni umane, una pratica relazionale, situata, che emerge da parole, silenzi, posture, esitazioni, contesti, storie. Non si richiede prova documentale, dunque, ma una valutazione complessiva coerente che tenga conto della situazione concreta, senza appiattirla sui miti del “comportamento ragionevole” della vittima e della sessualità incontenibile maschile.

A ben vedere, la paura evocata nel dibattito non è quella di un processo ingiusto, ma quella dell’obbligo di accertare la libertà dell’altra persona prima e durante l’atto sessuale, interrompendo una tradizione secolare in cui il silenzio era interpretato come disponibilità e la resistenza, a prezzo della propria incolumità, come unica rivolta possibile all’ordine dell’onore maschile. Il panico morale che ne deriva rivela la fragilità di un ordine sociale che si vuole ancora costruito sull’asimmetria, sull’abitudine maschile a non doversi interrogare, sulla convinzione che la sessualità femminile sia accessibile e muta o da ammutolire, come lasciano intendere le “liste di stupri” lasciate come monito sulle pareti dei bagni contro quelle ragazze che occupano lo spazio pubblico con parole, rivendicazioni e proteste, convinzione cui si contrappone l’idea di una libertà sessuale come libertà incarnata, situata, sempre revocabile.

3. Fare ordine: la violenza sessuale come luogo originario del dibattito femminista sul diritto

La violenza sessuale è, per il femminismo italiano e internazionale, il topos originario attraverso il quale si è resa visibile la distanza tra l’esperienza delle donne e il linguaggio del diritto. Qui si è aperta la frattura: le parole delle donne che nominano la violenza non trovavano posto nelle categorie costruite dentro un ordine sessuale patriarcale, fondato sulla tutela dell’onore maschile più che sulla libertà femminile. Il diritto ha a lungo nominato, infatti, la “violenza carnale” come offesa alla morale e al buon costume, più che come attentato alla soggettività sessuale della donna.

Fin dagli anni Settanta, le pratiche e il pensiero femminista hanno mostrato che il problema non era l’assenza di norme, ma il loro senso e il femminismo ha messo a tema la sessualità come luogo di potere. Più avanti negli anni le pratiche dei centri antiviolenza hanno costruito un sapere a partire dall’esperienza delle donne che da quella dinamica di potere si sottraggono e ne subiscono la ritorsione violenta.

La violenza sessuale non è un’eccezione, ma una forma ordinaria di esercizio del potere patriarcale, resa possibile da un immaginario che naturalizza la disponibilità del corpo femminile, e qui nasce il dubbio femminista sull’utilità del diritto penale: può uno strumento forgiato dentro l’ordine patriarcale diventare mezzo di liberazione?

La risposta è prudente: nessun cambiamento normativo, da solo, basta a trasformare le strutture di potere se non è accompagnato da un mutamento simbolico e relazionale (Libreria delle donne di Milano, 1988; Graziosi, 1993; Cigarini, 1995; Bocchetti, 1995; Pitch, 1998; Boccia, 2002; Simone, 2010). Eppure, la pratica politica dei centri antiviolenza ha mostrato che il diritto può essere terreno di conflitto e trasformazione (Pitch, 2008) quando viene attraversato dalla parola delle donne e dal loro desiderio di giustizia (Boiano, 2015).

La società cambia, e la giurisprudenza ne registra gli spostamenti: forse siamo migliori di come ci raccontiamo in quanto a partire dalle relazioni affettive, amicali, lavorative, esiste già una sensibilità diffusa verso la distinzione tra desiderio e volontà, tra intimità e potere, tra incontro e invasione; un senso del limite, del rispetto, della reciprocità che fatichiamo a riconoscere come sapere sociale che invece andrebbe visto.

La ricerca di Differenza Donna Giovani voci per relazioni libere pubblicata il 24 novembre scorso mostra, insieme a dinamiche controllanti nelle relazioni, anche uno scarto significativo rispetto alle narrazioni più cupe. I/le giovani intervistati parlano della sessualità come relazione, riconoscono che il consenso è un processo, percepiscono la libertà sessuale come libertà reciproca e non come libertà di prendere. Le parole che ricorrono nella prospettazione di sé nel mondo adulto sono fiducia, rispetto, possibilità di essere sé stessi e libertà di interrompere una relazione non più desiderata. È una visione che prende sul serio l’esitazione, la vulnerabilità, il limite.

