A Franco De Felice

Premessa

Berlusconi è una potenza in declino? Oggi ben pochi sarebbero disposti a sostenere questa tesi, se non per ragioni meramente propagantistiche o per calcoli elettorali. L’unico convinto di questa prognosi sembra essere, invece, proprio Berlusconi, il quale scompostamente sta cercando di invertire questa tendenza. E tuttavia, la convinzione che il declino della egemonia di Berlusconi sia già iniziato non deriva dalle vicende giudiziarie in corso che lo vedono coinvolto (e dal modo come egli configura il rapporto tra democrazia e giustizia) o da come concepisce il rapporto tra sovranità popolare e rappresentanza parlamentare, e neanche, credo, dall’esito, qualunque esso sia, dei risultati elettorali di maggio.
Per capire perché l’egemonia di Berlusconi stia tramontando, occorre ana-lizzare la storia che si apre con l’ottantanove, nel senso che i fattori che hanno contribuito alla sua affermazione sono gli stessi che ne stanno provocando oggi il declino. È per questo motivo che mi sembra utile ricostruire accanto al il sistema Berlusconi anche la sua epoca, quei fattori, cioè, che ne hanno favorito prima il successo ed ora, forse, il probabile declino, perché sono esatta-mente i grandi mutamenti storici intervenuti dopo l’11 settembre (e, innanzitutto, l’entrata in scena della guerra) che non solo mettono in questione il si-stema Berlusconi, ma rendono anche possibile un rovesciamento della sua egemonia, se la sinistra saprà e vorrà rientrare nella storia, in una storia che ha messo di nuovo al centro la politica: la guerra – ha scritto Reichlin – non è solo un segno di forza, ma «è anche la spia del fatto che è fallita la grandiosa illusione che dopo il crollo del comunismo fosse possibile governare il mondo attraverso le leggi impersonali del mercato dei capitali riducendo la politica a un sottosistema dei giochi di Borsa». [1]

Globalismo senza storia

Per ragioni espositive, dividerò questa ricognizione del mondo post-bipolare in tre punti tra di loro fortemente connessi. Il primo punto sul quale vorrei soffermare l’attenzione riguarda l’ottantanove, perché è su una lettura di questo evento in chiave di storia della libertà che si sono costituite le fondamenta dell’epoca del globalismo, di un globalismo senza storia che, appunto per questo, «riaccende le rivendicazioni assolute di identità, fino a definire queste identità come civiltà tese ad affermare, con massima e assoluta asprezza, se stesse […]. Al globalismo privo di dimensione politica, può corrispondere il fondamentalismo come atto assoluto». [2]
Qui è tutta la discussione tra Fukuyama e Huntington che andrebbe oggi ri-pensata oltre l’alternativa netta tra unificazione e differenziazione del mondo, perché il mondo globalizzato è sicuramente un mondo unificato, un mondo senza storia, ma è, insieme, anche un mondo sempre più diviso e differenziato sul piano culturale e identitario, le cui differenziazioni sono inseparabili dal modo come abbiamo pensato il mondo dopo l’ottantanove, da quel globalismo senza storia che ha accompagnato il mondo fino a Manhattan. [3]
Il problema è, dunque, l’ottantanove e, insieme, il ripristino della sua com-plessità, nel senso che la veduta corrente di questo evento ha rimosso sia la guerra che lo ha prodotto [4] sia gli effetti di questa guerra sulla struttura del mondo, di un mondo, che una lettura in chiave di storia della libertà, ha reso appunto privo di storia. Infatti, è esattamente tramite una lettura idealistica dell’ottantanove che si sono costituite le fondamenta della subalternità del pensiero critico europeo rispetto al globalismo (ad un globalismo che, proprio in ragione di tale subalternità, viene inteso, appunto, come uno spazio senza egemonia e, dunque, come spazio della libertà), dell’Europa rispetto all’America [5], nel senso che la disputa sulla globalizzazione (sul modo come si configura o va configurato il rapporto tra bipolarismo e globalismo) non è altro che la forma nella quale si svolge oggi la lotta per la sovranità: non è mai esistito, né esiste ora, un pluralismo senza egemonia.
