«Il lavoro non può né deve essere ridotto alle forme storiche partico-lari che ha preso nelle società industriali, a partire dal XIX secolo, va-le a dire l’impiego salariato a tempo pieno. La forma salariata non è che un momento della lunga storia del lavoro»
(Alain Supiot, Critique du droit du travail, 1994)
Premessa

Malgrado le legislatura non sia ancora finita è da escludere che, al suo termine, mentre sono ancora pendenti ipotesi di riforma (rectius «controriforma») dell’importanza di quelle dell’ordinamento giudiziario e della stessa costituzione, si apportino ulteriori mutamenti nel settore del diritto del lavoro: il governo Berlusconi del resto ha appena «rivoluzionato» la materia con il decreto legislativo n. 276/2003. Può quindi tracciarsi un bilancio del quadro complessivo che il futuro esecutivo si troverà di fronte e individuare quali possano essere i provvedimenti più urgenti che una, ancora ipotetica, maggioranza diversa da quella attualmente al potere, dovrebbe iscrivere nel proprio programma, nonché le linee evolutive di un rilancio, più in generale, delle ca-pacità perequatrici e mitigatrici delle dinamiche del mercato tipiche del diritto del lavoro che ormai sembrano essersi fortemente affievolite, se non sterilizzate del tutto.

Chi vincerà le prossime elezioni si ritroverà il mercato del lavoro più flessibile d’Europa, connotato dal numero abnorme di tipologie contrattuali di reclutamento della mano d’opera caratterizzate in gran parte dalla temporaneità nell’impiego. A ciò si aggiunge l’esistenza di una quota di lavoro autonomo tra le più alte del vecchio continente , con vaste zone di «eterodirezione esistenziale», e ancora – nonostante la creazione del nuovo istituto del lavoro a progetto – sottoprotette in modo vistoso. Né può soddisfare l’attuale assetto delle relazioni industriali, vista la mancanza di regole certe ed esigibili in materia di rappresentanza e rappresentatività sindacale, disciplinata ancora – un decennio dopo il referendum abrogativo – da una precaria e irrazionale regolamentazione di «risulta», frutto della persistenza in vita di norme «oligopolistiche» che i quesiti referendari miravano chiaramente a rimuovere dal nostro ordinamento giuridico. La contrattazione collettiva nel frattempo non ha offerto di certo alterative pragmatiche e fondate direttamente sul consenso delle parti sociali capaci di sostituire il tanto atteso intervento parlamentare di riforma, mentre nella legislazione si è consolidato – per la comprensibile esi-genza di evitare il fenomeno dei cosiddetti «contratti pirata» – l’uso del termine «sindacati comparativamente più rappresentativi», la cui tensione con l’art. 39 della Costituzione e la cui inidoneità a misurare il grado di effettivo con-senso goduto dalle organizzazioni sindacali e a sorreggere la vasta problematica dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi (in specie quelli in deroga alla legge) sono largamente riconosciute.

Questa nozione di sindacato «rappresentativo» doveva in origine avere un uso puramente transitorio in vista di una credibile riscrittura delle regole dopo il voto popolare, ma invece si è pericolosamente stabilizzata venendo incontro a discutibili ragioni di rafforzamento dei sindacati tradizionalmente più forti, nel momento in cui la complessa operazione di deregulation del mercato del lavoro promossa con il Libro bianco indeboliva – in varie previsioni del d.lgs n. 276 – il ruolo della contrattazione collettiva di «calmiere» nel ricorso al lavoro atipico. Infine il quadro piuttosto desolante si chiude con la constatazio-ne che l’Italia continua ad essere l’unico paese insieme alla Grecia nell’Unione europea a non prevedere, in violazione anche di una disposizione ad hoc della Carta di Nizza, alcuna forma di protezione per i disoccupati di lungo periodo e i giovani in cerca di prima occupazione.

