bilancioPETRINI Roberto, coordinatore. La discussione che mi accingo a coordinare si riferisce alla decisione di bilancio nel sistema maggioritario ed è stimolata dalla recente pubblicazione dell’omonimo libro di Marcello Degni. Il tema della finanza pubblica deve essere messo a fuoco dopo una fase storica ed istituzionale che ha visto l’introduzione del federalismo, dei criteri di Maastricht e del maggioritario, una serie di eventi che hanno in qualche modo rimescolato le carte della politica economica italiana, incidendo su prassi, procedure ed anche risultati. Quello che non cambia «è la considerazione del bilancio come un luogo irriducibile della democrazia rappresentativa».
Per discuterne abbiamo qui Paolo De Ioanna che è consigliere di Stato e che è stato – questo lo ricordo come giornalista – capo di Gabinetto del ministro Ciampi e uno dei fondatori del Servizio Bilancio dello Stato; Alfonso Di Giovine, che è un professore di diritto costituzionale dell’Università di Torino; Marigia Maulucci, che è segretaria confederale della Cgil; Antonio Pedone, che è uno dei padri della scienza delle finanze in Italia; Laura Pennacchi, che è deputata dei Democratici Sinistra ed è stata Sottosegretario al Tesoro, ai tempi del centro-sinistra. Comincerei con questo ordine chiamando subito ad intervenire Paolo De Ioanna.
DE IOANNA Paolo. Il compito di chi apre le «ostilità», diciamo, è sempre meno facile, comunque io sono molto facilitato dalla struttura espositiva del libro e dal modo come affronta queste questioni. Dirò poche cose così, in avvio: direi che in questo libro c’è un po’, nel modo di vedere, la sintesi e i fili di una lunga riflessione. Una riflessione che si è misurata, diciamo, incrociando l’esperienza pratica nella lunga fase e la riflessione teorica. Credo che effettivamente questo libro sia uno strumento utile perché oltre ad avere il vantaggio competitivo insito nel tempo e nell’aggiornamento, (è la cosa sicuramente più aggiornata e più completa che sia in questo momento in giro) ha anche il pregio, non secondario, di riuscire a chiarire e intrecciare bene i piani di tipo istituzionale e di tipo economico che convergono nella decisione di bilancio.
È un po’ il tema lungo il quale abbiamo, nel corso di questi anni, discusso collettivamente, con la quantità di persone – pochi – che hanno mantenuto un dialogo aperto e che è iniziato, praticamente, quando all’incirca venticinque anni fa, nel 1978, abbiamo avviato nel Paese una riflessione istituzionale che ha aperto delle fasi e dei problemi nuovi. Ora cerco, in questo primo giro, di porre poche questioni, non più di due o tre, che forse possiamo riprendere strada facendo.
La prima è che in fondo questo libro ripropone con chiarezza le questioni da dove – a mio modo di vedere – occorre riprendere, ricominciare, dove è necessario un nuovo inizio, se vogliamo considerare la decisione di bilancio e le procedure della decisione di bilancio come uno strumento e non come un fine. Purtroppo il nostro è un Paese, come dire, dove abbiamo una grande passione nell’eludere tutti i punti dove sarebbe necessario un sovrappiù di trasparenza, di conflittualità sana tra le istituzioni, di un giudizio dove tecnica e politica si intrecciano e, alla fine, possa risultare chiaro per i parlamentari e per i cittadini, qual è il punto di sintesi, quali sono i punti in discussione.
La mia posizione sulle scelte attuate nella legislatura in corso in tema di politica di bilancio è molto chiara, l’ho espressa in forma pubblica, ed è di profondo dissenso. Non vorrei soffermarmi su questi aspetti ma dire quanto in questi anni, quel poco o quel molto di trasparenza, di sistematicità che con fatica, con approssimazione si è riusciti a conquistare sul terreno della conoscibilità e della confrontabilità intertemporale dei conti pubblici, a mio modo di vedere, è andato largamente perduto. Questo è un dato di una certa importanza.