Qui è tutta una costellazione intellettuale che andrebbe ricostruita, così come andrebbe ricostruito il modo come settori importanti della intellettualità europea si sono rapportati all’ottantanove, ma non è questa la sede per fare questo lavoro, ne è questo il lavoro che ora mi interessa fare. Un punto solo vorrei ancora una volta ribadire e cioè che la teoria del mon-do globale come mondo di libertà – teoria propria del pensiero globalista – va considerata come il risultato di una interpretazione idealistica dell’ottanta-nove, di una interpretazione dell’ottantanove in chiave di storia della libertà o di teoria della singolarità. È la singolarità, infatti, che ritorna in campo dopo l’ottantanove e che produce una veduta non strutturata della globalità, dentro la quale torna ad essere pensabile l’esperienza della libertà [6].
Occorre, dunque, ritornare a ragionare sulla lettura dell’ottantanove in chiave di libertà del singolo, sottolineando il fatto che la costellazione intellettuale che ha accompagnato questo processo è la stessa che ha accompa-gnato il processo di formazione della nuova sinistra europea e italiana. Infatti, a mio modo di vedere, il globalismo lo si è scisso dal bipolarismo e dalla sua fine (e, cioè, dalla guerra che lo ha prodotto) perché il desiderio della sinistra era quello di entrare in uno spazio nuovo, uno spazio vuoto, privo di interpretazioni strutturate della globalità, perché solo in questo vuoto essa poteva mettere tra parentesi la storia precedente e la sua disfatta e ricominciare a vivere nel presente, in un presente appunto senza storia.
E si capisce, dunque, perché, in un contesto di disperazione e di anomia come quello prima descritto, la sinistra vede nel movimento dal bipolarismo al globalismo una occasione di fuga dalla propria crisi, un’occasione per tornare a vivere. Come l’Eichmann di Hannah Arendt, la sinistra può tornare a vivere solo azzerando la storia precedente [7]. Il punto è importante, perché riguarda direttamente l’Europa, nel senso che se non si mette in relazione – come la sinistra tende a non fare – il tema della fine e del superamento del bipolarismo con quello della guerra che lo ha prodotto, si rischia di considerare lo spazio globale non come una nuova interpretazione strutturata della globalità, dentro la quale lo spazio dell’Europa nel mondo globale è già definito dalle forze uscite vittoriose dalla guerra bipolare e, in primis, dall’America, ma come uno spazio neutro, senza egemonia, dentro il quale l’Europa può esprimere finalmente, come in un nuovo inizio, tutte le sue potenzialità. È esattamente questa teoria dello spazio globale (che ha come soggetto l’America e come teatro l’Europa) che ha distrutto lo spazio europeo, perché:
ha inibito all’Europa una piena comprensione del passato, dell’egemonia americana sull’Europa così come si è strutturata nel mondo bi-polare; ha impedito la formazione di una adeguata teoria della transizione al mondo globale; transizione letta esclusivamente con le coppie oppositive libertà-totalitarismo e Oriente-Occidente e non, invece, come sarebbe stato più sensato fare, come il risultato di una nuova guerra fredda, di una strategia più complessa che, scaricando sull’Unione Sovietica una pressione fortissima, non solo ha spinto quest’ultima al suicidio, ma ha anche chiuso tutti noi nella gabbia d’acciaio del capitalismo e dentro una storia che si è fatta di nuovo natura o fato, contro cui non si può combattere. Passata la sbornia ottantanovista – ha scritto Mario Tronti – tutto questo ora si capisce o almeno «si capi-sce di quanto si sia indebolita ogni istanza di contestazione dell’ordine mon-diale presente con il crollo di una pur distorta presenza politico-militare con-trapposta […]. Non si può parlare di Europa, tacendo di questo» [8]; impedisce, infine, una piena comprensione del presente, della persistenza oggi della egemonia americana, la quale opponendo in maniera netta globalità (libertà) a sovranità dissolve lo stato-nazione, garanzia della persistenza dello spazio eu-ropeo, evocando, nel contempo, le forze della sua rinazionalizzazione.
Infatti, due sono i fatti che questa rimozione del movimento dal bipolaris-mo al globalismo ha prodotto.
