Digitale, Scienze, Temi, Interventi

Negli ultimi dieci anni, quell’area di pensiero critico che si occupa, in modo più o meno sistematico, di tecnologie digitali, ha iniziato a prendere sul serio il ruolo del comportamentismo nella struttura e nei funzionamenti di quello che spesso viene definito con l’espressione “capitalismo digitale”. I riferimenti polemici al comportamentismo sono partiti in sordina, con una battuta di Eugeny Morozov che, in un suo libro di alcuni anni fa1, faceva il verso a Richard Barbrook e Andy Cameron: i due massmediologi inglesi, nel celebre articolo intitolato L’ideologia Californiana2, avevano definito Marshall McLuhan il “santo protettore” di Internet (Barbrook, Cameron, 1996). Morozov, tra il serio e il faceto, replicava che il vero santo protettore della rete non era McLuhan, bensì Burrhus F. Skinner, il celebre teorico del comportamentismo radicale.

Qualche tempo dopo, nell’ottobre del 2016, The Economist‘s 1843 Magazine, inserto dell’Economist,pubblicava un lungo articolo inchiesta di Ian Leslie, un affermato scrittore londinese che, occasionalmente, si occupa anche di marketing. L’articolo rilevava come il ritorno del comportamentismo in ambiente digitale avesse avuto un ruolo chiave nel successo di alcune piattaforme lanciate in quegli anni. Leslie ha svolto un lavoro di indagine abbastanza approfondito, intervistando alcuni teorici di quello che si potrebbe definire il neo-comportamentismo digitale e alcuni dei suoi critici più severi. I toni erano piuttosto allarmati: il titolo The scientists who make the apps addictive, la cui traduzione in italiano non è immediata, sembrava annunciare il proposito di portare alla sbarra gli scienziati che stavano trasformando le applicazioni web in strumenti capaci di indurre forme di dipendenza tra gli utenti. In realtà, il testo di Leslie è decisamente meno inquisitorio di quanto annunciato nel titolo. Si direbbe che l’unico imputato, per Ian Leslie, sia il fantasma di B. F. Skinner, che nell’apertura dell’articolo viene descritto in questo modo:

«Skinner fu il più importante esponente di una scuola di psicologia chiamata comportamentismo, la cui premessa era che il comportamento umano è meglio compreso in funzione di incentivi e ricompense. Non lasciamoci distrarre dalla materia nebulosa e impossibile da osservare di pensieri ed emozioni, dicevano i comportamentisti, ma concentriamoci semplicemente su come l’ambiente dell’operatore modella ciò che l’operatore fa. Comprendi la scatola e capirai il comportamento. Progetta la scatola giusta e potrai controllare il comportamento».

In realtà, a fornire a Leslie lo spunto per avviare la serie di approfondimenti sul campo che costituiscono l’elemento più rilevante di quel suo intervento, è stata soprattutto la “fuga da Google” di due eminenti whistleblower, James William e Tristan Harris. Prima di tornare sull’articolo di Leslie, conviene allora dedicarsi a William e Harris che, indipendentemente l’uno dall’altro, sono usciti dall’azienda di Larry Page e Sergey Brin sbattendo violentemente la porta, per dedicarsi interamente al compito di denunciare i nuovi persuasori occulti.

Ex-dipendente di Google, James Willliam, nelle pagine di apertura del suo libro, sostiene che la liberazione dell’attenzione potrebbe essere “la più importante battaglia politica del nostro tempo”.