Su tutti questi diversi ma convergenti fronti i governi dell’Ulivo hanno, peraltro, dato una pessima prova, mostrando una irresponsabile mancanza di ini-ziativa riformista: il governo Prodi ha introdotto una forte iniezione di flessi-bilità nel sistema con la legge n. 196/1997 (più nota come «legge Treu»), ma queste misure non sono state compensate in alcun modo con le promesse misure di tutela in favore del lavoro autonomo eterodiretto, né con la «democra-tizzazione» del rapporto tra lavoratori e organizzazioni sindacali. Le due pro-poste di legge conosciute come «legge Smuraglia» e «legge Gasperoni», per quanto progressivamente addolcite nei loro contenuti garantistici, hanno superato solo il test di uno dei due rami del parlamento; persino quella flebile pro-tezione (a carattere sperimentale e solo in alcune zone del paese di particolare disagio sociale) dei disoccupati di lunga durata introdotta con la legge sul red-dito minimo di inserimento (che ha tutelato in modo assai imperfetto poche decine di migliaia di soggetti a fortissimo rischio di esclusione sociale), non solo non è stata generalizzata all’intero paese e irrobustita nelle prestazioni, ma è stata sostanzialmente fatta cadere.

Ricostruire un diritto del lavoro in grado di offrire un effettivo terreno di compromesso tra le ragioni dell’integrazione sistemica e quelle dell’integrazione sociale (per usare una nota formula habermasiana riassuntiva della ratio del welfare state) presupporrà innanzitutto una franca e chiara ricostruzione delle opzioni in gioco. Il centrosinistra ha già fallito a causa delle proprie divi-sioni interne e per la tendenza di tutte le sue componenti a paralizzare gli alleati, più che a definire e spiegare il proprio progetto. Per evitare che ciò possa accadere anche in futuro è necessario che si definiscano anzitempo le soluzioni in campo, approfondendo già oggi gli aspetti tecnico-giuridici, ma, altresì, che vengano investigate a fondo le «metafisiche influenti» che sottotendono le prime. Quel che ora serve non è l’ostentazione di una aprioristica e generica «unità», destinata a rivelarsi a breve una mera mossa elettoralistica, ma l’esposizione razionale delle differenti opinioni; da ciò sarà possibile più fa-cilmente arrivare ad un «accordo per intersezione», all’individuazione dei punti comuni e delle priorità non aggirabili.

Le soluzioni «monistiche»

Non vi è dubbio che per l’opera di confronto, per il varo del cantiere ideale delle riforme, si versi già in grave ritardo: in sostanza tutto deve essere ancor fatto. Tuttavia si può partire da un punto promettente di convergenza tra le varie anime che aderiscono all’Unione: vi è un vasto consenso – tra i provvedimenti da mettere da subito nell’agenda politica-sociale – nel riservare una priorità assoluta all’istituto della subordinazione, l’attuale «rubinetto delle tutele», o per modificarne radicalmente la gittata, sì da far scorrere il flusso delle garanzie anche su attività sino ad oggi escluse, o per creare altri rubinetti «paralleli», eventualmente di minore intensità. Su questo obiettivo (che tende in ogni caso ad allargare l’attuale fascia dei beneficiari del diritto del lavoro) si può dire che si è, anche in questa legislatura, accumulato un buon materiale di par-tenza, sul quale sono stati già raccolti ampi pareri, anche di ordine tecnico-dottrinario, che offrono una «base» di ampio respiro per la discussione. Una spinta a mettere al primo posto la revisione, quali che siano gli esiti di questa operazione, della summa divisio tra lavoro subordinato e lavoro autonomo – il primo regno dominato sino ad oggi dalla voluntas legis (e in funzione integra-trice dalla contrattazione collettiva) e il secondo dalla lex voluntatis dell’accordo individuale – deriva dalla diffusa insoddisfazione (se non preoccupazione) per la parzialissima riscrittura delle regole dell’ultimo settore realizzata con il d.lgs. del 2003, che, pur non abrogando la figura delle collaborazioni coordinate e continuative (ribadite comunque sine die per il pubblico impiego), ha legittimato la stipula di nuovi contratti di questo genere solo per «rapporti riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso» (art. 61), creando il nuovo contenitore dei cosiddetti «co.co.pro».