Il primo è una incomprensione del ruolo e dello spazio dello stato [9], considerato ormai come un concetto del passato da buttar via, un tema, questo, che unifica le principali culture della sinistra, da Toni Negri a Luigi Ferrajoli, da Giuliano Amato a Roberto Esposito, da Giuseppe Vacca a Giacomo Mar-ramao, e poi Agamben, Resta, e tantissimi altri, i quali considerano esaurita ogni forma tradizionale della sovranità sia politica sia economica, considerata nulla più che una riproposizione nostalgica di qualcosa che sta irrimediabilmente alle nostre spalle.Sul tema dello stato e della sovranità occorre molto brevemente soffermare l’attenzione, perché è intorno ad essi che si sta giocando oggi la lotta per l’egemonia a livello mondiale e, innanzitutto, tra Europa e America. Dichiarare la fine dello stato significa pensare un’Europa spoliticizzata [10], un’Europa evanescente, o un’Europa sovrana(11), un’Europa-potenza, entrambe non solo distruttive di quella cultura della mediazione che è l’idea propria di Europa, ma anche, forse involontariamente, accomunate, nel senso che una concezione dell’Europa priva di ogni referente materiale e oltre lo stato, dominata da una idea di nomos senza terra, vaga, aperta, indefinita, che «si oppone alla legge o alla polis»(12), rimanda, appunto, ad una Europa decisionistica e arbitraria, a quel nomos della terra(13), indifferente ai contenuti e a alla sua stessa storia(14) o al vecchio nazionalismo. Il problema è che nel paradiso postmoderno europeo, dove ogni nozione d’identità ha perso di senso, ogni permanenza è diventata un ostacolo, dove in questione è la stessa nozione di mediazione, lo spazio della sovranità è evacuato, perché senza cultura della mediazione non è pensabile sovranità o, in continuità con le grandi interpretazioni novecentesche della sovranità (piuttosto che con Bodin o con Hobbes), è pensabile solo come arbitrio . Il secondo è una incomprensione della natura del successo della destra, che non è qualcosa che irrompe dal passato, ma che nasce esattamente nella crisi dello stato-nazione e nel pantano che si forma all’interno di esso. Se si analizza la storiografia vecchia e, soprattutto, nuova sulla destra, in specie quella di matrice azionista e neoestremista e la si compara con le analisi gramsciane e togliattiane sul fascismo, si capisce subito il punto cieco sul quale la sinistra si è oggi attestata (15). Ma sulla questione della destra ritornerò più avanti. Quello che ora mi preme sottolineare è che tra i due fatti o aspetti prima descritti (incomprensione del ruolo dello stato e incomprensione della natura della destra) vi è un legame molto stretto, perché a partire dalla critica radicale della sovranità è difficile comprendere i motivi che spingono forze, culture e soggettività al rifiuto dello spazio globale, ad una vera e propria resistenza alla trascendenza(16) , nella speranza di poter ricollocare la nostra esistenza sulla vita terrena, su quel nomos della terra, dove l’uomo – come scriveva Carl Schmitt in Terra e mare – «staziona, cammina e si muove sulla terra dal solido fondamento»(17). Ora, è vero che il punto, quel punto dove l’uomo staziona e cammina su un solido fondamento non esiste, ma è vero anche che per metterlo radicalmente in questione e per evacuare lo spazio storico ed esistenziale dentro il quale esso si forma, occorre muoversi sul terreno di una prospettiva meno fallace e velleitaria dello sradicamento, perché è esattamente la rinuncia alle proprie radici culturali nazionali e la totale fuoriuscita dall’orizzonte storico dello stato che produce quel desiderio su cui riflette Carl Schmitt: è il globalismo senza storia che produce il fondamentalismo, spingendo il mondo verso una politica dei confini, il più possibile protetti.

Il mondo, the war

Il secondo punto, che ora vorrei affrontare, riguarda l’immagine di mondo che la mancata ricognizione del movimento che va dal bipolarismo al globali-smo ha istituito. Si tratta di un mondo senza storia, di uno spazio liscio, e si potrebbe ipotizzare che la sinistra non ha mai analizzato criticamente questo passaggio pro-prio per non fare i conti con la (sua) storia e, cioè, per muoversi liberamente nel presente, in un presente, appunto, senza storia. L’odierna epoca dello spazio è, infatti, un’epoca di libertà, che si oppone alla passata epoca della storia. La cosa, ovviamente, è interessante perché non riguarda solo Nancy e Esposito (o anche Deleuze e Negri), ma, a gradazioni diverse riguarda tutto il pensiero della sinistra(18) (la sua stessa costituzione mentale), la quale, non a caso, contrapponendo libertà a sovranità finisce con il collocarsi in uno spazio di libertà, nel quale il nemico principale è la idea, e la stessa presenza di sovranità, perché solo dalla contrapposizione tra libertà e sovranità può nascere la nuova libertà di un mondo unito dalla distruzione del principio della sovra-nità degli stati.