Su questo tema si snoda l’intera opera, intitolata Stand out of our light. Un titolo che rinvia all’incontro che avvenne a Corinto tra Alessandro il Grande e Diogene di Sinope. Si narra che Diogene fosse disteso davanti alla sua botte a prendere il sole quando il giovane condottiero gli si pose di fronte e gli chiese se poteva fare qualcosa in suo favore. Diogene, senza alterarsi, rispose: “Sì, togliti dalla mia luce” (in inglese appunto “Stand out of my light”). Nella metafora di William la “luce” sta a indicare il focus dell’attenzione di ciascuno di noi. L’invito a togliersi dalla luce è, in realtà, un’esortazione rivolta alle grandi piattaforme web quali Google o Facebook, a non disturbare la nostra attenzione. L’analogia tra le grandi piattaforme informatiche e il condottiero macedone è stata scelta assai bene: sono due forme di potere diverse, che hanno in comune l’ostentazione della loro potenza e la vastità del territorio sottomesso.

Nella prospettiva di William le piattaforme informatiche chiedono a ciascuno di noi “Cosa posso fare per te?”, allo stesso modo in cui Alessandro il Grande lo chiese a Diogene. Il problema, secondo William, è che si rileva un crescente disallineamento tra i nostri obiettivi e quelli delle piattaforme a cui, ingenuamente, ci affidiamo. Esse non fanno realmente ciò di cui avremmo bisogno. Ammesso che sia vero che l’informatica e il web sono nati come strumenti al nostro servizio, utili per i nostri scopi, oggi non svolgono più queste funzioni in modo trasparente. La metafora che William fornisce a questo riguardo è quella di un sistema GPS, un navigatore per l’automobile, che inizia a funzionare male. Non ci conduce più nei luoghi in cui vogliamo andare, ma ci porta in posti molto distanti da essi. Cresce così il sospetto di essersi affidati a una tecnologia che prima facie si presentava come uno strumento al nostro servizio ma che in realtà stava lavorando per scopi profondamente diversi dai nostri. Vale citare a riguardo un passo tratto dal testo di James William:

«Cominciai presto a capire che la causa per la quale ero stato arruolato non era affatto l’organizzazione dell’informazione, ma dell’attenzione. Il settore tecnologico non stava progettando prodotti; stava progettando utenti. Questi sistemi magici e generali non erano “strumenti” neutrali; erano sistemi di navigazione guidati da scopi che orientavano la vita di esseri umani in carne e ossa».

Collega di William presso Google, Tristan Harris viene spesso definito dai giornali come l’ex responsabile di ethic design presso gli uffici di Google. Harris ha denunciato le strategie di manipolazione dell’attenzione praticate dai giganti di Internet e ha proposto un inventario di idee per una nuova ecologia delle app e dell’interfaccia utente. La sola esistenza, presso Google, di un incarico definito dalla singolare formula design ethicist desta nel lettore una certa curiosità. Se partiamo dal dato che nelle aziende informatiche italiane è raro incontrare un “ergonomo” o un “esperto di interfacce utente”, il fatto che presso Google possa lavorare un esperto di “etica della progettazione delle interfacce” incuriosisce e suscita ragionevoli interrogativi. In Italia esistono degli insegnamenti di Computer Ethics (per esempio presso il Politecnico di Torino), ma si tratta di scelte formative di carattere pubblico. Se è comprensibile che gli Stati nazionali possano decidere di tutelare, nell’ambito di corsi di formazione universitaria, interessi di carattere generale – per esempio attraverso la realizzazione di linee guida di carattere etico per le aziende e gli operatori informatici – non è altrettanto facile spiegarsi quale potrebbe essere il ruolo di un esperto di “ethic design” presso un’azienda privata come Google.

In effetti, la carriera di Harris a Mountain View, per quanto breve, si è rivelata più complicata e interessante di quanto si potesse immaginare. Il percorso attraverso cui, presso Google, gli è stato assegnato il roboante titolo di “Design ethicist and product philosopher” merita un breve approfondimento.

