Torniamo a riflettere sui temi nostri – tecnica e IA, capitalismo, lavoro – guardandoli però da Oriente, dopo la lettura dell’ultimo saggio di Pino Arlacchi dal titolo impegnativo se non ultimativo: La Cina spiegata all’Occidente (Fazi Editore, pag. 521). Un libro molto empatico (forse troppo) con il socialismo di mercato in costruzione in Cina – che riprenderemo però più avanti, dopo qualche riflessione iniziale.
Sì, sono davvero lontani i tempi del film di Marco Bellocchio La Cina è vicina (del 1967), dell’analogo slogan filo-maoista, del libro di Enrico Emanuelli del 1957. In quegli stessi anni Mao aveva sentenziato “una fornace in ogni cortile”, in nome dell’industrializzazione forzata del paese, secondo il mantra marxista dello sviluppo delle forze produttive, anche se declinato in salsa maoista. Oggi la Cina è ancora più vicina, così vicina da essere dentro e attorno l’Occidente, ma in modi tutti diversi da allora; eppure sembra anche sempre più lontana da noi Occidente, proponendo un ordine globale multilaterale al posto dell’imperialismo unilaterale euro-americano, basato soprattutto sulla forza e sulla violenza. E le fornaci sono uscite dai cortili e sono diventate industrie, mentre le auto cinesi si promuovono abilmente sui nostri mezzi di comunicazione – e se facciamo caso, sono quasi tutti suv. Con un dato eclatante su tutti: la Cina ha fatto registrare un maxi-surplus commerciale nei primi undici mesi del 2025: 1.076 miliardi di dollari, superando il record precedente di 992 miliardi, però relativo all’intero 2024. L’export verso gli USA è diminuito, mentre quello verso l’Europa è aumentato, i dazi di Trump sono serviti a poco per piegare il nemicocinese.
E poi l’intelligenza artificiale, tema (accanto a quello ambientale – e questo va a suo merito, essendo passata invece l’Europa dal Green Deal al quasi negazionismo climatico nel nome di Mario Draghi e del riarmo) su cui la Cina è impegnatissima, ma anche consapevole dei rischi per il suo impatto sociale, antropologico e sul lavoro. E così Xi Jinping ha chiesto un “miglioramento dei meccanismi di lungo periodo per la governance del cyberspazio, un rafforzamento della capacità di previsione, precisione, sistematicità, una spinta a coltivare in modo continuativo un ambiente online pulito e sano”. Con però un passaggio ulteriore e decisamente preoccupante, “poiché un flusso pulito deriva da una fonte pulita, occorre impegnarsi a plasmare il cyberspazio con voci positive, valori mainstream [cioè cinesi e socialisti di mercato], rendendo internet una piattaforma vitale per l’orientamento ideologico, la coltivazione morale [e sottolineiamo “orientamento ideologico e coltivazione morale”] e l’eredità culturale [della Cina]. Bisogna approfondire la comunicazione online delle nuove teorie del partito, promuovere i valori socialisti fondamentali e creare più opere digitali significative, empatiche e influenti”. Che è esattamente (e specularmente preoccupante per chi ama libertà, democrazia e responsabilità) ciò che stanno facendo anche il capitalismo & il sistema tecnico digitale occidentale, promuovendo (con i suoi governi) i propri (dis)valori per il profitto del capitale, orientando e coltivando le masse secondo l’ideologia del tecno-capitalismo. Il fine sembra analogo, anche se politicamente (apparentemente) rovesciato, attraverso la rete come veicolo di propaganda. Quasi a voler dimostrare che il mezzo tecnico è neutro e che se ne può fare anche un uso socialista, come purtroppo è stato nella illusione di tutti i socialismi o libertarismi novecenteschi.