Il fatto è che, questa interpretazione della sovranità non solo conduce alla fine della politica, ma istituisce anche un mondo nel quale ogni individuo, in quanto tale, immagina o può immaginare di essere sovrano. Uso la parola im-maginazione non a caso, e la uso nella sua accezione nichilistica (19) perché è su questa allucinazione che il discorso precipita: avendo ritrovato, a partire dalla rimozione dell’ottantanove, le ragioni dei singoli fuori dalla storia, non si può che attingere alla immaginazione, ad un nuovo primato dell’immaginazione che è funzionale al primato del presente o dell’istante (dove futuro e passato vengono considerati attualisticamente come parte del presente) e che ha come referente il singolo, individualità assolute o, per usare una metafora di Gilles Deleuze, vere e proprie isole deserte (20), perché solo stando da soli si può istituire una coincidenza assoluta di soggetto e verità, singolarità e universalità o provare, finanche, alla maniera di un dio, ad abolire la vecchiaia e la sofferenza e persino la realtà o la stessa morte, come tentano di fare filosofie come quelle di Negri o di Deleuze(21).
Sostenere – come fanno questi ultimi – una sorta di rinnovata autoprassi dell’io (dell’io creatore del tutto e di se stesso) significa inoltrarsi, come sosteneva Giovanni Gentile, in «quel medesimo pensiero divino che la teologia cristiana ben vide coincidere con la divina attività creatrice»(22), in un luogo nel quale ogni individuo, in quanto tale, immagina di essere sovrano, libero di creare di volta in volta la sua esistenza e il mondo. Ciò che conta è il singolo, la marxiana persona-valore, la quale costituisce il nocciolo ideologico di questa antropologia e dunque il supporto della nuova teoria politica della sinistra.
Per una parte rilevante della cultura contemporanea è il mondo del diritto, che è poi il diritto all’isolamento, il cuore della critica, un diritto che «si basa – come annotava Marx nella Questione ebraica – non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto nell’isolamento dell’uomo dall’uomo. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a se stesso»(23).
L’unità dello spazio globale si struttura intorno alla questione dei diritti, solo che non esistono diritti senza stato e senza politica(24), e non è pensabile un rafforzamento o una difesa dei diritti in presenza di un indebolimento dello stato-nazione e, insieme, in assenza di una Europa sovrana.
Questo punto andrebbe attentamente esaminato, perché il carattere indefi-nito del governo oltrestatuale dei diritti rischia di produrre una diminuzione complessiva delle garanzie dei diritti, soprattutto quando questi diritti vengono depoliticizzati come è nel caso dei diritti umani. Non è necessario scomodare Hannah Arendt o Carl Schmitt per ribadire questo punto, o per comprendere come tutto ciò sia destinato a creare resistenze che renderanno difficile tenere insieme, e farle coesistere, le differenze e l’identità. Sono tante le ragioni che spingono in questa direzione, dalla crisi degli stati al problema delle immigrazioni, anche se sullo sfondo si intravede qualcosa di più profondo, perché il ritorno delle nazioni risponde anche ai problemi del mondo globale, onde la centralità di un nuovo e potente radicalismo di destra, il quale coglie i problemi di sopravvivenza per lo stato-nazione, che la trasformazione del mercato internazionale viene ponendo(25).
«Le visioni totali del novecento possono essere guardate anche da questo punto di vista, altrimenti non si comprenderebbe[ro…] le scelte di alcuni grandi filosofi verso forme di esistenza politica che sembravano garantire ai loro occhi una diga contro la politicizzazione e la secolarizzazione, restauran-do la possibilità di un logos attraverso la potenza. I casi di Gentile e di Hei-degger sono emblematici, e guardati da questo punto di vista fanno vedere cu-riosamente sguarnite tutte quelle tesi che riducono o escludono un rapporto significativo fra la loro filosofia e le loro scelte politiche, pur diverse nell’in-tensità e nella costanza»(26).