Ora una consistente parte della dottrina ha osservato che questa nuova area sembra non avere caratteristiche sociali tipiche e facili da riconoscere da parte della giurisprudenza, una sorta di «creazione a tavolino», la cui incerta natura darà luogo a infinite discussioni e battaglie interpretative. Continua inoltre a non esser chiaro quale sarà l’esito di plurimi contratti a progetto rinnovati senza soluzioni di continuità, posto che nel testo del d.lgs è ravvisabile una singolare contraddizione tra la volontà di impedire un reclutamento permanente di collaboratori da parte della medesima impresa (cfr. art. 62: contratto di «durata determinata o determinabile») e la mancata previsione di un limite temporale del singolo contratto e di una disciplina delle proroghe (che in mancanza di norme ad hoc si devono ritenere «libere»). Nel migliore dei casi, si dovranno attendere anni sino a che la giurisprudenza, in presenza di contratti «a progetto» che tendono all’eternità, si pronunci sulle conseguenze di un simile aggiramento della ratio della legge, che comunque è straordinariamente oscura sul punto delle sanzioni e dell’eventuale conversione del rapporto.

Comunque è indiscutibile che i «co.co.pro» rimangono lavoratori sottotutelati e che il divario che li separa dai «cugini subordinati» è ingiustificabile e irra-zionale, posto che spesso queste due categorie svolgono – in regimi produttivi di post-fordismo – attività largamente paragonabili sia in termine di durata che di qualità della prestazione. Nonostante gli abbondanti riferimenti alla Carta di Nizza il legislatore è stato molto parco nell’estendere anche ai «co.co.pro» le tutele essenziali (dalla giustificatezza del recesso alla fruizione di un periodo di riposo annuale) previste dal Bill of rights europeo, così come continua a pesare su questa area di lavoro autonomo l’assenza di ogni prote-zione «nel mercato» (dalla formazione al diritto alla continuità di reddito) cui questa figura di prestatore d’opera è più sensibile e interessata. Se occorrerà comunque rimettere mano alla disciplina del lavoro coordina-to e continuativo, sembra inevitabile che si ridiscuta se riassorbire almeno una parte di questa area produttiva in un contenitore più ampio e, in ogni caso, su come evitare nel diritto del lavoro la persistenza di «figli di un dio minore» che pur collaborano stabilmente con la stessa impresa.

La legge n.30/2001 e il conseguente d.lgs del 2003 dovranno peraltro essere necessariamente revisionati anche sotto altri profili: dalla rimozione dal nostro ordinamento di figure stravaganti di lavoratori come i lavoratori intermittenti e i soggetti in staff leasing (giustamente sconosciute in altre realtà del vecchio continente), impedendo una moltiplicazione senza alcuna reale esi-genza produttiva delle figure contrattuali «anomale», al ripristino dei poteri delle organizzazioni sindacali nel controllo della «flessibilità» (ridotti nella riforma del Polo), sino alla cancellazione delle modalità che consentono al datore di lavoro di rivendicare – in sostanza, a piacimento – ulteriori prestazioni al dipendente part time, sulla parte di tempo in teoria «liberata dal lavoro». Su questi punti negli ultimi mesi si sono levate richieste insistenti, soprattutto di fonte sindacale, ma anche qualche opinione dissenziente da parte dello schieramento più moderato dell’Unione: in ogni caso ad una politica di abrogazione delle leggi del Polo va accompagnata una strategia più generale e complessiva che si misuri apertamente con le ferite aperte da tempo nel sistema protettivo che non possono essere sanate ritornando sic et simpliciter alla situazione precedente.