Nel 2006 Tristan Harris aveva seguito a Stanford dei corsi di design presso il Persuasive Tech Lab di B. J. Fogg. Pare che in quell’occasione abbia collaborato con Mike Krueger alla realizzazione di Send the SunShine una app con ci si proponeva di alleviare i sintomi dei disturbi stagionali dell’umore (SAD). Mike Krueger in seguito diventerà miliardario come cofondatore di Instagram, mentre Harris avrebbe lanciato una start-up che si chiamava Apture e che aveva come principale obiettivo quello di facilitare i processi di apprendimento degli utenti in rete. Fin dai suoi primi passi da professionista Harris si è quindi presentato come uno studioso di interfacce digitali particolarmente attento ai processi di apprendimento. Nel 2011 Apture è stata acquistata da Google con l’intero staff. Tuttavia, quando Harris si è reso conto che presso Google non riusciva a trovare l’afflato etico e la vocazione didattica che lo aveva spinto a realizzare Apture, ha deciso di andarsene, non senza aver inflitto ai suoi colleghi di Google una serie di testi e di slide in cui sosteneva l’importanza di sviluppare un nuovo atteggiamento etico nei confronti dei prodotti informatici che vengono lanciati in rete. Quel testo, oramai celebre, iniziava con queste parole:

«Sono preoccupato del fatto che stiamo creando un mondo sempre più disattento. Il mio obiettivo con questa presentazione è creare un movimento presso la sede di Google che si ponga l’obiettivo di minimizzare la distrazione e, per riuscire in questo, ho bisogno del tuo aiuto».

Con grande sorpresa dello stesso Harris, quei suoi materiali si sono rapidamente diffusi per contagio all’interno dell’azienda. Google, in quegli anni, ha dovuto affrontare in diverse occasioni il malumore dei suoi dipendenti. Anche per ragioni storiche legate al suo brand, che ha sempre sostenuto di voler rendere il mondo un posto migliore, la direzione di Mountain View sfoggiava un aplomb da corte illuminata e tendeva a evitare i mormorii che facilmente seguono la diaspora dei propri dipendenti. Così, per dissuadere Harris dall’idea di lasciare Mountain View, è giunto per lui direttamente dai “piani alti” il titolo di design ethicist and product philosopher e il relativo nuovo incarico. Harris inizialmente ha accettato la nuova investitura, ma si è poi convinto che presso Google, in ogni caso, non gli sarebbe stato possibile esprimere in piena libertà i suoi convincimenti. Così, ha deciso di intraprendere una carriera privata da “design ethicist” dando il via a una varietà di iniziative e tenendo un numero sterminato di conferenze. Uno dei temi ricorrenti nei suoi interventi pubblici è la denuncia dell’uso crescente, da parte dei colossi del web, di tecniche di stimolazione orientate alla cattura dell’attenzione degli utenti. La distrazione indotta da questi dispositivi viola le convinzioni etiche più profonde di Harris, che fin dalla fondazione di Apture, come abbiamo visto, si era proposto di contribuire alla realizzazione di una rete a forte vocazione didattica, capace di facilitare l’apprendimento e di stimolare comportamenti intelligenti e virtuosi.

Nella descrizione che ne fornisce Ian Leslie nel suo articolo, Harris si sarebbe progressivamente convinto che:

«[…] il potenziale di Internet di informare e illuminare fosse in conflitto con l’imperativo commerciale di catturare e mantenere l’attenzione degli utenti con ogni mezzo possibile».

Leslie ha quindi deciso di intervistare a Stanford il professor Brian Jeffrey Fogg, che era stato l’insegnante di Harris e il fondatore della captologia, disciplina che si occupa della cattura dell’attenzione. A detta di Leslie, B. J. Fogg si è rivelato un personaggio tutt’altro che diabolico e gli è parso sinceramente turbato dall’accusa, mossa contro di lui in quel periodo, di essere uno stratega della manipolazione del comportamento. Altra breve intervista di notevole interesse contenuta nel lungo articolo di Leslie, quella a Natasha Dow Schüll, antropologa, che ha realizzato una monumentale ricerca su Las Vegas e le evoluzioni del gioco d’azzardo sotto la pressione delle tecnologie digitali3. Un lavoro raffinato con molti tratti di esplicita denuncia, che rivela le ragioni dell’impressionante crescita dell’azzardo, non solo a Vegas ma in tutto il mondo.