Il richiamo alla vecchia cultura nazionalista, la quale, a sua volta, evoca il tema del fascismo, il riferimento a Gentile e Heidegger, può dare l’impressione di un richiamo a qualcosa ritenuto tutto sommato irripetibile, ma che, fuori dal raggio di influenza della teoria del fascismo di Renzo De Felice(27), non ci sono ragioni per dichiarare tale(28). Ma lasciando la questione del fascismo e tornando all’oggi, lo scenario che abbiamo di fronte a me sembra il seguente: la sinistra dissolve la sovranità dello stato e si occupa della sovranità della persona, mentre la destra si occupa, a modo suo, della nazione. Sovranità della persona vs Sovranità della nazione, e viceversa: questa è la dialettica oggi esistente in Italia.
E siamo al punto che più ci interessa: teoria della persona-valore e nazione culturale sono le figure dello spazio assoluto, il quale non è altro che lo spazio dell’americanismo, nel senso che a partire da queste figure vi è solo la distruzione dell’Europa, perché non vi è Europa poggiata sulla distruzione dello stato (sul nichilismo nazionale) né sulla sua riattivazione in termini etno-culturali. Questa rappresentazione del mondo, quella coincidenza di mondo e mondializzazione(29), che aveva accompagnato per un lungo tratto l’uscita del mondo dal sistema bipolare, dura fino a Manhattan, nel senso che con l’entrata in scena della guerra crolla sia l’immagine di mondo che è sottesa alla dialettica dell’americanismo sia l’interpretazione idealistica dell’ottantanove, sulla quale quella idea di mondo si era fondata.
E il discorso è costretto a risalire all’ottantanove, per pensare di nuovo il mondo nuovo.

Critica della esistenza politica e coscienza storica

Occorre tornare all’ottantanove innanzitutto per pensare davvero il mondo nuovo, perché «ciò che è accaduto l’11 settembre si presenta come una conse-guenza, largamente prevedibile, di fenomeni internazionali in atto da un de-cennio: a partire, cioè, dalla fine della guerra fredda, dal crollo dell’impero sovietico e dall’affermazione degli Stati Uniti d’America come la sola, assoluta superpotenza planetaria»(30), ma anche per cambiare le categorie e la prospettiva con cui eravamo abituati a guardare il mondo (il rapporto tra Occidente e mondo) e far operare altri elementi, a partire dagli effetti della guerra dell’89 sulla forma del globalismo, il quale – come abbiamo visto – è sin dall’inizio uno spazio pieno, già definito da una nuova interpretazione struttu-rata della globalità, dentro la quale lo spazio dell’Europa nel mondo globale è già definito dalle forze uscite vittoriose dalla guerra bipolare e, in primis, dall’America. La guerra dell’ottantanove, dunque, come punto di partenza ed incunabolo della nuova sistemazione del mondo, di una nuova struttura del mondo che, soprattutto dopo l’11 settembre, si caratterizza per i seguenti elementi:
Unipolarismo: l’America non solo indebolisce tutti gli organismi internazionali e le stesse regole del diritto internazionale (dall’Onu alla stessa Nato) perché li considera non adeguatamente rappresentativi dei rapporti di forza del mondo post-bipolare, veri e propri retaggi del passato, ma imprime, anche, una svolta epocale nella sua politica estera, che da un lato mette in questione l’ideologia del nuovo ordine mondiale adottata negli anni novanta e dall’altro mette al centro il tema della guerra e teorizza e pratica la guerra preventiva che rappresenta il rifiuto più netto di qualsiasi mediazione, di qualsiasi ap-proccio multilaterale e quindi del principio stesso di un sistema internazionale: una vera e propria rottura di tutto l’assetto che ha retto il dopoguerra, in nome del proprio interesse nazionale(31); Dispersione del mondo: è questo rifiuto delle mediazioni, frutto di aggressività e di timore del declino, che alimenta la dispersione del mondo, e che produce contrapposizioni feroci e differenziazioni culturali non solo tra Occidente e Islam, ma anche o soprattutto, come alcuni osservatori sostengono, tra Europa e America(32), che reinstallano nel cuore della globalizzazione proprio quelle coppie