Il libro ci consente in qualche modo di ripartire, riproponendoci in modo giusto e corretto alcune questioni: qual è il formato per la decisione politico-parlamentare giusto, in senso non etico ma pratico? Quali sono le politiche e il formato attraverso il quale le politiche di settore devono essere tradotte in priorità finanziarie? Era un po’ questo il tema intorno al quale, a metà degli anni Settanta, inizia una riflessione, che poi, con la Legge n. 94/1997, giunge ad una riclassificazione del bilancio in Parlamento. Al di là del giudizio che possiamo dare su questi strumenti è abbastanza inquietante il fatto che noi ci ritroviamo in una condizione, al di là delle polemiche del momento presente, di grande opacità sui conti pubblici. Ci troviamo in una condizione nella quale anche per gli specialisti è estremamente difficile capire in questo momento qual è la natura delle questioni sulle quali per esempio si apre il divario tra fabbisogno e indebitamento netto e sul quale la Commissione europea ci chiede dei chiarimenti.
Il livello di offuscamento, uso questo termine perché non ne so trovare in questo momento un altro, è notevolmente aumentato, e questo è un dato. Allora chi vuol rimettere mano con uno spirito possibilmente bipartisan a questi temi dovrebbe ripartire da questo punto. Cioè: qual è il formato corretto per la decisione parlamentare; che cosa non ha funzionato nelle riforme degli anni passati e, soprattutto, che cosa non è stato fatto per implementare in qualche modo queste riforme.
Naturalmente questo tema del formato della decisione non è un tema tecnico: è una questione che spesso ho portato all’attenzione degli amici della Ragioneria. Non c’è un formato contabile della decisione di bilancio che nasconda o possa nascondere quella che è la sostanza politica, istituzionale, quindi, «il bilancio è il luogo dove la democrazia si invera e dove le priorità politiche di settore diventano priorità finanziarie». Ma queste priorità finanziarie devono essere, come dire, al margine, capite e rese trasparenti; devono essere comprese innanzitutto dai rappresentanti dei cittadini. Purtroppo, lo dico senza nessun elemento di qualunquismo, credo che in questo momento in Senato, dove si discute il maxiemendamento che si presenterà o non si presenterà, i parlamentari in condizione di intervenire con piena consapevolezza sulle questioni che sono sul tappeto, si contano sulle dita di una sola mano.
Questa è una cosa che ci deve far riflettere perché, se è vero che il bilancio è il luogo della decisione e della trasparenza, bè, questo è un elemento inquietante dal punto di vista della democrazia.
Dunque – e mi avvio alla conclusione – occorre una riflessione che parte esattamente dal valore politico e istituzionale del bilancio come luogo della trasparenza e come luogo della responsabilità.
A metà della legislatura passata, in Francia, con un Governo di sinistra, il Ministro delle finanze fu investito da una forte polemica sulla cosiddetta cagnotte. La Commissione finanza dell’Assemblea Nazionale scoprì che c’era una sottostima delle entrate di circa il 15 per cento. Questo significava che tutta la politica di bilancio che il Governo della sinistra proponeva, era una politica falsata o in parte falsata. Questa questione apre un grande dibattito nell’Assemblea Nazionale ed il dibattito, affrontato con spirito assolutamente bipartisan, porta ad una grande riforma dell’ordinanza del 1959, normativa di rango subcostituzionale che attuava la Costituzione della Quinta Repubblica per quanto riguarda la decisione di bilancio in Parlamento. Questa riforma fatta con spirito istituzionale bipartisan è stata ripresa dal Governo di centro-destra di Raffarin. Questa riforma prevedeva una graduale implementazione del bilancio in un arco di cinque anni e il cuore di questa riforma, come usiamo anche noi dire, era passare da un bilancio finanziario ad un bilancio per risultati articolato intorno alla definizione di una serie di indicatori di performance, che, nei diversi settori, consentono di unire l’autorizzazione finanziaria ex ante ad una valutazione ex post dei risultati. Dopo quattro anni di sperimentazione, in questo momento, sul sito del Ministero delle finanze francesi, se lo cliccate, sono presentati i 1.300 indicatori di performance che corrispondono a 660 obiettivi che corrispondono a loro volta a 132 programmi, che sono le 132 politiche pubbliche sulle quali l’Assemblea Nazionale vota, emenda e discute. In questo momento in Francia si sta discutendo sulla significatività di questa riforma, che è il frutto di un lavoro di quattro-cinque anni.