No, ovviamente, la tecnica non è neutra e si applica a sistemi diversi per potenziare soprattutto se stessa come sistema tecnico: perché si basa sempre e sempre di più sull’integrazione di tutto e tutti nel Tutto tecnico, posto che l’essenza della tecnica (il Gestell, direbbe Heidegger; la tecno-anarchia, diciamo noi) si basa sull’accrescimento illimitato di sé come potere e come potenza auto-telica e auto-referenziale. Perché la tecnica è totalizzante/integrante in sé e per sé, impone automatismi anche comportamentali, standardizza e omologa, elimina il conflitto, il tutto subordinato alla sua presunta razionalità scientifica e tecnica. Cioè l’obiettivo della integrazione delle masse in un sistema totalitarioè appunto il medesimo, del capitalismo e del socialismo di mercato con caratteristiche cinesi, come ama auto-definirsi, ma che è in realtà il fine della tecnica (l’essenza della tecnica è l’integrazione). E guarda caso, Ren Zhengfei, fondatore e CEO di Huawei, ha affermato che “Huawei è una entità commerciale, ma porta avanti una missione storica. Contribuiamo a connettere il mondo e a portare la digitalizzazione in ogni angolo del pianeta, sostenendo lo sviluppo di tutti i paesi”, usando quasi le stesse parole dell’iper-capitalista Mark Zuckerberg a proposito del fine di Facebook: “mettere insieme tutta l’umanità e costruire una comunità globale”. Da qui la questione fondamentale, che troppo spesso però ignoriamo: capire cioè se stiamo davvero cercando di passare a un ordine globale multipolare e plurale, come immaginato dalla Cina e dai BRICS, oppure se stiamo andando verso un ordine unidimensionale e totalitario governato dalle macchine, cioè verso un nuovo potere archico, questa volta della tecnica.
E quindi, siamo davvero a un radicale cambio di paradigma geo-politico e geo-economico (e geo-tecnologico). La storia è finita sì, ma ha vinto il socialismo di mercato cinese, oppure, dietro l’apparenza socialista, la Cina (come tutta l’Asia) è ormai formattata anch’essa in senso pienamente capitalista, industrialista/positivista e soprattutto tecnico? E questa definizione di socialismo di mercato con caratteristiche cinesi non è una contraddizione in termini? Se è vero che il mercato è sempre esistito ma non così il capitalismo (Braudel), cioè il capitalismo di mercato (o il mercato capitalistico) è un prodotto borghese (e tecnico) più recente, si può essere per il mercato e si può usare il capitalismo (dichiarandosi allo stesso tempo socialisti), senza entrare invece di fatto (essendone comunque sussunti) nelcapitalismo e nella sua ontologia, teleologia e teologia, appunto condividendone le logiche e la razionalità strumentale e il mantra industrialista (l’accrescimento sempre e comunque delle forze produttive)? E quanto accaduto in Cina con il sistema 996 – che impegnava i lavoratori (sfruttando magari la cultura cinese del lavoro), dalle 9:00 alle 21:00 per 6 giorni alla settimana (dichiarato poi non valido dalla stessa dirigenza del partito) – non è una forma capitalistica di sfruttamento del lavoro inteso come merce? Certo, nella vecchia URSS accadeva di peggio, ma se la parola socialismo ha un senso, il 996 non doveva accadere.