La distanza tra questa intuizione generazionale e la reazione pubblica alla riforma è evidente: ciò che inquieta del consenso “libero e attuale” non è la sua presunta complicazione tecnica, ma la sua forza politica. Il consenso obbliga a riconoscere l’altra/o come soggetto, a rinunciare alla zona grigia del non detto e a farsi carico della propria responsabilità. Il problema è che il discorso pubblico non sa farsi carico della sessualità quale dimensione di manifestazione della personalità e di libertà, la questione rimane relegata al privato, sottratta allo spazio politico e alla parola pubblica e così continua a essere uno dei luoghi privilegiati dell’eccitazione del potere, della dominazione, dell’asimmetria. La violenza sessuale trova spazio, infatti, dove la libertà sessuale è silenziata, dove la soggettività desiderante non è ancora pienamente riconosciuta come parte dell’umano, dove la relazione viene sostituita dalla scena pornografica o dalla logica della prestazione.

4. Superare il modello coercitivo: CEDAW, il caso A.F. c. Italia e la trasformazione giurisprudenziale prodotta dalle donne

Il modello introdotto nel 1996 ha superato con coraggio e lungimiranza la distinzione tra atti di libidine e violenza carnale, che implicava l’accertamento della penetrazione, assicurando la rilevanza penale di tutti gli atti sessuali imposti o pretesi: la definizione giurisprudenziale degli atti sessuali si caratterizza per un approccio sostanzialista che valorizza l’effettiva lesività della condotta rispetto al bene giuridico tutelato. Secondo l’orientamento consolidato della Suprema Corte, rientra nell’accezione di atto sessuale «qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo tra soggetto attivo e passivo, ancorché fugace ed estemporaneo, e coinvolgendo la corporeità sessuale di quest’ultimo, sia finalizzato ed idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale» (sentenza n. 44360 del 2021), un atto materiale deve essere definito come sessuale sul piano obiettivo, non su quello soggettivo, essendo sufficiente che l’agente sia consapevole della natura sessuale dell’atto posto in essere con la propria condotta cosciente e volontaria (III sez., 37942 del 2025): «ed infatti, essendo il reato in esame posto a presidio della libertà personale dell’individuo, che deve poter compiere o ricevere atti sessuali in assoluta autonomia e nella pienezza dei propri poteri di scelta contro ogni possibile condizionamento, fisico o morale, e contro ogni non consentita e non voluta intrusione nella propria sfera intima, tale configurazione si riflette necessariamente sulla natura dell’atto in cui si estrinseca la condotta materiale dell’agente, avuto riguardo alla sua ambivalenza che, al di là dell’intendimento perseguito dal suo autore, ricade comunque sulla vittima».

Il reato però è rimasto ancorato alla triade violenza/minaccia/abuso, presupponendo che la contrarietà della persona offesa possa diventare giuridicamente rilevante solo attraverso la resistenza. Il femminismo giuridico ha mostrato come questo impianto produca un effetto epistemico preciso: la donna che non si oppone “abbastanza” diventa non credibile e la sua parola perde statuto giuridico. È precisamente questo il cuore della critica formulata dal Comitato CEDAW nella decisione A.F. c. Italia, luglio 2022, caso emblematico promosso da Differenza Donna. Il Comitato ha rilevato che l’Italia mantiene un sistema giudiziario permeato di stereotipi sulla sessualità femminile, in cui l’accertamento della condotta della donna è distorto da aspettative culturali sulla passività, sull’abbigliamento, sulle abitudini sessuali, sui tempi della denuncia o sulle modalità della reazione al trauma. Secondo il Comitato, tale impostazione costituisce una forma di discriminazione istituzionale e produce impunità sistemiche. Da ciò deriva un obbligo preciso: riformulare il reato di violenza sessuale ponendo al centro il consenso, eliminando ogni riferimento a oneri di resistenza fisica e assicurando che l’accertamento penale non sia influenzato da stereotipi di genere. Questo obbligo si collega direttamente agli standard della Corte europea dei diritti umani, in particolare alla sentenza M.C. c. Bulgaria, 4 dicembre 2003, nella quale la Corte ha stabilito due principi fondamentali: a) qualsiasi approccio che richieda la prova della resistenza fisica della vittima “rischia di lasciare impuniti molti casi di stupro” (par. 166); b) gli Stati hanno l’obbligo, ai sensi degli artt. 3 e 8 CEDU, di garantire una protezione effettiva dall’abuso sessuale, anche quando la vittima non sia stata in grado di opporsi fisicamente (parr. 150–166). La Corte, inoltre, ha affermato che l’interpretazione di categorie come coercizioneviolenzaminaccia o sorpresa  deve essere contestuale e sensibile alla relazione concreta tra vittima e autore (par. 161). Si tratta dello stesso orientamento accolto dal rapporto esplicativo della Convenzione di Istanbul, che richiede agli Stati di criminalizzare qualsiasi atto sessuale non consensuale (art. 36), con un accertamento context-sensitive (par. 192).