Una riforma fatta da un Governo di sinistra, è stata implementata da un Governo di centro-destra, sulla base di una comune preoccupazione: che il bilancio è il luogo della responsabilità e della trasparenza, dove si misura il divario tra le promesse e i risultati, dove si misurano le responsabilità anche amministrative dall’alta dirigenza. Credo che nelle intenzioni di chi fece le riforme italiane (per quanto concerne gli ultimi anni, penso in particolare alla Legge n. 94 del 1997) c’era qualcosa di simile. Probabilmente alcune norme erano sbagliate, perfettibili. Però, io rilevo una netta diversità di risposta ad un problema di interesse istituzionale nazionale, in ordine alle modalità con le quali i gruppi dirigenti, (intendendo con questa definizione non solo la classe politica, ma tutti quelli che in un Paese hanno responsabilità, come dire, sull’idea dell’avvenire del proprio Paese), hanno reagito di fronte ad una questione simile. La Francia e l’Italia sono, in fondo, due Paesi simili, con analoghe tradizioni di diritto amministrativo, con gruppi dirigenti che hanno in qualche modo molte radici in comune. Da una parte, abbiamo l’esperienza di trasparenza istituzionale, di responsabilità, di sperimentazione, di coinvolgimento delle Amministrazioni e dall’altra parte, abbiamo una situazione nella quale praticamente quel po’ di innovazione che c’era nel nostro ordinamento è stata lasciata gradualmente deperire. Si ricomincia continuamente da capo, e in questa legislatura, il problema di fondo non è stato quello di riprendere un discorso di trasparenza, di responsabilità, ma semplicemente un problema di potere di decisione, di aumento della discrezionalità del Ministero dell’economia sulle poste di bilancio.
Concludo dicendo che quello che è avvenuto in questa legislatura, a mio modo di vedere, è, in un certo senso, la prova dell’errore analitico di coloro che sostengono che il bilancio è un affare del Governo; perché quanto più lo diventa, sottratto a elementi di trasparenza e di controllo democratico, tanto più quegli effetti di logrolling, di influenza sotterranea, di mancanza di traduzione politica delle scelte in priorità finanziaria, si accentuano. Dunque è la controprova che almeno in questo la democrazia rappresentativa è largamente il miglior sistema, a condizione che consenta al Parlamento di fare il suo mestiere. E il mestiere richiede trasparenza nei documenti, confrontabilità dei dati, un grado di emendabilità reale che non riduca il processo decisionale in una kermesse rituale puramente ad pompam, ma che veda effettivamente applicarsi un confronto comprensibile, innanzitutto per i parlamentari, e soprattutto per i cittadini.
PETRINI Roberto. L’affermazione di De Ioanna riguardo l’oscurità dei conti pubblici e la difficoltà anche degli specialisti a comprenderli che, come cittadino, mi getta nello sconforto, mi conforta invece come giornalista, perché spesso abbiamo delle grosse difficoltà in parte giustificate da una oggettiva astrusità dei numeri di finanza pubblica. Vorrei fare, se posso, sempre valendomi della zona franca che hanno i giornalisti se pure in una platea invece di specialisti, una piccola riflessione prima di invitare ad intervenire Alfonso Di Giovine, che è un costituzionalista.
Dal punto di vista del cittadino, dell’uomo della strada, ad esempio, il maggioritario ha creato delle aspettative per quello che riguarda la capacità di governo della spesa pubblica, perché in qualche modo si pensava almeno che il nuovo sistema avrebbe dovuto dare la possibilità di porla sotto controllo. Invece negli ultimi tre anni le spese correnti, come sappiamo tutti noi, sono cresciute.
Si sarebbe dovuto, e anche questa è un’aspettativa piuttosto diffusa, limitare gli appetiti dei Gruppi parlamentari e dei partiti che compongono la maggioranza: il famoso «assalto alla diligenza», che noi cronisti descriviamo ogni anno durante la sessione di bilancio. Emendamenti inseriti alla fine del processo di decisione sulla navigazione del Po, su osservatori dell’agricoltura dislocati in varie località del Sud, finanziamenti discrezionali al campus biomedico, ecc. Anche questa è un’altra aspettativa delusa.
Che poi il maggioritario, comunque il nuovo assetto istituzionale che si è venuto a creare negli anni Novanta, consentisse un maggiore controllo dell’Esecutivo sulla propria maggioranza, anche in questo caso aspettativa delusa, perché io ricordo che l’anno scorso il 90 per cento della finanziaria fu veicolata attraverso un decreto-legge. A me sfuggono tutte le dinamiche, come dire giuridiche, e così via, però da cronista e da cittadino avverto una certa discrepanza tra quelle che erano le aspettative e la realtà. Allora mi chiedo: è il maggioritario in sé oppure c’è qualcosa che non va?