La Cina è diversa dall’Occidente, scrive Pino Arlacchi nel suo saggio, miniera preziosa da cui estrarre storia, analisi, confronti continui con noi Occidente e generare nel lettore spunti di riflessione come quelli che abbiamo provato a fare più sopra e che faremo più avanti. Ovvero la Cina – come aveva immaginato Giovanni Arrighi, citato da Arlacchi – davvero “potrebbe rappresentare non una transizione dal comunismo al capitalismo”, come spera gran parte del mondo occidentale, “ma piuttosto l’emergere di un nuovo modello di sviluppo socialista, capace di utilizzare selettivamente meccanismi di mercato rimanendo fondamentalmente distinto dal capitalismo occidentale”? Una Cina che avrebbe “tre segreti” – scrive Arlacchi – che spiegherebbero in gran parte quel miracolo cinese che data dalle riforme di Deng Xiaoping del 1978. Tre segreti, tre grandi fattori strategici (che solitamente gli occidentali non vedono perché incapaci di vederli): il non-espansionismo (e la non-volontà di conquista in senso occidentale), cioè “il suo sinocentrismo universalista e pacifico” legato al rifiuto, se possibile, della guerra militare (“Cina e Asia orientale espandono produzione e mercati e snobbano armi e guerre”); la meritocrazia come metodo di governo e che dura da duemila anni; e il suo peculiare modello economico e politico socialista di mercato, con caratteristiche cinesi, appunto, dove il profilo socialista risiede non tanto nella proprietà dei mezzi di produzione, “quanto nella metodica subordinazione della logica del valore di scambio a obiettivi sociali definiti politicamente”. O socialismo 2.0, che ci sembra però una definizione pericolosa, affiancando a socialismoqualcosa che per noi lo nega ex ante, appunto la razionalità tecnica e industriale oggi 2.0, autocratica in sé e socialista mai. Sì perché per noi, riprendendo Simone Weil, è la forma della fabbrica – dove qualcuno comanda (oggi gli algoritmi o l’IA) e gli altri eseguono (e purtroppo anche nel socialismo, come evidenziava appunto Simone Weil cento anni fa e come sembra accadere nel socialismo di mercato cinese, dove non basta la presenza delle cellule del partito nelle fabbriche a modificare l’organizzazione industriale) – la causa prima dell’oppressione sociale e non tanto la proprietà privata o statale dei mezzi di produzione.
Nel modello socialista il mercato e il capitale diventerebbero invece strumentidello Stato cinese, usati dallo Stato (governati e regolamentati dallo Stato) per fini socialisti e sociali, come la riduzione della povertà. In una Cina dove le politiche adottate si basano, ricorda Arlacchi, su sperimentazione e correzione degli errori – e questo è sicuramente tutto diverso dall’Occidente che invece si incaponisce ad applicare un neoliberalismo il cui fallimento dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti. Trefattori che “si mescolano e si rafforzano a vicenda”, comunque ricordando che la Cina attuale “è erede della Cina imperiale molto più di quanto si possa pensare”. E se anche Arlacchi era diffidente verso la definizione (“un apparente ossimoro”) di socialismo di mercato con caratteristiche cinesi – “che piaceva al mio maestro Giovanni Arrighi” – “credo siano i risultati dell’evoluzione della Cina negli ultimi due decenni – in particolare le linee strategiche inaugurate da Xi Jinping – ad avere dato pieno potere euristico a questa espressione”.
Una storia millenaria, quella della Cina. E Arlacchi ci ricorda che “non è stata l’Europa a guidare il mondo nell’epoca moderna, come pretende il mito coltivato nelle scuole e nelle università del vecchio continente. Cina e India sono stati i poli principali di una economia-mondo egemonizzata dall’Asia fin dal 1250 e dove l’Europa si collocava in una posizione marginale, detenendo meno di un quarto del Pil mondiale”. Fu solo dopo la metà dell’Ottocento che il centro di gravità dell’economia mondiale si è spostato verso l’Europa. Una civiltà diversa, quella cinese, perché “dal carattere centripeto e pacifico”, “un cosmo che guarda a se stesso e che si considera al contempo universale, privo di una spinta espansiva di tipo sia territoriale che economico e militare” e che per questo risulta appunto incomprensibile per chi, come gli occidentali, ha un carattere opposto, “estroverso, centrifugo e guerresco” ed è abituato a vivere, dal Cinquecento in poi, “sulle spalle altrui” (dal colonialismo già genocidario in avanti).
E quindi, scrive sempre Arlacchi, noi però avanzando qualche riserva, “gli attuali successi della Cina all’estero sono di natura esclusivamente economica e non hanno niente a che fare con disegni di dominio regionali o globali. Il paese non intende esportare le sue istituzioni politiche né condiziona investimenti e aiuti esteri alla sottoscrizione di alleanze politiche o militari” e anche il progetto Belt and Road “sarebbe un ponte verso il resto del pianeta fondato su investimenti in opere di pubblica utilità e non sulla ricerca di profitti capitalistici”, posto che la sua filosofia si baserebbe su “cooperazione e amicizia transnazionali”. Lo confermerebbe l’ultimo policy paper della Cina dedicato ai paesi latinoamericani, promettendo aiuti “senza condizioni politiche”.
