Interventi

1. Nel mondo c’è rabbia e rivolta. Guardare agli avvenimenti che si succedono è per noi da tempo motivo di inquietudine, ma soprattutto ci interroga sull’urgenza di un bagno di realtà, per poi nominarla e trasformarla. Non vogliamo restare fedeli, fosse pure al femminismo, senza la capacità di agire in conseguenza dei cambiamenti del mondo.

 

2. Sugli avvenimenti: come leggiamo quello che accade dal Cile alla Bolivia, a Hong Kong, dal Libano all’Algeria, dall’Iraq all’Iran? Come valutiamo il grande protagonismo delle donne che, soprattutto in America Latina gridano “El violador eres tu” e per questo, per la loro ribellione, fronteggiano repressione e prigionia? Certo, non si può tracciare un parallelismo tra vicende diverse. Tuttavia, cogliamo dei nessi, scopriamo un terreno comune pur in contesti differenti, tra contestazione dei governi, rivendicazioni economiche e indignazione contro la violenza delle ingiustizie.

Ovunque sembrano in gioco non solo gli eccessi di un’economia e di una politica di sfruttamento, ma la ricerca di un radicale mutamento politico che comprenda l’agire collettivo e le singole vite. Non più chi domina e chi sopravvive. Non più vite di scarto. Non più scarti nei mari e nelle città. Singolarità che si uniscono in cerca di un “noi” contro chiusure, violenze verso le donne, verso i migranti, verso l’ambiente.

 

3. D’altronde, c’è un forte legame – benché poco visibile – tra immigrazione e clima. Il negazionismo climatico e la devastazione ambientale trovano la loro giustificazione, in nome del profitto, nell’atteggiamento padronal-patriarcale dei sovranismi, come è avvenuto in Australia dove un governo di destra ha sottovalutato i danni della siccità e lasciato distruggere il paese. Ma anche la limitata determinazione dei governi europei fa danno come ha dimostrato il fallimento dell’ultima Cop25 sulla diminuzione delle emissioni che alterano il clima, conclusa con un nulla di fatto, sbattendo così la porta in faccia, dopo tanti elogi, alle ragazze e ai ragazzi di “Fridays for future”.

Si inquina in “casa propria”, come fa Bolsonaro, senza nessuna attenzione alle popolazioni indigene. Si estraggono risorse naturali con modalità di lavoro schiaviste da parte delle multinazionali. Si domanda ai governi più poveri di prendersi i rifiuti tossici dei paesi ricchi per un pugno di soldi mentre si alzano muri e si chiudono i porti ai migranti. Non vogliamo parlare solo di accoglienza, ma dei muri da abbattere per non rimanere noi imprigionati/e di qua dal muro, e inariditi/e per mancanza d’incontri e scambi. Sappiamo che l’incontro-scontro con chi ci è straniero è difficile, rischioso, conflittuale. Ma si tratta di una strada obbligata che non può essere respinta nel timore della crescita del razzismo.

 

4. Quello che sta succedendo non si spiega esclusivamente come conseguenza di una crisi economica e finanziaria che scuote il mondo da più di un decennio, frammentando i lavori e precarizzando le vite di tante e di tanti. A provocare insicurezza c’è il degrado della vita sociale, la solitudine, l’impossibilità di curarsi se ci si ammala, l’aggressività dei maschi, con i quali spesso conviviamo.

Ma in tutto il mondo i sentimenti di insicurezza e paura sono monopolizzati da politici che li spostano sui migranti. L’abuso, reiterato, di questa parola mira a togliere umanità e soggettività a donne e uomini, trattandoli/e come numeri (tanti sono arrivati, tanti sono redistribuiti), privandoli/e della storia e delle storie, riducendo esseri viventi a cose. In Italia non si riconosce cittadinanza neppure alle ragazze e ai ragazzi nati/e nel nostro paese e partecipi di percorsi famigliari di migrazione.