oppositive, quella insecuritas e quel modello militarizzato che la stessa globalizzazione voleva abolire. Questo è il mondo nuovo aperto dall’ottantanove, ed è da qui che occorre partire, perché è solo a partire da qui che il mondo appare come un sistema in cui le entità statali-nazionali sono sì l’una all’altra più che mai legate e con-nesse (ConcateNations), ma anche come un sistema in cui esse sono concate-nate secondo un piano gerarchico (dominato dai rapporti di forza, che sono ovviamente non solo militari, ma anche economici, politici, culturali(34), il quale confuta la tesi secondo la quale il «nuovo ordine mondiale» sarebbe stato basato sulla democrazia e sul benessere diffuso, comportando la nascita di un sistema planetario non più governato da stati nazionali ma regolato da norme superiori, rette dalla logica del progresso tecnico e del profitto, e soprattutto da una strategia «globale». A distanza di quindici anni dalla caduta del Muro, «il grido che i cantori della globalizzazione allora levarono – One World, One Fate: un solo mondo, un solo destino – è negato in radice»: quello che abbiamo di fronte è un mon-do a più destini, nel quale l’umanità «si spacca irrimediabilmente nelle mani-festazioni vitali più elementari e si scopre […] sfidata nella capacità stessa di riprodursi come soggetto unitario»(35). È dentro il contesto di questo nuovo disordine mondiale che si spiegano non solo le guerre umanitarie avviate dall’America a partire dalla vicenda del Kosovo(36), ma anche il riproporsi con particolare virulenza della questione delle nazionalità.
Nel mondo a più destini, prodotto dalla globalizzazione liberista che sta causando una diseguaglianza senza precedenti nel mondo, cadono diritti e protezioni, la cui caduta, non più mitigata – come nel novecento – dal-l’azione pubblica(37), spinge i perdenti del mondo globale a federarsi intor-no ai temi del fondamentalismo religioso (38) o, per seguire il filo del nostro ragionamento, intorno alla nazione, nella sua accezione nazionalpopulista: qui è il vantaggio della nazione sulla persona. E qui è anche la distruzione dell’Europa, la quale non può esistere senza stati né può fondarsi sulla loro rinazionalizzazione.
Infatti, tra «crisi dello stato» (e, insieme, sua rinazionalizzazione) e tematica della Finis Europae vi è un rapporto strettissimo. Come nel novecento: al-lorquando si passò all’Europa delle nazioni non per la presenza dello stato-nazionale, ma per la sua crisi, non per la presenza della sovranità, ma a causa del suo deperimento e, insieme, del suo bisogno di affermare se stessa con nuovo vigore, di ribadire con forza la propria esistenza politica. Questo punto è molto importante, perché la questione del rapporto fra stato e Europa ritorna oggi di stringente attualità, nel senso che senza stato non vi è Europa, e senza Europa non è possibile un conflitto mondiale regolato, ossia il sistema unipolare (e il modello militarizzato che con esso si accompagna) non è capace di regolamentare l’anarchia, che è la struttura potenziale nelle relazioni internazionali.
Occorre tornare a pensare il mondo a partire dall’ottantanove perché solo a partire da questa data possiamo pensare l’Europa e lo stesso rapporto conflittuale Europa-America non come il risultato di una provvisoria controspinta reazionaria dell’amministrazione Bush (39), ma come qualcosa che sta inscritto nel Dna dell’ottantanove, dentro la sua logica (punto acuto di una linea di tendenza, piuttosto che evento di rottura), così come occorre tornare a pensare il tema dello stato, perché è solo a partire dallo stato che l’Europa può pensare autonomamente il confronto con l’America (schiodandosi, per così dire, dal confronto speculare con l’avversario dentro lo stesso sistema di potere (40), e non come uno scontro tra forze o tra arbitrarie sovranità, secondo il paradigma americano (e nichilistico), diffuso da Robert Kagan e dai neoconservatori (41), della legge del più forte, perché in base a questa legge non solo si sa già dall’inizio chi vince e chi perde, ma non è pensabile l’Europa politica.
