Articolo tratto da “DINAMOpress” in virtù di un accordo di collaborazione: https://www.dinamopress.it/news/usa-al-bivio-18-american-fascism/
Questa domenica Donald Trump è tornato a Manhattan, l’isola sulla quale ha fondato la propria fortuna immobiliare e la propria iniziale semi-celebrità mondana, accumulando al contempo l’apparentemente infinita riserva di rancore per la buona società newyorchese che non lo accettò mai davvero. Le biografie dicono che molta della sua motivazione deriva dal desiderio di rivalsa e che, nella lista di rivincite, abbia sempre figurato un comizio nell’arena più famosa della città, dove giocano Rangers e Knicks e nella quale parlarono Hoover, Roosevelt e Kennedy. A conferma di questa ipotesi, nel suo comizio a Madison Square Garden Trump si è dilungato nello sperticato elogio della location stessa, tornando all’antica ossessione per il valore simbolico delle località di prestigio immobiliare. Quello nell’arena più prestigiosa di New York è sembrato un discorso da magnate trionfante nella Gotham di Joker, un kabuki della crudeltà a base di slogan rituali di rappresaglia, sovranismo e identità. Una rappresentazione grossolana quanto efficace, almeno fra il suo popolo (se dobbiamo giudicare dalla successiva impennata del titolo Trump sulla borsa di Wall Street), e un atto di sfida nel cuore di una metropoli a lui ostile.
Il comizio ha inevitabilmente evocato un’altra manifestazione che si è tenuta nella stessa arena 85 anni fa, quando gli Stati Uniti e il mondo affrontavano un altro momento decisivo. Nel febbraio del 1939, 20.000 sostenitori del filonazista German American Bund si riunirono dinnanzi a una gigantografia di George Washington affiancata da grandi svastiche per manifestare contro l’intervento americano nella guerra e a favore dell’isolazionismo perorato dal primo movimento “America First”, di Charles Lindbergh e Henry Ford. Il parallelo è stato fin troppo evidente nella settimana in cui il suo stesso ex-capo di gabinetto, John Kelly Milley, e l’ex Capo di Stato maggiore, il generale Mark Milley, hanno definito “fascista” Donald Trump. Il dibattito attorno all’idoneità della “F- word”, infine pronunciata anche da molta stampa, è somigliato a quelli sulle nuove destre europee, almeno da quando Joe Biden azzardò un “semi-fascista” nel 2022. Il termine è certamente inflazionato, come futile è il tentativo di certificarne l’applicabilità “scientifica”. Certo nel caso di Trump molti elementi sembrerebbero giustificarlo. Innanzitutto la sua affinità e discendenza diretta da pregressi “fascismi” americani quali il maccartismo e, movimenti suprematisti e isolazionisti come, appunto, America First, di cui ha cooptato lo slogan. Dalla deumanizzazione di gruppi nemici alla terminologia impiegata per descriverli (carogne, parassiti, feccia), la criminalizzazione dell’opposizione come quinte colonne, gli attacchi alla stampa come “nemici del popolo”, la retorica da Blut und Boden per elargire patenti identitarie, la lealtà totale che esige dai sottomessi, la concezione di immunità e identificazione della propria persona con lo stato. Non mancano gli elementi cioè che suggeriscono un’affinità con i populismi sfociati nei regimi autoritari del ventesimo secolo. Anche il vocabolario limitato e ripetitivo, l’esaltazione dell’identità autoctona, la promozione dei figli, l’ossessione ipermaschilista fanno parte di un repertorio familiare, come da tempo segnalano accademici del campo, come il filosofo Jason Stanley a Yale (How Fascism Works, Erasing History) o la storica della New York University Ruth Ben Ghiat (Strongmen, Fascist Modernities).
Il comizio del Garden ha riportato in primo piano una questione che è parsa d’improvviso persuasiva anche per la concomitante decisione del Washington Post e del Los Angeles Times di non dare l’endorsement a Kamala Harris. L’ improvvisa acquiescenza dei proprietari dei due grandi quotidiani, Jeff Bezos e Patrick Soon-Shiong, entrambi plurimiliardari con molteplici interessi economici e relativi incentivi a non inimicarsi un possibile futuro presidente, ha riportato l’attenzione sul ruolo problematico della stampa “oggettiva” nel confrontarsi con l’ascesa di un autocrate. Di sicuro a New York Trump non ha fatto nulla per smentire un’accusa che a ogni modo non sembra impensierire una base con scarsa dimestichezza e interesse per la storia. Fra le promesse di dazi punitivi, deportazioni di massa e privilegi riservati ai “patrioti”, l’evento è stato il culmine di una campagna giocata unicamente sul piano simbolico ed emozionale che, nelle fasi finali, sembra cristallizzarsi nella «liberazione della patria dagli usurpatori» per i quali il popolo già pregusta il giusto castigo.