 

5. Lo “spirito del tempo” si esprime nel tentativo di tornare al passato: alla restaurazione del vecchio ordine “naturale” dove il posto della donna la sua sessualità sono assegnati in partenza, alla famiglia patriarcale, come baluardo maschile contro la libertà delle donne, al nazionalismo, come clava contro i/le migranti, alle identità “naturali”, contro le persone sessualmente “non conformi”; quasi che la nostra epoca provasse repulsione di sé.

Gli autoritarismi delle destre in Europa, si coniugano ai sovranismi di Trump, Bolsonaro, Piñera. Anche la Cina dell’imperiale “via della seta” sembra ormai votata all’espansione di un mercato senza diritti. Un’ espansione che è messa a dura prova dall’emergenza del coronavirus. Con un sistema di potere autoritario, che in assenza di media liberi e di partiti di opposizione, fatica a ricevere informazioni accurate e soprattutto a trasmetterle tempestivamente alla popolazione.

 

6. Noi viviamo in un paese a rischio. Dove è forte una destra che si serve dell’odio, che ha sdoganato atti e parole violente, gesti razzisti, aggressioni sessiste, stereotipi offensivi delle donne. Dove si pretende di ristabilire il “diritto” del padre a decidere per e su tutti/e (nel disegno di legge Pillon, tuttora depositato in Parlamento; o con il ricorso alla Sindrome di alienazione parentale, per sottrarre alla madre l’affido dei figli, delle figlie). Dove le sinistre e il Governo balbettano sulla questione della giustizia (tra stop alla prescrizione, Disegno di legge sulle intercettazioni, Decreti Sicurezza, situazione delle carceri etc.) e non riescono a dare risposte che rappresentino un’alternativa di fronte all’avanzare di povertà, diseguaglianze e insicurezze, causate dalla globalizzazione liberista.

 

7. Non da oggi le donne lottano contro l’offensiva reazionaria. Con la loro politica; con la soggettività che hanno messo in campo e con la critica radicale al patriarcato. Le mobilitazioni sono sempre più imponenti. Ovunque, da #Niunamenos in America Latina, a Czarny protest in Polonia, il mostro è la violenza.

Negli Stati uniti, il movimento #METOO ha avuto la straordinaria capacità di dare valore e autorità alla presa di parola femminile. Mettendo sotto accusa il sistema sesso/potere/denaro, come era già avvenuto in Italia, nei confronti di Berlusconi.

In Italia NUDM contrasta da anni le tante facce che assume la violenza nel rapporto tra capitalismo e patriarcato.

È una rivolta estesa ed esplicita contro i fondamenti di un sistema di potere sessuato, prima ancora che sociale, economico, politico.

 

8. Una analoga resistenza, attiva e diffusa, è espressa dalle ragazze e dai ragazzi dei Fridays for Future, nelle piazze delle Sardine che vogliono cambiare il linguaggio della politica, nella lotta contro le discriminazioni delle persone LGBTQI. E, prima ancora, nella tenacia di chi salva i e le migranti in fuga dai lager libici e nella lotta di tante e tanti per il lavoro e la sicurezza.

Un certo numero di uomini guarda con interesse al femminismo. Sempre più uomini si interrogano, si mettono in discussione.

 

9. Abbiamo nominato soggetti e lotte diverse che hanno in comune il rifiuto dei rapporti di potere e di sfruttamento. Eppure ribellarsi non basta.

La destra dà una rappresentazione del mondo, oggi vincente, avvalendosi di una lingua aggressiva e di un messaggio semplificato che diviene senso comune. Promette rassicurazione e identità, se ci si affida a un capo dotato di “pieni poteri”.

È sul terreno dell’egemonia, sul peso dell’autorità, che va sconfitto chi afferma di parlare in nome del popolo. La prima, radicale, azione politica, lo abbiamo appreso nel femminismo, consiste nel cambiare l’ordine simbolico. Spostare lo sguardo, dare un altro nome alle cose significa trarre fuori dalla rappresentazione dominante la realtà che ci interessa modificare: usare la forza della competenza, dell’esperienza acquisita e non la violenza.

È avvenuto quando abbiamo messo al centro della politica e del linguaggio la libertà femminile. Significando noi l’essere donna, a partire dai vissuti e dai corpi.