Il problema è, ancora una volta, quello della sovranità, e tra Foucault e Kant (42) occorre decidersi per Kant, anche perché la prospettiva kantiana di un federalismo di liberi stati rifiuta una costituzione cosmopolitica sotto un unico sovrano, la quale rimane tutto sommato una forma tradizionale di stato unitario, e rimanda invece a quella teoria della sovranità condivisa che rappresenta il portato migliore dell’odierna discussione sull’Europa(43). Il problema è che per pensare Europa occorre riafferrare la questione dello stato, perché è solo la dialettica Europa-stati che ci consente di sfuggire all’alternativa tra Europa impolitica e Europa potenza, nel senso che l’Europa politica può separare il suo destino dall’Europa-potenza, e ritrovare la sua destinazione alla pluralità, solo se mantiene dentro di sé quella varietà che solo la presenza degli stati può garantire. Ecco perché per pensare Europa occorre riafferrare nazione, spezzare, per così dire, il rapporto destra-nazione (quel nesso tra coscienza storica ed esistenza politica sul quale si è formato il sistema di Berlusconi), al fine di costruire su una coscienza storica adeguata un’altra forma di esistenza politica.
E tuttavia, il tema della esistenza politica o quello della nazione non è qual-cosa che si lascia facilmente intellettualizzare, nel senso che per ricostruire stato e sovranità occorre oggi tornare nelle viscere della nazione, in quel pantano storico che nel frattempo si è accumulato, perché senza questo radicalismo all’interno delle nazioni (condizione per la riconquista della società civile, di una società civile che va oggi nella direzione di una società politica che non è il fondamento della Europa-Spazio) vi sarà solo il nichilismo nazionale e la fine dell’Europa, fenomeni entrambi forieri di guerre e di tragedie.
Compito fondamentale della sinistra è non solo quello di diventare una forza politica compiutamente europea, ma soprattutto quello di ridiventare una forza compiutamente nazionale, scendendo nel corpo del paese, per poi riarticolare il nesso nazionale-internazionale in modo convincente per la maggioranza degli italiani. Indubbiamente un lavoro difficile per una sinistra italiana incline più alla tematica dei diritti degli individui che a mischiarsi con la società(44).
Infatti, il problema è certamente quello di «opporsi a tutto ciò che, entro la “logica imperiale”, ha l’effetto di omologare, sedare, “pacificare”, orientare verso una meta cosmopolitica e universalistica»(45), anche se – occorre aggiungere – tutto questo può essere avviato solo all’interno delle nazioni, se si vuole davvero mettere in questione quella costituzione imperiale del mondo in presenza della quale non ci sarà Europa politica, ma solo nazionalismi: nazionalismi… e America.
È in questo quadro che va collocato il sistema Berlusconi, perché è solo dentro di esso che è possibile comprendere sia il nesso politica interna – politica estera che esso istituisce e le ragioni strutturali della sua egemonia, sia il punto a partire dal quale tale egemonia può essere rovesciata.

Note

[1] A. Reichlin, Ds, il coraggio di una nuova svolta, in L’Unità, 26 aprile 2003, p. 30. Sul ritorno della politica e dello stato dopo l’11 settembre cfr. anche l’interessante saggio di E. Melchionda, Il ritorno della politica. Sinistre, etica e guerra, in A. Cantaro (a cura di), Guerre e conflitti, «Democrazia e diritto 10», Milano, FrancoAngeli, 2002, pp. 159-175.
[2] B. de Giovanni, L’atto «assoluto» e la storia, in Nuovi argomenti, n. 16, 2001, p. 49; Id., Dopo Man-hattan, in Id., L’ambigua potenza dell’Europa, Napoli, Guida, 2002, pp. 301-306; Id., L’Europa e la guer-ra, in Italianieuropei, n. 2, 2003, pp. 115-123.
[3] Il riferimento è a F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992 e a S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996), Milano, Garzanti, 1999. Su tutta questa discussione cfr. il denso e molto problematico studio di M. Tesini, Quale Fukuyama? La fine della storia e l’11 settembre, in A. Cantaro (a cura di), Guerre e conflitti, cit., pp. 61-97, il quale, pur tra molti distinguo e utili approfondimenti e precisazioni, non solo sostiene che dopo l’ottantanove la storia sia feli-cemente giunta al capolinea della modernizzazione e della democrazia liberale di tipo anglosassone e non ci sia di fatto più nulla da decidere, ma in questa nuova lettura di Fukuyama, Tesini recupera anche la ambi-gua categoria di islamo-fascismo, una categoria utile solo: a) a spezzare il rapporto tra Occidente e critica (e a disegnare una perfetta identità tra Europa e Occidente, dove la prima viene considerata come parte del secondo); b) a riposizionare il concetto di Occidente e la sua stessa identità, sul terreno dello scontro delle civiltà, e di quella guerra che oppone oggi liberalism a terrore, democrazia a tirannide; e, in ultima analisi, c) a infilare l’Occidente in un settore complesso, non controllabile con la forza, come il medio oriente, senza, per questo, sconfiggere il terrorismo e il fondamentalismo, perché una guerra fatta in nome dell’Occidente non potrà che rilanciare la sfida terrorista alla globalizzazione. Categoria ambigua quella di islamo-fascismo non solo per ragioni che attengono alla teoria del fascismo, ma anche perché tramite essa si chiude l’Islam (?) in una storia separata, e si dimentica il fatto che sono esattamente le guerre di globa-lizzazione che, umiliando il medio oriente, ricostruiscono il mito delle culture omogenee e la teorica della loro incompatibilità, e producono il ritorno del terrorismo come atto assoluto, come l’introduzione dell’atto assoluto nella storia. Il fatto è che – come sostiene Barber – la globalizzazione e il terrorismo vanno consi-derati come fenomeni assolutamente interdipendenti: B. Barber, Guerra santa contro McMondo (1995), Milano, Pratiche, 1998.
[4] Cfr. M. Cacciari, il quale a proposito dell’ottantanove non solo parla appunto di terza guerra mondiale, ma sostiene anche che «se non teniamo conto del fatto che c’è stata una terza guerra mondiale non capiamo che cosa sta succedendo»: M. Cacciari, Gli stati Uniti? Non saranno l’impero, in Il manifesto, 22 marzo 2003, p. V.
[5] Sul rapporto tra l’ottantanove e il globalismo e tra l’ottantanove e primato americano è fondamentale, oltre che la ricerca ultradecennale di Danilo Zolo, l’importante volume di R. di Leo, Il primato americano. Il punto di vista degli stati Uniti dopo la caduta del muro di Berlino, Bologna, Il Mulino, 2000, nonché i molti saggi pubblicati da quest’ultima sulla rivista Next. Strumenti per l’innovazione.
[6] Cfr. le pagine illuminanti su questo tema di P. Barcellona, La strategia dell’anima, Troina, Città aperta, 2003; Id., La moltitudine riformista, in L’Unità, 6 maggio, 2003, pp. 1 e 30.
[7] H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1964), Milano, Feltrinelli, 2001.
[8] M. Tronti, Tra passione e realismo, in La rivista del manifesto, n. 31, 2002, p. 59.
[9] Sui fiumi di inchiostro versati sul tema della fine dello stato, durante la breve vita felice della globalizzazione, pagine acute e ironiche in R. di Leo, Breve la vita felice della globalizzazione, in Next. Strumenti per l’innovazione, n. 14, 2002, pp. 86-92. Considerazioni interessanti, su questo tema, in Paul Magnette (Oltre il funzionalismo. L’Ue e il suo linguaggio costituzionale, in EuropaEurope, n. 2-3, 2001, pp. 165-179), il quale, con Rousseau e Kant, non solo sostiene che gli stati non sono bellicosi per natura, e che la guerra non fa parte dell’ontologia dello stato, ma rifiuta anche quella alternativa che condanna gli stati o a rimanere sovrani, con il rischio della guerra perpetua; oppure a rinunciare alla loro sovranità, formando uno stato federale (p. 173).
[10] Questo mi sembra l’esito a cui giungono prospettive, tra di loro molto diverse, come quella di Balibar, di Cacciari, quella propria della multilevel governance system, e quella dichiaratamente strumentale di Negri, le quali muovendo da una prospettiva radicalmente postnazionale (dal totale superamento della sovranità statale) e, insieme, dalla consapevolezza della impossibilità di pensare l’Europa sul modello dello stato nazionale e di fare del postnazionalismo una questione identitaria, finiscono col dimenticare che l’Europa si sta costituendo non in una terra di nessuno, ma in uno spazio pieno: con una egemonia.

2 commenti a “Da Berlino alle Twin Towers”

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