Questa evoluzione internazionale ha trovato riscontro nella giurisprudenza italiana, che negli ultimi dieci anni ha progressivamente decentrato la costrizione e costruito una nozione sostanziale di consenso. In particolare, la Corte di Cassazione ha affermato che: il consenso deve essere chiaro, inequivocabile e presente per tutta la durata dell’atto (Cass. pen., sez. III, n. 9801/2025); l’assenza di un dissenso esplicito non equivale mai a consenso (Cass. pen., sez. III, n. 2381/2025); la vittima non ha alcun onere di esprimere il rifiuto, essendo sufficiente l’assenza di adesione (Cass. pen., sez. III, n. 32248/2024); l’errore sul consenso è scusabile solo se fondato su positive e univoche manifestazioni della volontà dell’altra persona, mai su supposizioni o inerzie (Cass. pen., sez. III, n. 32248/2024); gli atti sessuali repentini integrano il reato proprio perché sottraggono alla vittima ogni possibilità di dissenso (Cass. pen., sez. III, n. 9987/2022); nella convivenza o nel matrimonio la costrizione può derivare anche da prostrazione, angoscia, sudditanza psicologica, non solo da violenza fisica (Cass. pen., sez. III, n. 31106/2024); l’assenza di segni fisici non esclude affatto il reato (Cass. pen., sez. III, n. 26965/2025); il dissenso costituisce elemento costitutivo della fattispecie, non onere difensivo della vittima (Cass. pen., sez. III, n. 32261/2025); la revoca del consenso è sempre possibile, in qualunque momento dell’atto (Cass. pen., sez. III, n. 23446/2025).

Questa giurisprudenza è frutto di un processo di trasformazione sociale che nasce dalle donne: dalle testimonianze che hanno costretto il diritto a vedere ciò che non vedeva, a riconoscere che la violenza sessuale si manifesta soprattutto nelle asimmetrie relazionali che impediscono di dire no, di interrompere, di allontanarsi, di nominare la paura. È la produzione situata delle donne nei processi che ha orientato le Corti verso un nuovo paradigma che vede la libertà sessuale come relazione partendo dalla concretezza della trasformazione sociale più rilevante: il consenso è diventato criterio politico della liceità, non semplice dato fattuale; la mancanza di resistenza non è più neutralizzazione della violenza; la parola della donna riacquista valore epistemico. Di conseguenza, la riforma italiana che pone al centro il consenso libero e attuale risulta una formalizzazione normativa di un percorso già compiuto dal femminismo radicato nelle pratiche dell’esperienza che la giurisprudenza non ha potuto ignorare.

5. La parabola del consenso in Europa: la direttiva sulla violenza contro le donne e il conflitto politico sul significato del corpo femminile

La trasformazione in atto non riguarda solo l’Italia. Negli ultimi dieci anni, il tema del consenso è diventato uno dei luoghi di massima contesa politica in Europa, fino a esplodere nel dibattito sulla proposta di Direttiva europea sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica. La bozza della Commissione del 2022 prevedeva espressamente che lo stupro fosse definito come qualsiasi atto sessuale realizzato in assenza di consenso, secondo il modello dell’articolo 36 della Convenzione di Istanbul.

