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Le stime globali sul lavoro minorile, stilate da Unicef e dall’organizzazione internazionale del lavoro (Oil), indicano in 160 milioni i bambini e gli adolescenti di età compresa tra 5 e 17 anni costretti a lavorare nel mondo, all’inizio del 2020. Quasi la metà di loro (79 milioni) svolge un lavoro pericoloso, che può danneggiarne direttamente la salute e lo sviluppo psico-fisico.

Ammontano quindi a circa 1 su 10 i bambini e i ragazzi che lavorano nel mondo. Cifra che rischia di essere aggravata dall’impatto della crisi sociale ed economica seguita all’emergenza Covid-19. In questi mesi di pandemia, da più parti è stato lanciato l’allarme sulla recrudescenza del fenomeno a livello mondiale. Sono ancora Unicef e Oil a stimare che, entro la fine di quest’anno (2022), in assenza di misure specifiche per mitigare l’impatto sociale del Covid-19, il numero potrebbe salire a 168,9 milioni di bambini e adolescenti. I dati attualmente disponibili indicano come la quota di minori che lavorano nel mondo si avvicini al 10% in tutte le fasce d’età, con una prevalenza maschile.

Un fenomeno molto più diffuso nei paesi poveri, ma non solo

L’incidenza varia profondamente tra le diverse aree del pianeta. Nell’Africa subsahariana la quota di minori che lavorano arriva al 23,9%: 86,6 milioni di bambini e ragazzi. In questa parte del mondo, dopo una contrazione tra 2008 e 2012 (anno in cui la stima dell’incidenza del lavoro minorile era scesa dal 25,3% al 21,4%), si è assistito a una progressiva risalita: dal 22,4% nel 2016 al 23,9% attuale.

Non così nelle aree “Asia e pacifico” e “America latina e Caraibi”, dove da una quota pari al 10% – o superiore –

del 2008 si è scesi al 6% attuale. Percentuali che comunque in termini assoluti significano 26,3 milioni di bambini lavoratori in Asia centrale e meridionale (5,5%), 24,3 milioni in Asia orientale e sud-orientale (6,2%) e 8,2 milioni in America latina e Caraibi (6%).

In confronto a questi dati, il fenomeno appare sicuramente più marginale nel mondo occidentale. Tuttavia sarebbe erroneo pensare che esso sia del tutto debellato in quest’area del pianeta. In Europa e nel Nord America lavora il 2,3% dei bambini e dei ragazzi, pari a 3,8 milioni di minori. Ma quanto incide nello specifico il fenomeno nel nostro paese? Quali fasce di età riguarda? E perché la sua diffusione non va sottovalutata?

L’importanza di contrastare il lavoro minorile

Prima di approfondire meglio la questione attraverso i dati disponibili per il nostro paese, è utile comprendere perché il lavoro minorile rappresenti una minaccia concreta per la condizione di bambini e ragazzi.

Il lavoro minorile è spesso causa di dispersione scolastica. Una minaccia che riguarda in primo luogo il diritto alla salute e allo sviluppo sano del minore. Ma che mette a rischio anche il diritto all’istruzione, dal momento che il lavoro minorile è spesso collegato ai fenomeni della dispersione scolastica e dell’abbandono. Unicef e Oil stimano che nel mondo oltre un quarto delle vittime di lavoro minorile tra 5 e 11 anni e più di un terzo di quelle tra 12 e 14 anni non frequentino la scuola. Con conseguenze dirette sulle prospettive di giovani che spesso vivono già dall’infanzia in una condizione di svantaggio.

I ragazzi e le ragazze che abbandonano gli studi provengono spesso da contesti sociali più difficili e da famiglie in difficoltà economica. Per un giovane, lasciare gli studi prima del tempo significa avere più difficoltà nel trovare un’occupazione stabile e quindi anche maggiori probabilità di ricadere nell’esclusione sociale da adulto. Per questo motivo, è innanzitutto la convenzione sui diritti dell’infanzia a stabilire la prerogativa del minore di non essere costretto al lavoro, collegandola direttamente con il diritto allo sviluppo e all’istruzione.