Insomma la riforma della subordinazione o «attorno alla subordinazione» continua ad essere per gran parte del giuslavorismo progressista una meta-riforma, il motore del rilancio del diritto del lavoro nel nostro paese: come dimostra il fatto che proprio in questa materia siano stati presentati due propo-ste di legge che tuttavia non condividono né le soluzioni tecniche né l’impo-stazione del discorso, pur tendendo a realizzare una riorganizzazione dell’architettura delle tutele meno punitiva di quella attuale.

In prima approssimazione si può dire che mentre una parte della dottrina, e con essa alcuni partiti dell’Unione, sposa una filosofia «monista» mirando alla definizione di una nuova subordinazione «omni-comprensiva», un’altra parte dello schieramento politico e accademico progressista si è invece orientata verso una filosofia «pluralista», che mantiene un confine piuttosto netto tra pianeta del lavoro subordinato tradizionale e mondo del lavoro autonomo, anche eterodiretto, pur volendo dotare quest’ultimo dei diritti fondamentali. Queste differenti visioni coinvolgono anche altri punti sensibili delle politiche sociali: i seguaci della prima tendono in genere a trascurare i diritti «nel mercato» come quello alla continuità di reddito e vedere, con un nuovo «super-contratto» di lavoro, esaurito ogni problema di rappresentanza sindacale. I secondi sembrano insistere molto di più sui cosiddetti «nuovi» diritti (accesso al sapere e all’informazione, basic income, formazione permanente e continua…) che sulla mera generalizzazione delle prerogative classiche del lavoratore dpendente. Inoltre si guardano con un certo disfavore forme di rappresentanza uniche, in un sistema produttivo disperso e disgregato che la legge di per sé non potrebbe mai riassorbire.

Ora una parte della sinistra più radicale (ed anche l’orientamento prevalente nel maggior sindacato italiano) si è progressivamente attestata sull’idea «che il mondo del lavoro venga – per quanto possibile – riunificato attraverso il ri-conoscimento normativo di un tipo unitario e omogeneo di lavoro, ancorché articolato al suo interno» , vale a dire la creazione ex novo di un contratto di lavoro per conto altrui quando un «soggetto si obbliga, senza propria organizzazione di mezzi, a prestare la propria attività lavorativa, personalmente e continuativamente, in un progetto o organizzazione o impresa altrui» : nella versione parlamentare di questa ipotesi la nuova «super-subordinazione» si presenta come una modifica dell’attuale art. 2094 c.c. . La stipula di questo contratto comporta come effetto «normale» l’applicabilità in sostanza di tutta la normativa vigente in materia di lavoro subordinato; dal contenitore si esce solo per patto derogatorio individuale a forma necessariamente scritta. Insomma in questa prospettiva il legislatore giungerebbe a tagliare il nodo di Gordio, riunificando ciò che oggi appare artificialmente (ed artatamente) diviso, aggregando il mondo dei lavori in un regime unitario di tutele (anche con il patto in deroga rimarrebbe operante gran parte della legislazione lavoristica), premessa per un sistema unificato di rappresentanza.

Questa ambiziosa riscrittura dell’intera impalcatura delle garanzie (con effetti diretti e indiretti anche sul piano sindacale) non può non affascinare, soprattutto dopo anni nei quali vi è stata quasi esclusivamente (salvo qualche contromisura voluta a livello europeo) un’opera di deregulation dei rapporti di lavoro, sensibile alle sole esigenze delle imprese. Si scorge l’opera infaticabile di un giurista tanto geniale quanto coraggioso come Piergiovanni Alleva che ha avuto l’indiscutibile merito di avere scosso sin dagli anni novanta la dottrina dal torpore e dalla rassegnazione, costringendola a prendere in seria consi-derazione la via dell’innovazione radicale. Ma, a guardare più da vicino il progetto, sorgono numerose perplessità che riguardano non solo il piano tecnico-giuridico, ma in verità anche quello più squisitamente «ideale», e che in-vestono la «metafisica influente» che sorregge quella «grande trasformazione» che una parte della sinistra vorrebbe iscrivere nel programma di governo dell’opposizione.