Tuttavia, sebbene il libro di Dow Schüll dedicato al design delle interfacce dei dispositivi dell’azzardo digitale sia un’opera fondamentale, al suo interno i riferimenti al comportamentismo sono sporadici e occasionali o, a dirla tutta, quasi inesistenti. Cosa piuttosto sorprendente, se si tiene conto del fatto che Skinner ha dedicato parecchie pagine dei suoi scritti alle sloth-machine e alle significative analogie che si riscontrano tra la logica che presiede al loro funzionamento e quella che sovrintende i cosiddetti programmi di rinforzo che era solito infliggere ai ratti del suo laboratorio. In realtà, nessuno dei personaggi incontrati da Leslie ha fatto riferimenti espliciti al comportamentismo durante il corso delle interviste. Si può arrivare a pensare che l’idea di tirare in ballo Skinner in quell’articolo sia da attribuire più a Leslie che ai suoi interlocutori. Fatto salvo il professor Fogg, che è indubitabilmente un neo-comportamentista, gli altri intervistati non sembrano avere le idee troppo chiare riguardo il comportamentismo, la sua vicenda storica e i suoi principi. Del resto Dow Schüll, Williams e Harris non hanno curricula che giustifichino la presenza di competenze di questo genere. Competenze che oramai, anche negli Stati Uniti, sono diventate un’esclusiva degli storici della psicologia e, occasionalmente, dei filosofi della mente. Lo stesso Fogg non sembra tenere in gran conto l’impegno con cui il comportamentismo ha lavorato per decenni allo sviluppo delle cosiddette tecnologie dell’apprendimento. E anche questo desta una certa sorpresa, perché le principale teorie dell’apprendimento di ispirazione comportamentista, dopo una lunga fase pre-informatica di carattere, per così dire, artigianale, vennero implementate prima su computer mainframe e, in seguito, sui numerosissimi prodotti software per la didattica programmata che giravano in stand alone su macchine IBM-compatibili e/o su personal computer della Apple. Nel corso degli anni Ottanta del Novecento e fino alla metà dei Novanta, la cosiddetta istruzione programmata è stata un settore fiorente anche in Italia, con prodotti di largo consumo dedicati all’apprendimento delle lingue, degli scacchi, della storia, della geografia, della chitarra e così via, venduti solitamente presso le edicole, inizialmente su floppy disk, poi su CD-Rom. Vero è però che il comportamentismo delle piattaforme di rete contemporanee è declinato diversamente, negli scopi e nelle strategie, da quello didattico promosso originariamente da Skinner. I modelli di istruzione programmata che Skinner promosse e che in seguito vennero implementati nei software didattici commerciali pretendevano, a torto o a ragione, di favorire realmente l’apprendimento. Mentre in rete, come ha sostenuto Tristan Harris, l’obiettivo è diventato quello di disturbare l’attenzione degli utenti per orientarla verso contenuti di carattere pubblicitario o politico, o anche mirati soltanto a farli rimanere sulla piattaforma più a lungo possibile.

Comunque, tre anni dopo l’articolo di Leslie, con la pubblicazione de Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff4, si è avuta la prima vera ed esplicita reprimenda contro il comportamentismo e il suo stretto rapporto con il capitalismo digitale. L’autrice ha dedicato decine di pagine del suo bestseller a Skinner suscitando una certa sorpresa tanto nel grande pubblico quanto tra gli addetti ai lavori. Tuttavia, sebbene Zuboff sia una conoscitrice dell’opera e del pensiero di Skinner e abbia colto aspetti fondamentali del ruolo del comportamentismo nell’evoluzione del capitalismo della sorveglianza, ha affrontato l’argomento con modalità di carattere prevalentemente divulgativo. Questo non è affatto un demerito, soprattutto considerando che la finalità generale dell’opera di Zuboff è di carattere essenzialmente divulgativo. Approfondimenti specialistici sul comportamentismo avrebbero appesantito un libro di dimensioni già colossali (oltre seicento pagine).