Gli Stati parti riconoscono il diritto del fanciullo di essere protetto contro lo sfruttamento economico e di non essere costretto ad alcun lavoro che comporti rischi o sia suscettibile di porre a repentaglio la sua educazione o di nuocere alla sua salute o al suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale o sociale.

– Convenzione sui diritti dell’infanzia, art. 32

L’agenda per lo sviluppo sostenibile prevede l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro minorile entro il 2025.

Ancora più specifiche in questo senso sono le convenzioni dell’organizzazione internazionale del lavoro, fondata nel 1919 e oggi agenzia delle Nazioni Unite. Questa istituzione promuove l’abolizione del lavoro minorile, in particolare con la convenzione sull’età minima per l’ammissione al lavoro (138/1973) e con quella sulle peggiori forme di lavoro minorile (182/1999). L’obiettivo di eliminare queste ultime entro il 2025 – senza comunque perdere di vista il traguardo di cancellare tutte le forme di lavoro minorile – è stato recentemente inserito nell’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (con l’obiettivo 8.7).

L’età minima specificata in conformità del paragrafo 1 del presente articolo non dovrà essere inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo, né in ogni caso inferiore ai quindici anni.

– Convenzione sull’età minima (1973)

Cosa prevede la normativa nazionale

È all’interno di questa cornice internazionale e della costituzione che si colloca l’ordinamento italiano. La carta fondamentale interviene con l’articolo 34 sull’obbligo scolastico e con l’articolo 37, che detta la necessità di “speciali norme” per disciplinare il lavoro dei minori. La legge ordinaria di riferimento è la 977/1967 sulla tutela del lavoro dei bambini e degli adolescenti.

Questa norma ha subito delle modifiche nel tempo, anche in conseguenza del quadro stabilito a livello internazionale ed europeo. In particolare è intervenuto il decreto legislativo 345/1999, in attuazione della direttiva comunitaria 94/33/CE, che tra le altre cose ha ridefinito l’età minima di ammissione al lavoro. Fissata fino ad allora a 15 anni compiuti (14 anni in agricoltura e nei servizi familiari), dal 1999 è stata legata al momento in cui il minore ha concluso l’obbligo scolastico.

Ai fini della presente legge si intende per:

a) bambino: il minore che non ha ancora compiuto 15 anni di età o che è ancora soggetto all’obbligo scolastico;

b) adolescente: il minore di età compresa tra i 15 e i 18 anni di età e che non è più soggetto all’obbligo scolastico.

– Dlgs 345/1999, art. 3

Obbligo scolastico che, successivamente (con la legge 296/2006), è stato innalzato da 8 a 10 anni, portandolo a 16 anni di età. Di conseguenza da allora questa è diventata l’età minima di ammissione al lavoro.

L’istruzione impartita per almeno dieci anni è obbligatoria ed è finalizzata a consentire il conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età. L’età per l’accesso al lavoro è conseguentemente elevata da quindici a sedici anni.

– Legge 296/2006, art. 1 comma 622

Con divieto quasi assoluto per i bambini – come definiti dalla legge – e tutele rafforzate per gli adolescenti. Con alcune deroghe per questi ultimi, relative ai servizi domestici in ambito familiare e in imprese a conduzione familiare, comunque limitate ad attività lavorative non nocive, né pericolose.

10 anni la durata dell’istruzione obbligatoria in Italia, dai 6 ai 16 anni.

Per i bambini dal 1999 l’articolo 4 della legge limita le deroghe alle sole attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo o pubblicitario e nel settore dello spettacolo. Queste devono comunque essere autorizzate dalla direzione provinciale del lavoro e con assenso scritto dei titolari della potestà genitoriale, purché si tratti di attività che non pregiudicano la sicurezza e lo sviluppo del minore, la sua integrità psicofisica, la frequenza scolastica e il diritto alla formazione.

Queste le previsioni legislative rispetto al lavoro minorile. Ma cosa sappiamo sul loro effettivo rispetto nel nostro paese?

Il lavoro minorile in Italia

Un primo monitoraggio del tema è offerto dalle statistiche dell’ispettorato nazionale del lavoro, che svolge attività di vigilanza anche sul rispetto della legge 977/1967.