Innanzitutto la strada prescelta non sembra perseguibile negli angusti con-fini nazionali, posto che la materia è da tempo ampiamente comunitarizzata: il contratto di lavoro «per conto terzi» con la sua interna dinamica legata al «patto derogatorio» resterebbe un curioso tentativo di elaborazione «italica» di un istituto – come quello della subordinazione – di importanza e rilievo continentale e recepito – almeno in via generale – dalle stesse Convenzioni Oil; inoltre sarebbe anche in una certa tensione con le aperture garantiste dell’Unione in questa materia. Le Corti europee (ed anche talvolta le direttive in materia sociale) tendono, infatti, a sdrammatizzare la distinzione tra lavoro subordinato, atipico e autonomo, assicurando comunque a tutti le garanzie es-senziali (vecchie e nuove) secondo il principio di non discriminazione: l’Unione d’altro canto insiste sui diritti che spettano al cittadino «laborioso» e non solo all’occupato «dipendente», come si evince con chiarezza dall’impianto ed anche dalle specifiche previsioni della Carta di Nizza.

Anche se il prevalere del «no» al referendum di ratifica del nuovo Trattato di Roma in Francia e Olanda sembra aver interrotto il processo di costituzionalizzazione dell’Unione, la proposta finisce con il rappresentare una opzione per una «rinazionalizzazione» aperta della materia, un atto non coerente per le speranze di effettiva costruzione di un modello sociale europeo (che, ad esempio, la Cgil ha sempre proclamato «senza se e senza ma») che – ci sembra – presuppongono dei «contropiani garantistici» offerti a tutte le forze politiche e sindacali del vecchio continente e non semplicemente «costruiti» sulle parti-colari vicende di un paese.

La soluzione che qui si discute è peraltro sottoposta ad una tensione interna, posto che consente attraverso il «patto derogatorio» di sottrarsi a quelle regole standard di lavoro, tutela e retribuzione che continua a mutuare dal vecchio mondo della «dipendenza»: del resto non potrebbe essere che così, a meno di non sottoporre il mercato del lavoro ad una gabbia di acciaio che ver-rebbe con certezza rigettata dalla realtà sociale. Ma con l’ingresso di questa differenziazione nell’ambito della tanto agognata unità, l’esito diventa molto meno incisivo di quel che si proclama. È evidente che per aree – inevitabilmente assai ampie – di lavoratori che dovessero scegliere strade di collabora-zione all’impresa meno tradizionali, molti dei classici diritti finirebbero o per perdere completamente di senso o per vedere attenuata la loro centralità. Ha, ancora, un qualche significato la reintegrazione nel posto di lavoro di un sog-getto che lavora a casa propria o i limiti di orario per chi è tenuto ad un risultato? Per non parlare di regole come quelle relative al «demansionamento» e alla tutela della professionalità fissate nello Statuto del 1970.

Una rimodulazione delle tutele sarebbe in ogni caso necessaria se non altro per mettere in connessione garanzie legali e dinamiche produttive. Anche se si volesse accettare l’idea che in qualche modo si possano riunificare tutti i lavori in un unico contenitore, l’operazione sarebbe in gran parte inutile, perché comunque le diverse modalità con cui si lavora concretamente condurrebbero all’introduzione di nuove distinzioni: non si può abolire il polimorfismo lavorativo per decreto. Peraltro il meccanismo della stessa «deroga» appare molto problematico. Se la deroga fosse puramente individuale, è facile obiettare che le imprese potrebbero indurre i singoli a scegliere contro i loro veri interessi, se invece fossero i grandi sindacati in via contrattuale a definire le strade per il recupero di una certa differenziazione nelle modalità di lavoro, allora si potrebbe replicare che in tal modo la legge consentirebbe a soggetti collettivi radicati storicamente nelle grandi fabbriche di «colonizzare» territori nei quali ancora non mostrano alcun serio radicamento.