Quanto a me, da trent’anni avevo adottato in rete il nickname rattus norvegicus proprio per suggerire le molte affinità tra gli utenti delle piattaforme digitali e le cavie da laboratorio preferite dai comportamentisti. Forse per questo, durante la fase di boom del capitalismo digitale in salsa comportamentista, mi sono trovato per la prima volta a ricevere occasionali riconoscimenti per una serie di intuizioni che, in passato, erano state velocemente liquidate come mie inguaribili stranezze. Tuttavia, a quanti pensavano di tirarmi in ballo ho dovuto chiarire subito che trovo sia le forme che gli argomenti della nuova critica al comportamentismo digitale decisamente insoddisfacenti. La mia gratitudine nei confronti di quanti hanno segnalato il cosiddetto “ritorno” del comportamentismo fa il paio con una forte insofferenza nei confronti dei claim sbrigativi e, non di rado, puramente allarmistici, con cui il problema è stato affrontato dai giornali o nei dibattiti pubblici cui m’è capitato di assistere.

Di qui l’esigenza di chiarire almeno alcuni dei punti chiave del problema con cui siamo chiamati a confrontarci. Intendiamoci: per discutere seriamente il comportamentismo (prima come teoria scientifica e poi come peculiarità socioculturale statunitense) non basterebbe un saggio e, probabilmente, neanche un’opera in tre volumi. Sebbene trascurato a lungo nell’Europa continentale, il comportamentismo è stato un programma di ricerca assai robusto che, negli Stati Uniti, s’è snodato lungo un arco temporale di oltre sessant’anni e, in alcune fasi, ha raggiunto un’organizzazione fordista con filiere di laboratori distribuite in tutte le università e nei principali centri di ricerca. Al suo interno, accanto a B. F. Skinner, ci sono almeno una decina di figure di spicco, di almeno pari rilevanza teorica, che sarebbe indispensabile includere in qualsiasi serio dibattito nel merito. Peraltro, difficilmente si riuscirà a comprendere qualcosa di un siffatto dibattito se non ci si sarà impegnati, preventivamente, a inquadrare il comportamentismo all’interno della complessa temperie culturale che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, ha visto la psicologia impegnarsi con successo nel tentativo di entrare nel novero delle discipline scientifiche. Quanto al diffuso proclama, secondo il quale, a metà degli anni Settanta del Novecento, il comportamentismo avrebbe esaurito la sua “forza propulsiva” e sarebbe stato superato dal cognitivismo, c’è molto da discutere. Sicuramente non si è trattato di quel radicale cambio di paradigma di cui favoleggiano i manuali di storia della psicologia. Cosa che apre una serie di problematiche piuttosto dense riguardo l’attualità del comportamentismo e i relativi vantaggi che potrebbe aver ricavato dalla singolare posizione di zombie, di morto vivente in cui, piaccia o meno, è stato relegato negli ultimi quarant’anni dalla trionfante retorica cognitivista. Certo è che, sebbene sia stato ripetuto fino alla nausea che il comportamentismo è una corrente della psicologia scientifica oramai del tutto priva di qualsiasi interesse, gli unici psicologi che riescono a vincere dei premi Nobel sono, a tutt’oggi, quelli che si occupano di economia comportamentale, disciplina le cui radici affondano nella storia del comportamentismo e che oggi si trova collocata al centro degli interessi del Gotha della Silicon Valley. Basti ricordare che dal 20 al 22 luglio del 2007 nella cittadina di Rutherford (California) si è tenuto un corso privato tenuto dallo psicologo premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman, cui hanno partecipato Sergey Brin, Elon Musk, Jeff Bezos e altre figure di rilievo della Silicon Valley quali Tim O’Reilly e Stewart Brand.