Nel 2020 sono stati 127 i casi accertati di minori irregolarmente occupati, prevalentemente nei settori “alloggio e ristorazione” (51 minori), “attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento” (23), “commercio all’ingrosso e al dettaglio, riparazione di autoveicoli e motocicli” (20), “altre attività di servizi” (19). In quasi tutte le aree del paese si tratta in maggioranza di ragazze (oltre il 50% dei casi nel nord, 72% nel centro). Fa eccezione il sud dove i maschi sono il 53% dei lavoratori minori irregolarmente occupati.

Tra le regioni, il maggior numero di violazioni si registra in Abruzzo (28), Lombardia (26) e Puglia (21). È importante sottolineare che questi dati verosimilmente intercettano solo una frazione del fenomeno.

Pur tenendo presente l’impatto dell’interruzione di molte attività economiche nel 2020, anche i dati dell’ultimo anno precedente la pandemia mostravano numeri piuttosto limitati. Con 243 violazioni rilevate nel 2019, di cui l’86% nel settore terziario.

È chiaramente difficile dare numeri precisi su attività illecite, ma alcune delle stime proposte negli scorsi anni indicano chiaramente come il fenomeno non vada affatto sottovalutato e abbia una portata ben più ampia.

340.000 i minori di 16 anni che lavorano, secondo una stima di Associazione Trentin e Save the Children effettuata nel 2013.

Negli scorsi anni, con la ricerca “game over” associazione Bruno Trentin e Save the children hanno cercato di valutare l’incidenza del fenomeno, arrivando a una stima finale di 340mila minori di 16 anni al lavoro. Tra cui 28mila coinvolti in lavori pericolosi per salute e sicurezza.

In base a questa indagine, basata su interviste a campione sui 14-15enni iscritti al biennio della scuola superiore, emerge come il caso prevalente rientri nelle attività domestiche e di cura (30,9% dei casi). Da notare come da questa categoria fossero escluse le attività rientranti nei piccoli aiuti in casa, comprendendo solo collaborazioni che per quantità di ore, impegno e interferenza con la scuola fossero assimilabili al lavoro domestico o di cura. Segue il settore della ristorazione (18,7%), con attività come barista, cameriere, aiuto in cucina, in pasticcerie o nei panifici.

Vi sono poi le attività di vendita (14,7% del totale), sia in negozio che nel commercio ambulante, con funzioni di aiuto o come commesso. L’altro ambito che supera il 10% sono le attività in campagna: dall’aiuto nella coltivazione e in attività come bracciante al lavoro con gli animali. Si avvicinano a questa quota anche varie attività artigianali che comprendono tra gli altri il lavoro di meccanico, elettricista, acconciatore.

1 su 4 i ragazzi che svolgono queste attività in modo regolare, oltre 6 mesi all’anno.

Per la maggioranza dei giovani intervistati (oltre il 40%) si tratta di attività occasionali, che impiegano fino a 10 giorni all’anno (18,5% del campione) o fino a un mese (25,9%). Ma una quota non residuale, superiore a un quarto del totale, è impiegata per almeno 6 mesi all’anno. In particolare il 7,9% dichiara un impegno che coinvolge 6-9 mesi all’anno, mentre il 18,9% è impegnato per 9-12 mesi.

In termini di ore giornaliere, il 40% dichiara fino a 2 ore e per poco più di un terzo (35,4%) l’impegno va dalle 2 alle 4 ore. Per quasi un quarto degli intervistati si superano le 5 ore: il 17,3% ne dichiara tra 5 e 7, il 7% oltre 7. Spesso (54,9% dei casi) si tratta di attività non retribuite, dato da leggere in relazione al fatto che 3 minori su 4 lavorano in ambito familiare.

Sebbene solo una minoranza dichiari un’interferenza totale con la frequenza scolastica (2,1% risponde che quando lavora, interrompe la scuola), non mancano le interferenze con il diritto all’istruzione e al tempo libero del minore. Quasi la metà (45,6%) lavora anche nei giorni di scuola. Il 51,9% dei minori intervistati dichiara di dedicarsi al lavoro nei giorni di vacanza.

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