 

10. Non c’è però conflitto sul simbolico se il femminismo ripiega unicamente in difesa del corpo femminile. Il corpo ha una lunga storia nella politica delle donne, come bene da tutelare, come valore da difendere. Ma questo non significa chiudersi nelle proprie certezze. Ogni posizione troppo schematica rischia di ridurre la complessità dei problemi. Invece conosciamo donne, con le quali abbiamo condiviso un lungo tratto di strada, che sembrano aver fatto del divieto sulla gestazione per altri e sulla prostituzione l’unica e ultima trincea. Si vuole così affermare una “essenza immutabile” del sesso femminile. Anche per noi è forte il timore che la mercificazione, sempre più pervasiva, dei corpi e delle vite tolga autonomia alle donne nella procreazione e nella sessualità, piegandole ancora e sempre all’uso maschile del loro corpo. In particolare nella GPA, alcune temono che le posizioni dei gay e dei e delle trans favoriscano la rimozione della differenza sessuale riaffermando, in altre forme, il soggetto neutro universale. Ma questi rischi non si evitano con le proibizioni.

 

11. Non c’è conflitto sul simbolico neanche se il femminismo nel leggere il disagio e lo sfruttamento capitalistico si inchioda all’interpretazione del marxismo mettendo in ombra, nelle lotte e nel linguaggio, i rapporti tra i sessi, la sessualità, la responsabilità della cura.

Il danno più grave è che la volontà di dividere nettamente ragione e torto inibisce il confronto, anche nel conflitto, negando le differenze tra donne e tra femministe.

 

12. Noi del “Gruppo del mercoledì” pensiamo che oggi come ieri non si possano ridurre le soggettività delle donne e la complessità dei rapporti, ad un unico fronte di conflitto. Non a quello del corpo mercificato, né a quello dello sfruttamento capitalistico. Non possiamo, e non vogliamo, lasciarci alle spalle quanto di più prezioso abbiamo costruito: partire da sé per contrastare (cancellarlo è impossibile) il negativo presente nella società e nella politica.

 

13. Nella larga e diversificata mappa delle lotte si esprime il malessere di tanti e tante, sul quale è possibile costruire un’altra rappresentazione della realtà.

Se guardassimo il mondo tutto intero, con le guerre che molti governi hanno scatenato, con la povertà e il cambio drastico del clima, capiremmo che ogni essere umano, noi comprese, potrebbe diventare un/una migrante. E avere la necessità vitale di essere accolta/o. Non esiste “casa” che sia al riparo dalle temperie. Non è credibile dire “aiutiamoli a casa loro” perché molti e molte non hanno più una casa. Insomma nel presente e nel futuro possiamo solo dividerci, necessariamente in pace, la terra, l’acqua, il cibo che restano. E mettere in scambio i bisogni dell’anima.

 

14. Per nominare e modificare la realtà, bisogna avere coscienza del limite: delle risorse, del progresso ad ogni costo, delle tecnologie e della scienza, dell’affermazione di sé narcisistica e ego-centrata; di quel paradigma economico per cui ogni anno muoiono due milioni di persone per la subordinazione delle vite alla competitività delle imprese.

A noi interessa la pratica del prendersi cura, come ascolto e come sguardo attento al modo di stare insieme per imparare a riconoscere la ricchezza delle differenze. E perché sarebbe la risposta più efficace in grado di contrastare l’ingiustizia sociale dando valore ai legami di cura.

 

15. Ci vuole coscienza del limite – che sia il proprio, l’altrui, quello dell’ambiente in cui viviamo o della cultura in cui siamo cresciute – non come confine invalicabile, ma come possibilità di attraversamento e contiguità, nominando fragilità e paure, conflitti e responsabilità. Questo significa uscire da se stesse perché si ha curiosità delle altre e degli altri e perché scopriamo di esistere grazie alle altre, agli altri. Dunque, partire da se stesse ma per tessere relazioni.

Spostarsi dall’io al noi e dal noi all’io perché solo così saremo in grado di capire il cambiamento per orientarlo, per non subirlo passivamente, ma per aprire all’inatteso.

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Un commento a “Andare e tornare: dall’io al noi e dal noi all’io”

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