Questo ci conduce all’argomento attualmente più gettonato, che riguarda il rapporto tra il comportamentismo e l’AI. A tale riguardo è opportuno ricordare subito che la simulazione del comportamento (animale e umano) attraverso dispositivi artificiali costituisce un metodo di indagine e sperimentazione che il comportamentismo ha iniziato a praticare in modo sistematico (con strumenti meccanici ed elettrici) ben prima dell’avvento dei calcolatori. In questo senso l’AI ha stabilito, fin dalle sue origini, un rapporto strutturale con il comportamentismo, quasi ne fosse una derivazione. Per quante crisi abbia attraversato, questo rapporto non è mai venuto meno, fino a divenire una sorta di seconda natura dei processi di ricerca e sviluppo, particolarmente nell’informatica di consumo. Quanti sostengono che gran parte degli snodi epistemologici sollevati dall’intelligenza artificiale, per un motivo o un altro, hanno già impegnato il comportamentismo, colgono nel segno. Nella filosofia della mente contemporanea i problemi si presentano sempre due volte, prima come scienze del comportamento e poi come intelligenza artificiale. Ciò spiega assai bene perché, nella hall of fame dell’intelligenza artificiale, figurano numerosi e autorevoli studiosi apertamente e dichiaratamente comportamentisti.

Mi rendo conto che questa sommaria elencazione di fatti e problemi, piuttosto ruvida ed esplicita, potrebbe essere letta come un tentativo di scoraggiare chi intenda discutere in termini politici il tema dell’influenza del comportamentismo sull’uso delle tecnologie digitali. Persone che, comprensibilmente vorrebbero risparmiarsi questioni etiche, epistemologiche e di metodo spesso cavillose ed estenuanti. Si tratterà, per il possibile, di non deludere queste loro aspettative. Sono sempre più convinto che le responsabilità politiche, particolarmente quelle dell’epoca che stiamo attraversando, siano punteggiate da emergenze che hanno ben poco a che fare con le forme e i toni dei dibattiti accademici e delle sedute delle commissioni parlamentari. Peraltro l’argomento, data la sua importanza, merita senz’altro un pubblico attento ma, si spera, non composto esclusivamente di specialisti. Dovremo trovare una linea di mediazione tra ciò che è sicuramente necessario e quel che può risultare almeno sufficiente a un primo inquadramento dei principali aspetti del problema. Altrimenti, tutta la faccenda rischia di restare sospesa in una caligine di mistero e di irrilevanza, in una zona indefinita tra l’allarmismo dei gazzettieri e l’ineffabile ruminare dei filosofi della mente. Una conclusione che dobbiamo evitare, perché nell’attuale configurazione del capitalismo digitale si vanno delineando dinamiche produttive in cui il comportamentismo e la sua eredità teorica e sperimentale giocheranno un ruolo di crescente importanza. Di qui il monito: se non ci impegneremo a fondo nello sbrogliare pazientemente questo intricato gnommero in cui storia e teoria della psicologia scientifica si intrecciano allo sviluppo storico delle tecnologie informatiche, difficilmente riusciremo a muovere critiche realmente efficaci all’attuale dominio delle Big Tech e incontreremo serie difficoltà anche nell’indicare strategie adeguate a quanti intendono sottrarsi alle conseguenze più perniciose dell’uso sistematico dei loro prodotti. Il monito diviene allora un invito a una “presa in carico” di un problema che quanto più viene trascurato, tanto più diventa spinoso e arduo da affrontare.

Note

1 Eugeny Morozov, Internet non salverà il mondo, Mondadori, 2014.

2 Richard Barbrook, Andy Cameron, L’ideologia californiana, grog, 2023, trad. it.

3 Dow Schüll, Architetture dell’azzardo, Luca Sossella editore, 2015.

4 Shoshan Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss University Press, 2019.

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