E il Partito comunista (ancora Arlacchi) è il “sistema nervoso della Cina, ed è allo stesso tempo software e hardware. È il Moderno principe di Antonio Gramsci, le cui riflessioni sono una buona guida per la comprensione del sistema politico cinese di ieri e di oggi”. Perché “la forza dell’impero è stata la sua capacità di governare egemonizzando la società nel senso definito da Gramsci, usando appunto quel ceto degli intellettuali organici che erano a stretto contatto sia con il popolo che con lo Stato”. Concetto di egemonia ripreso poi nel Novecento, con i comunisti che sono la “reincarnazione più ampia e complessa degli shi, i mandarini imperiali”, diventando “un imperatore collettivo nel senso di essere una élite che governa la Cina a tutti i livelli sotto i vincoli di un servizio” da rendere non più all’imperatore ma al popolo. Attraverso l’identificazione di tre soggetti – Stato, società e partito. Tipica, diremmo però, di ogni totalitarismo.
Tralasciamo qui, per evidenti ragioni di spazio e rinviandola al lettore curioso, tutta la parte del libro di Arlacchi sulla storia antica cinese e arriviamo ai tempi di oggi. Affrontando quello che per noi è di nuovo, anche se in forma diversa, un punto critico della riflessione arlacchiana. Là dove scrive, richiamando il fatto sociale totale di Durkheim, che “l’economia cinese non rappresenta semplicemente un compromesso tra pianificazione e mercato [ma anche il mercato (capitalistico) pianifica e riproduce/accresce se stesso, a questo servono il management e il marketing e il sistema scolastico e oggi gli algoritmi e l’IA, errato è pensare che il capitalismo sia anarchico – annotazione nostra], ma è parte di una totalità organica in cui la politica, l’economia, la cultura e la società vengono integrate in un unico sistema coerente”. E dunque ci domandiamo di nuovo (supra, il richiamo ai processi di integrazione), questa totalità organica tra politica, economia, cultura e società non è forse perseguita (pianificata) – sì, lo è – anche nell’Occidente liberale e soprattutto neoliberale, dove tecnica e capitale hanno colonizzato tutto e tutti i mondi della vita, ricomponendoli unidimensionalmente nella logica di mercato (capitalistico) e tecnico; e dove ciascuno, andando oltre Polanyi richiamato da Arlacchi, non è però solo merce ma anche snodo tecnico/macchina umana dell’incessante sviluppo delle forze produttive?
Se è così, allora le differenzesembrano per noi attenuarsi, fin quasi a scomparire. Certo (Arlacchi), “il liberalismo politico ed economico occidentale, da Locke a Rawls, si fonda sulla disarticolazione dei fatti sociali totali e sulla compartimentalizzazione dei mondi vitali in sfere separate, ciascuna con propri principi di legittimità e di funzionamento”; ma siamo sicuri che sia stato e sia così e non che invece disarticolazione, suddivisione, compartimentalizzazione, specializzazione, individualizzazione siano da sempre funzionali – come detto – alla più facile integrazione/sussunzione delle parti disarticolate in una totalità organica – con il taylorismo come principio politico della modernità, come scriveva Günther Anders?
E quindi – e chiudiamo questa lunga riflessione sulla Cina e sull’Occidente – con le nostre scuse ad Arlacchi per avere omesso mille altre cose trattate nel suo libro – reiteriamo la nostra domanda iniziale: davvero stiamo andando verso un mondo multipolare e plurale (qualcosa di assolutamente benvenuto e positivo), oppure la tendenzaè solo apparente, è un velo ideologico steso sopra la reale unificazione totale e totalitaria del mondo, in nome e per mezzo della tecnica? Che essendo appunto basata su standardizzazione, ripetizione, automatismi meccanici e comportamentali, riproduzione dello status quo (come l’IA con il suo taylorismo cognitivo), mai potrà accettare (perché in conflitto con la sua ontologia, teleologia e teologia) pluralismo, diversità, autonomia, libertà (soprattutto libertà cognitiva), immaginazione; si chiami capitalismo o socialismo di mercato con caratteristiche cinesi.
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