Infine ci si domanda se sia lecito, sul piano delle opzioni ideali, costruire ancora la subordinazione di tipo standard come situazione «normale» e le altre modalità di collaborazione come «devianze» o eccezioni, possibili solo per via di uno «strappo» contrattuale. Un recente saggio di Umberto Carabelli mostra bene come in contesti produttivi post-fordisti o da «economia dell’informazione» il knoledge worker viene ad essere sottoposto – in virtù del con-tratto di lavoro subordinato – ad un surplus ed ad una intensificazione della prestazione. Il potere direttivo e quello di controllo, i principi di fedeltà e di diligenza, acquisiscono nuovo significato imponendo al dipendente un regime di costrizione ancor più stretto che nel passato perché i vincoli tendono ad espandersi all’aspetto qualitativo e intellettuale dell’attività dedotta in contratto.

Dietro il rilancio del lavoro «subordinato» standard (come modalità prima-ria di erogazione del lavoro) sembra emergere un atteggiamento di netto di-sfavore nei confronti di coloro che vogliono sfuggire a griglie e schemi così rigidi e totalizzanti, anche a costo di rompere le antiche solidarietà nell’ambito delle classi subalterne. Difficile sottrarsi all’impressione che la strada «monista» sia percorsa an-che per ragioni squisitamente «ideologiche», non per descrivere gli elementi effettivamente comuni a tutte le attività lavorative in funzione di una discipli-na organica del settore, ma per «prescrivere» comportamenti e riassorbire quella «crisi della subordinazione» che è stata anche esodo volontario dagli schemi omologanti e asserventi del lavoro salariato.

Del resto lo stesso Piergiovanni Alleva in un intervento pionieristico della metà degli anni novanta, che già suggeriva di riunificare i vari «lavori» nell’ambito di un medesimo contratto di lavoro, sosteneva l’esatto contrario di oggi: considerare come «normale» una situazione di collaborazione coordina-ta e continuativa e come «eccezione» – da apportarsi con un contratto in deroga – quella della subordinazione tradizionale. Un’opzione, ci pare, molto più ragionevole e vicina alla realtà ed anche alle istanze dei nuovi lavori.

La Scuola «pluralistica»: verso la flexicurity?

Un’altra parte della sinistra si è invece attestata su prospettive più pluralistiche che mantengono una certa aria di famiglia con la vecchia idea di uno «Statuto dei lavori», proposta nata nella seconda parte della legislatura precedente, poi ripresa nel Libro bianco e successivamente oggetto di approfondimenti ministeriali, dopo la riforma del mercato del lavoro del 2003, ma senza esiti di sorta. Pur non rinnegando esplicitamente l’obiettivo di un riequilibrio nelle tutele tra lavoro subordinato e altre modalità contrattuali con una copertura più ampia delle protezioni (grazie anche all’invenzione di nuove opportu-nità per chi svolge attività in favore di terzi) l’attuale governo ha intrapreso il falso binario della selvaggia deregulation del 2003 e della improvvisata crea-zione del nuovo contenitore sottotutelato del lavoro «a progetto».

Un disegno di legge su iniziativa di Giuliano Amato e Tiziano Treu ha in effetti rilanciato l’originaria filosofia dello «Statuto dei lavori» attraverso una strategia che offre una diversificata, anche se correlata, tutela garantistica su diversi piani, o per dirla con il noto «rapporto Supiot» sul futuro del diritto del lavoro in Europa – che costituisce la premessa di ordine teorico per le riscritture «pluralistiche» del diritto del lavoro – per «cerchi concentrici».