È proprio su questo punto che si è concentrata una delle opposizioni più dure da parte di diversi Stati membri. Alcuni governi hanno contestato la competenza dell’Unione in materia penale; altri hanno evocato presunti rischi di incertezza giuridica; altri ancora hanno mobilitato le narrazioni sulla “complessità” dei rapporti affettivi, rievocando implicitamente l’idea che nelle relazioni intime la sessualità sfugga alla razionalità del diritto. Il compromesso finale approvato nel 2024 non contiene, infatti, il riferimento alla ridefinizione della violenza sessuale in sede penale fondata sulla mancanza di consenso.

Questa apparente sconfitta normativa rivela che il consenso è un campo di battaglia sul potere sessuale maschile. Gli argomenti utilizzati per espungere il consenso dal testo europeo coincidono infatti con quelli oggi mobilitati nel dibattito italiano: la paura di una “criminalizzazione del desiderio maschile”, il richiamo alla spontaneità della “vera” sessualità, l’idea che richiedere la verifica del consenso sia un atto innaturale che spezza il flusso del desiderio, la ricomparsa del mito secondo cui la parola delle donne è opaca, contraddittoria, inaffidabile.

Il conflitto europeo sul consenso ruota intorno a un nodo profondo: chi ha il potere di definire il significato della sessualità? Chi stabilisce se il silenzio è libertà o disponibilità? Chi decide se il corpo femminile è soggetto o oggetto? Da un lato, gli standard internazionali indicano chiaramente che ogni atto sessuale non consensuale deve essere perseguito come reato. Dall’altro, le resistenze degli Stati derivano dal significato politico del consenso come redistribuzione del potere tra i sessi.

La lezione europea è chiara: l’introduzione del consenso come criterio giuridico non produce insicurezza, ma responsabilità, perché obbliga la società, e in particolare gli uomini, a farsi carico della dimensione relazionale della sessualità. La riforma italiana si colloca dentro questo scenario: è parte di un movimento più ampio che riconosce la libertà sessuale e incontra resistenze che non riguardano il diritto penale, ma il significato stesso della libertà sessuale e dei rapporti tra i sessi.

6. Consenso libero e attuale: istituire la libertà sessuale

La riformulazione dell’articolo 609-bis introduce una definizione che segna un mutamento profondo nell’ordine simbolico: il consenso deve essere libero e attuale. In questa espressione si condensa una trasformazione che riguarda la qualità delle relazioni tra i sessi e il modo in cui la società riconosce – o nega – la soggettività sessuale delle donne.

La critica femminista (MacKinnon, 2016) ha mostrato come il consenso, così come storicamente inteso, sia esso stesso un concetto intrinsecamente diseguale: spesso registra non la libertà, ma l’adattamento al potere. La tradizione giuridica occidentale ha costruito il consenso, secondo questa cornice critica, come acquiescenza a ciò che l’altro propone, presupponendo un soggetto attivo e un soggetto che si lascia fare. In questo schema, molte delle strategie di sopravvivenza delle donne, tacere, congelarsi, evitare la contrapposizione e sottrarsi alla sopraffazione, sono state lette come volontarietà. L’ineguaglianza strutturale tra i sessi è diventata parte della definizione stessa di ciò che la legge considera libero. Per questo, senza un quadro di eguaglianza reale, il consenso rischia di essere solo il nome giuridico della subordinazione.

Il punto decisivo è che la sessualità non si colloca mai fuori dai rapporti sociali di potere.

Porre al centro il “consenso libero e attuale” muove in direzione opposta alla tradizione patriarcale: mira a istituire un ordine simbolico in cui la sessualità non sia compensazione, prestazione, attesa culturale o risultato di gerarchie, ma spazio di incontro tra soggetti liberi, dove la volontà dell’altra persona non possa essere travolta, interpretata, ipotizzata, né dedotta dal silenzio o dal timore.

Insieme, “libero” e “attuale” tracciano un nuovo lessico della sessualità traducendo il percorso femminista di istituzione della libertà: un ordine che si fonda sul riconoscimento dell’altra/o come limite e possibilità, non come oggetto o destinazione del proprio desiderio.

Nomina un modo di stare nella relazione in cui la soggettività dell’altra persona non è un ostacolo ma la condizione stessa dell’incontro; un modo in cui il potere non può più travestirsi da spontaneità e in cui l’intimità non può essere confusa con un diritto illimitato di accesso al corpo altrui.

Dire che il consenso deve essere libero significa riconoscere che la sessualità non può essere pensata all’interno di rapporti di forza, dipendenza, timore, o nel silenzioso adattamento a un ordine simbolico che ha storicamente costruito il corpo femminile come spazio disponibile.