La rappresentazione distopica nel “colosseo” di New York, teatrale e sopra le righe, ha inevitabilmente portato a mente la New Rome di Megalopolis, il nuovo film di Francis Ford Coppola, in sala proprio in questi giorni. Di certo il cast di comprimari ha ricordato quello grottesco del film di Coppola. “C’è tutto il gabinetto” – ha esultato sui social un sostenitore riferendosi al governo ideale che lo stesso Trump di recente sventola nei comizi. Ecco sul palco di New York, Robert Kennedy Jr., passato da fallimentare candidato “terzo” ad alleato, in cambio di una ipotetica nomina a zar della salute. «Lo scatenerò su medicina, farmaci e alimentazione», ha detto Trump del rampollo Kennedy, diventato portavoce no-vax e delle terapie alternative infarinate di new age. C’era Stephen Miller, ministro della xenofobia del primo mandato Trump e architetto delle sue politiche razziste come il “muslim ban” e la sottrazione dei figli a richiedenti asilo sul confine. A rappresentare il “nazionalismo cristiano” e il demographic evangelico, così cruciale per la base trumpista, era invece Mike Johnson, speaker della Camera e massima carica istituzionale detenuta dagli integralisti teocratici – un uomo che ha pubblicamente dichiarato che Dio ha scelto Trump per un secondo mandato. A lui Trump si è rivolto a più riprese, chiedendogli di “tenersi pronto” a promulgare decreti che gli avrebbe inviato. Un nuovo alien enemies act, ad esempio, come quello usato per l’internamento degli americani giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, o quello che, ha già anticipato, introdurrà la pena obbligatoria di un anno di detenzione per chi si azzardi a bruciare una bandiera americana.
Ogni nuova suggestione di incipiente autoritarismo repressivo è stato accolta con scrosci di applausi. Presente al Garden era anche Rudy Giuliani, già “sindaco eroe” dell’11 settembre, oggi ridotto a caricatura, in bancarotta per le querele per calunnia rimediate nel perorare la bufala delle “elezioni rubate”, ma pur sempre fedele al capo. Oggi la pratica negazionista è passata ad altri operatori che minacciano di essere più efficaci. Tucker Carlson, anche lui presente domenica, filo-putiniano capace di farsi radiare per estremismo perfino da Fox News, e che oggi ha traslocato online la sua campagna preventiva contro i «brogli che la sinistra radicale si prepara nuovamente a perpetrare». Oggi il 46% dei repubblicani dichiara che non accetterebbe un verdetto sfavorevole delle urne – e il 14% sarebbe disposto ad “agire” per “correggerlo”. Sono numeri prodotti da una disinformazione metodica, industriale, che quest’anno ha fatto un salto di qualità rispetto al 2020, grazie in gran parte a Elon Musk, anche lui, ovviamente invitato sul palco per essere elogiato più di tutti da Trump come «genio assoluto».
Nel crescendo di questi ultimi giorni di campagna, Musk ha incarnato la scesa in campo di una nuova oligarchia tecnologica che, come ii fondamentalisti evangelici, ha deciso di scommettere sul demagogo populista come migliore opzione per consolidare potere e proteggere i propri interessi. Entrambi – apocalittici e tecno-utopisti – considerano l’attuale campagna una battaglia esistenziale che non ammette possibili compromessi. I primi in virtù della dottrina del “dominionism” che considera dovere cristiano uniformare le istituzioni laiche all’“ordine biblico”. Per l’attuale destra religiosa infiltrare e convertire lo Stato, i media e l’istruzione pubblica non è una generica aspirazione, ma un progetto concreto da attuare nella seconda presidenza Trump, una missione “profetica” nota come “New Apostolic Reformation”. Negli anni in cui si compiva il consolidamento della nuova destra religiosa, una emergente fazione ideologica stava per vivere una accelerazione simile a Silicon Valley. Oltre alle start-up, Silicon Valley, gli statunitensi scoprono ora, ha incubato una generazione di disruptor che assieme alle fortune vertiginose hanno accumulato un senso di onnipotenza che hanno investito, assieme a molti soldi, per sponsorizzare un alleato – JD Vance – e piazzarlo “a un battito” dalla presidenza. Quello che si è intravisto a New York, in modo forse più nitido di prima, è stato il definitivo consolidamento, cioè, di un partito conservatore passato dal rappresentare interessi del capitale istituzionale e di una pragmatica professione di religiosità, a veicolare estremismi religiosi e capitalisti.
Ora due fazioni intransigenti per definizione e fisiologicamente antidemocratiche, entrambe di indole messianica e apocalittica, sono a a un passo dalla “restaurazione” con la quale vedono a portata di mano la vittoria finale.
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