Ad un primo livello si tengono in considerazione tutte le forme di lavoro (volontariato, tirocinio, lavoro cooperativo o di pubblica utilità, associati in compartecipazione sino ai lavoratori autonomi in generale) cui si assegna un primo pacchetto di diritti – un minimo comun denominatore – quali le libertà associative e sindacali, la tutela della salute e della sicurezza, i requisiti minimi formali degli accordi contrattuali, modalità di preavviso per lo scioglimento del rapporto, il diritto alla formazione (compreso l’accesso a forme di congedo temporaneo), norme antidiscriminatorie e di tutela della privacy, facilitazione sui trattamenti pensionistici anche volontari, la promozione dell’occupazione per soggetti a rischio di esclusione sociale, ecc. La tutela si fa molto più intensa per i rapporti di lavoro autonomo coordinati e continuativi caratterizzati da una situazione di «dipendenza economica» (simile per situazione a quella che nell’altra proposta viene a definire il «contratto di prestazione per conto terzi»). Si aggiungono i diritti ad un «compenso equo e proporzionato alla qualità e quantità della prestazione» e a un sostegno al reddito nei periodi di «discontinuità del lavoro». Significative sono anche le più esigenti norme sullo scioglimento del rapporto (si prevede un indennizzo quando il recesso sia ingiustificato), sulla partecipazione sindacale e sull’accesso alle informazioni attinenti al lavoro in condizioni di parità con ogni altro lavoratore coinvolto (con una particolare attenzione ai telelavoratori). Molto avanzata è la previsione per cui i diritti di utilizzazione di eventuali invenzioni (ad esempio programmi per computer) diventano di appannaggio del lavoratore e non del committente. L’ulteriore cerchio riguarda l’area della dipendenza che in sostanza viene mantenuto nelle sue attuali prerogative.

Ora quel che qui interessa non sono le specifiche soluzioni, certo ancora molto prudenti e talvolta restrittive, soprattutto in materia di basic income (anche se va registrata qualche apertura rispetto a questi anni di sostanziale inerzia sul fronte della garanzia dello ius vitae), quanto il metodo, l’approccio ad una riordino della materia che dia finalmente senso e significato alla negletta norma di cui all’art. 35 della nostra Costituzione (la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni). Un metodo che mentre non forza nessuno nella camicia di Nesso degli schemi della subordinazione tende a non discriminare le forme di lavoro «anomale» offrendo tutele e protezioni, spesso originali.

Se si segue questo metodo in effetti si dovrebbe – almeno concettualmente – distinguere le prerogative individuali o collettive che ancora sono perseguibili all’interno del rapporto di lavoro, ancorché non di tipo subordinato, da quelle che in effetti spettano come cittadino «laborioso», come individuo che comunque tende alla propria autorealizzazione, sia che lavori, che abbia lavorato, che si appresti a lavorare. È infatti evidente nella proposta Amato-Treu che si vuole non solo rendere i soggetti più forti nel rapporto in corso, ma anche irrobustirli «nel mercato» attraverso un sostegno al reddito erogato pur in assenza di prestazioni o con percorsi di formazione permanente e continua.

Questo metodo individua una sorta di terza via tra due correnti opposte nel giuslavorismo di sinistra: tra la tendenza a ricentrare – come si è detto – il ba-ricentro del sistema attorno alla figura tradizionale del dipendente e la spinta ad abbandonare completamente il tentativo di sorreggere – anche in condizio-ni produttive mutate – nel rapporto la parte più debole attraverso regole pub-blicistiche, concentrando invece l’attenzione del legislatore solo sulla tutela ab externo offerta da una piena cittadinanza sociale . È ipotizzabile, forse, una strada intermedia che da un lato mantiene il controllo sull’operato delle imprese non deresponsabilizzandole totalmente e non forza ogni attività in forme «totalizzanti di intreccio tra vita e lavoro» e dall’altro lato accetta pie-namente la sfida di una inedita protezione del lavoro che non passa attraverso la disciplina delle sue modalità contrattuali. Tuttavia questo approccio neces-sita di essere radicalizzato non solo nelle soluzioni offerte, ma nell’impianto ricostruttivo.