Libero è ciò che può essere espresso senza paura e, soprattutto, ciò che può essere revocato senza dover mettere in conto ritorsioni, colpevolizzazioni o perdita di dignità. Il consenso libero non è una concessione: è un atto di soggettività, che presuppone il riconoscimento dell’altra persona come soggetto portatore di desiderio, limiti, esitazioni e volontà.

Dire che il consenso deve essere attuale significa rompere con l’idea patriarcale secondo cui la sessualità procede per inerzia, come se l’avvio di un’interazione erotica autorizzasse una progressione inevitabile. L’attualità del consenso restituisce complessità all’esperienza umana: il desiderio può cambiare, l’esitazione è parte dell’incontro, la vulnerabilità è un elemento e non un ostacolo della relazione. Attuale significa che il consenso non si eredita da ciò che è accaduto prima né si presume dal contesto: vive nel presente dell’incontro, nel reciproco ascolto, nella capacità di fermarsi.

Questa doppia definizione si comprende appieno se si rifiuta la tentazione di trattare la sessualità come un contratto. Quando la logica contrattuale entra nei rapporti intimi rischia di cristallizzare l’asimmetria anziché liberarla: nel contratto “chi ha acconsentito” è tenuto a mantenere la propria scelta, mentre nella libertà sessuale ciò che conta è la possibilità sempre viva di cambiare idea. Le libertà sono garantite dal diritto affinché ciascuno possa decidere, in ogni momento, come agire, anche cambiando idea. Il diritto, quando istituisce la libertà, non può distribuire poteri individuali astrattamente simmetrici, ma deve creare le condizioni affinché le relazioni non siano catturate dal dominio, dal ricatto, dalla dipendenza.

In questa chiave, il consenso sessuale appartiene al piano della libertà sessuale che, come tale, implica anche la possibilità costante di mutare, di porre limiti e di far valere la propria interiorità come misura dell’incontro. È una libertà che non si consuma una volta per tutte, ma che richiede condizioni che rendano possibile dire sì o no senza paura, senza debiti, senza sottomissione, senza dover pagare un prezzo. Una libertà che non può essere catturata né dalla logica della prestazione né da quella dell’aspettativa, ma che si istituisce nel riconoscimento della soggettività dell’altra persona come limite e possibilità dell’agire.

La novità non è solo definitoria e giuridica, ma sposta la riflessione sul piano politico poiché introduce nel diritto la consapevolezza che la libertà sessuale è presenza di una relazione in cui desiderio, volontà, limite ed esitazione sono pienamente riconosciuti. E istituisce ciò che la tradizione giuridica aveva cancellato: che nella sessualità l’unica autorità legittima è la libertà dell’altra persona, sempre presente, situata, revocabile.

I processi penali non saranno mai spazi in cui la libertà sessuale si realizza. Restano, tuttavia, il contesto istituzionale in cui della sua violazione si parla e sulla quale si produce un sapere pubblico che contribuisce a ridefinire ciò che la società riconosce come libertà e ciò che denomina come abuso. È per questo che è decisivo che se ne parli con una consapevolezza nuova, capace di leggere nelle relazioni umane il confine tra desiderio e potere, tra incontro e dominio, tra libertà e sottomissione, imponendo che, quando la libertà sessuale viene violata, il diritto non tradisca più l’esperienza delle persone offese e non riproduca l’ordine simbolico che ha reso possibile quella violazione stessa. È un passo che non chiude ma apre: restituisce alla sessualità la dignità di una relazione tra soggetti liberi, riconosce la parola di chi denuncia, e assume che il corpo dell’altra persona non è mai un territorio da interpretare, ma un limite da rispettare.

Per queste ragioni mi auspico che l’articolo sia approvato dal Senato conformemente alla formulazione approvata alla Camera, senza ulteriori interventi che ne riducano la portata e né dettagli e distinzioni ulteriori che rischierebbero di reintrodurre, anche indirettamente, il modello coercitivo già superato dalla giurisprudenza, dagli obblighi internazionali e dalla pratica femminista che quotidianamente istituisce nella società la libertà sessuale femminile.

Nota

1 21 gennaio 2025, https://webtv.camera.it/evento/27102.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *