(Articolo pubblicato il 10 aprile su strisciarossa.it – Qui il link)
Gli archivi, si sa, spesso nascondono sorprese. Una di queste è capitata anche in quello di Pietro Ingrao, custodito presso il Crs, e si trattava di un documento contenuto nel faldone B46, intitolato “Memorie di guerra” e classificato come saggio definitivo, datato luglio 1998. Nilo Cardillo, nel giugno del 2016, sicuro che fosse del periodo 1939-1945, volle consultarlo. Si trattava, però, di un documento di altro tenore: un lungo dattiloscritto di impianto autobiografico rimasto inedito e sconosciuto e che, grazie a questa circostanza fortuita, è stato recentemente pubblicato da Ediesse nella collana Carte Pietro Ingrao (pp. 225, Euro 15,00). A curarne la pubblicazione è Alberto Olivetti, che scrive anche un interessante saggio conclusivo, il quale, pur con molti dubbi, ha scelto comprensibilmente di intitolarlo “Memoria”, onde evitare il rischio che anche i lettori potessero essere fuorviati come è accaduto a Cardillo.
Per comprendere meglio l’opera, tuttavia, appare opportuno partire proprio dal quel suo titolo originale, “Memorie di guerra”, o meglio ancora dalla parola guerra che è presente in tutta la narrazione in due modi differenti. Da un lato, essa è il conflitto vero e proprio che accompagna l’esistenza di Ingrao e ne scandisce il percorso e le svolte. Nato nell’anno in cui l’Italia entrava nella Prima guerra mondiale, a influire sulla sua prima grande scelta politica e di vita fu proprio un’altra guerra, quella civile spagnola che lo portò a schierarsi con i repubblicani e con il movimento cospirativo contro il fascismo. Durante la seconda guerra mondiale sarà partigiano e il suo percorso di maturazione politica, nell’Italia liberata, avverrà sempre sotto il segno della guerra, quella fredda e quella di nuovi conflitti come quello in Corea e, soprattutto, quello in Vietnam.
Dall’altro lato, la guerra è intesa in senso metaforico e allude alla strategia politica, anzi politica e culturale, del Partito comunista che si attua nella battaglia per le idee e che è basata su una concezione tipicamente gramsciana quale quello della guerra di posizione. Dopo la seconda guerra mondiale, mentre il Paese tornava alla democrazia, lo scontro politico era aspro e, come ricorda lo stesso Ingrao, “la lettura del mondo era sempre in linguaggio ‘militare’”.
Il volume si apre con gli anni giovanili di Ingrao e nei primi capitoli c’è un prevalere di argomenti autobiografici che nel corso del volume si riducono sino a scomparire, lasciando il posto all’analisi politica. Una scelta stilistica che è anche un efficace paradigma di come, all’epoca, la politica fosse molto più importante della dimensione personale.
Gli anni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale vedono l’emergere di Ingrao come dirigente del Partito comunista grazie, in primo luogo, al volere di Palmiro Togliatti che promosse una nuova e giovane classe dirigente nei posti chiave di guida politica del partito. A Ingrao spettò la direzione dell’Unità, postazione dalla quale partecipò a importanti battaglie politiche, come quella sulla legge truffa, e a fondamentali fatti che riguardavano il comunismo internazionale, come il XX congresso del Pcus e l’invasione di Budapest, “L’indimenticabile ‘56”. Nella ricostruzione di Ingrao giganteggia la figura di Togliatti che appare, senza dubbio, come un leader dotato di capacità straordinarie.
Sono anche, questi, anni di progressiva ascesa del consenso elettorale del Partito comunista e della sua capacità di radicamento nella società italiana e, a tal proposito, Ingrao parla di una forma di “dilatazione della politica” nella quale il partito, pur non senza perplessità, riesce a innestarsi nel corpo della società italiana e nei suoi conflitti. Questo “inserimento”, però, non avviene mai del tutto, anzi, durante gli anni sessanta si registra una sorta di distacco che nell’immediato non danneggia elettoralmente il partito, che anzi se ne avvantaggia, ma che incide sul lungo periodo, impedendo di dar vita a nuove forme del fare politica, danneggiando il partito e la sua capacità di rinnovamento.
È interessante notare come il volume ponga a conclusione dell’analisi italiana la primavera del 1978 con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro che Ingrao vive in prima persona in quanto all’epoca presidente della Camera. Quella data segna l’inizio della fine dei grandi partiti ma anche il passaggio a una nuova fase dello sviluppo capitalistico, con l’affermarsi del postfordismo e l’irrompere del neoliberismo. I partiti e il lavoro escono fuori come gli sconfitti di questa nuova fase che vede il rapido tracollo dell’Urss, sulla cui fine si interrogano le pagine conclusive.
Come si diceva all’inizio, “Memoria” è rimasto inedito molto probabilmente per volere dello stesso Ingrao; lo si può dedurre dal fatto che alcune sue parti sono poi confluite, persino letteralmente, nella sua autobiografia “Volevo la Luna”. Eppure, esso si rivela un testo molto utile, diverso da “Volevo la Luna” e da “Le cose impossibili”, con le quali costituisce una sorta di trilogia. Si tratta, infatti, di un testo completo, coerente, con uno stile asciutto e essenziale che contribuisce a farlo apprezzare senza che venga meno la ricchezza analitica e semantica di Ingrao. Ciò si nota, molto bene, nell’utilizzo di alcuni termini, tipicamente ingraiani, che appaiono come concetti. Si pensi, per fare un esempio, a “trama”, che Ingrao utilizza per dar conto della complessità sistemica politico-sociale dei fatti ed è mirata a concepire i processi come frutto di molteplici interrelazioni.
Le esperienze di cui si dà conto nell’opera sono state sconfitte, eppure i “vincitori” del tempo nuovo non appaiono così forti. A tal proposito si può concludere con le parole di Pietro Ingrao: “Devo dire che a volte non capisco un odio così furente, così prolungato verso i comunisti. Di che temete? Siamo diventati solo comuni, miseri mortali. E voi, dunque, dovreste stare tranquilli. O resta aperto un dubbio?”

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