Alain Supiot nella sua “Critique du droit du travail”, un testo ancora di bruciante attualità, parla di un «fallimento del diritto del lavoro, inteso come luogo di armonizzazione delle sue due facce: il lavoro come bene mercantile (o il lavoro astratto, risorsa di ricchezza esteriore e quantificabile) e il lavoro come espressione della persona (o lavoro concreto, risorsa di ric-chezza interiore non quantificabile)» . Il movimento delle garanzie ha sempre fatto prevalere il primo sul secondo, una concezione totalizzante e monolitica della subordinazione ha interdetto, per Supiot, ogni determinazione soggettiva, non necessariamente individuale, dentro il rapporto di lavoro.

Il giuslavorista di Nancy conclude quindi per un rilancio della liberté du travail come diritto costituzionale essenziale alla scelta, il più possibile non imposta, di tempi, carichi e modalità di lavoro, senza essere penalizzati nel possesso dei diritti essenziali, una libertà che trova oggi un significativo riscontro nella Carta di Nizza che vuole superare il più gretto e limitante «diritto al lavoro». Se queste preziose indicazioni di Supiot sono ancora valide, allora la riscrittura delle regole in materia sociale, non può seguire solo la consueta – a sinistra – filosofia del «pieno impiego» (anche se di certo deve incentivare l’occupazione), ma deve ambire a rovesciare il senso e il significato della flessibilità, rendendola un momento di scelta individuale e non di etero-imposizione, non osteggiando in sé i processi di fuoriuscita dalla società dell’impiego fisso, ma accompagnandoli con una corposa iniezione di diritti di cittadinanza e di principi di repressione delle discriminazioni. In Europa questa prospettiva viene spesso indicata come flexicurity, una strategia «a doppio taglio» per continuare a porre alcune regole non derogabili nei contratti di lavoro, ma al tempo stesso per facilitare l’autodeterminazione dei cittadini come soggetti capaci di scegliere.

Le diverse anime della sinistra mostrano alla fine di concordare sul fatto che alcuni diritti «nel contratto» siano in qualche modo generalizzati, e al tempo stesso si mostrano piuttosto restie a concedere che la vera leva per l’intervento sociale risieda in quei «nuovi diritti» che soli riescono a scherma-re il singolo dalle fluidità e mobilità produttive proprie del nuovo capitale e a proteggerlo al tempo stesso da una specializzazione forzata in attività mortificanti o penalizzanti: il basic income e la formazione permanente e continua (intesa come accesso libero e senza interruzioni temporali al sapere e all’informazione e non come addestramento coattivo al lavoro, come workfare), di-ritti che il Bill of rights europeo di Nizza considera e tutela come prerogative fondamentali di tutti i residenti stabili nel vecchio continente e non dei soli lavoratori.

Può essere utile, a questo proposito, rileggere le conclusioni del «rapporto Supiot»: il concetto di cittadinanza sociale potrebbe sintetizzare gli obiettivi di una rimodulazione del diritto del lavoro e del diritto sociale in genere. Nono-stante la diversità di concezioni nazionali, questo concetto potrebbe costituire uno strumento teorico adeguato per pensare il diritto del lavoro su scala euro-pea. Esso presenta l’interessante caratteristica di essere inglobante (copre numerosi diritti, non soltanto l’iscrizione all’assicurazione sociale); lega i diritti sociali alla nozione di integrazione sociale e non soltanto a quella del lavoro: soprattutto connota l’idea di partecipazione». Non è certamente sufficiente, né auspicabile, una «rivoluzione dall’alto», frutto solo di un più stretto raccordo con le linee evolutive del diritto del lavoro europeo: nei primi tentativi di costruzione di un movimento contro il «precariato» attorno alle scadenze della Mayday , reddito di cittadinanza e flexicurity sono le parole d’ordine emergenti. Alla sinistra basterebbe restare all’ascolto.

Un commento a “Generalizzare i diritti o la subordinazione? Appunti per il rilancio del diritto del lavoro in Italia”

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