DI GIOVINE Alfonso. In un’ottica costituzionale, proverei intanto a dire che si parla comunemente di sistema maggioritario, ma in realtà, non c’è un sistema maggioritario, bensì ci sono più sistemi maggioritari. Tanto per fare due esempi, la Francia che è già stata citata, ma anche gli Stati Uniti, in cui vi è un equilibrio tra i poteri, tipico dei modelli presidenziali, dove al forte potere esecutivo si contrappone un altrettanto forte potere legislativo e ciò è particolarmente vero per quel che riguarda la decisione di bilancio in cui il Congresso, il potere legislativo, ha un grosso peso e molte politiche presidenziali sono state bocciate o ridimensionate sulla base della decisione legislativa di spesa. Vi sono sistemi maggioritari che prevedono un equilibrio fra i poteri e sistemi maggioritari invece di tipo sbilanciato, come si può qualificare la situazione italiana. E in questo senso direi che il sistema maggioritario più sbilanciato, il sistema che prevede l’abbassamento (loro dicono appunto l’abaissement) del Parlamento è il sistema francese che, proprio in materia finanziaria, dà al Governo il potere di dichiarare inammissibili eventuali emendamenti parlamentari, e così via. Quindi, è indubbio che di sistemi maggioritari se ne possono concepire diversi: sistemi maggioritari in cui il Parlamento ha un ruolo dialettico importante e sistemi maggioritari in cui il Parlamento ha un ruolo ratificatorio.
Direi che questa distinzione va tenuta presente, ma bisogna anche tenere presente che è indubbio che il sistema maggioritario, a questo punto usiamo il singolare, accentua la dimensione plebiscitaria della democrazia. Una dimensione che è ineliminabile ma che può essere più o meno, appunto, protetta, più o meno avvantaggiata a seconda dei vari meccanismi costituzionali.
Ecco, in questo quadro il sistema italiano si configura come maggioritario sbilanciato, in cui tendono a prevalere il rito dell’approvazione parlamentare, il super premier, il fatto che la decisione di bilancio viene inevitabilmente avocata al sistema maggioritario.Sarebbe di contro necessario un maggiore equilibrio fra i due poteri, un ruolo non meramente ratificatorio del Parlamento, anche perché mentre si parla di decisione di bilancio va ribadito che la democrazia non può essere solo decisione.
La democrazia deve essere anche deliberazione nel senso anglosassone, la deliberative democracy e cioè la democrazia che coinvolge i vari soggetti politici, istituzionali, sociali, i poteri diffusi nella società e che quindi pensa alla decisione come all’elemento finale di un processo deliberativo.
Credo molto al processo deliberativo e credo invece molto poco all’«effetto democrazia» che si produce con i meccanismi plebiscitari e con i meccanismi decisionali all’interno dell’esecutivo, cioè quei meccanismi senza confronto con le realtà politiche istituzionali che rendono viva la democrazia.
In questo senso direi che il carattere sbilanciato della nostra democrazia è molto evidente proprio perché tende a svuotare la decisione, in questo caso parliamo di decisione di bilancio, ma il discorso può essere esteso più in generale alla decisione politica, di ogni modalità partecipativa dal basso delle grandi realtà sociali.
Un esempio, se vogliamo dal punto di vista del costituzionalista, ancora più clamoroso, è proprio nella vicenda della riforma costituzionale. Se neppure una riforma di revisione costituzionale, (il primo a fare questo errore è stato il centro-sinistra con quella improvvida decisione – mi ricordo la data perché è una data celebre – dell’8 marzo del 2001, in cui è stato approvato il Titolo V, con soli quattro voti di maggioranza) che almeno come rango teorico è superiore alla decisione di bilancio viene assorbita nella prospettiva maggioritaria, nell’ottica maggioritaria, è chiaro che vi è qualcosa che non va. Il fatto, cioè, che il nostro maggioritario, questo è anche il punto, non è un maggioritario che viene da lunghe o lunghissime tradizioni storiche, ma è un maggioritario nato dieci anni fa in un clima anti-politico, anti-partitico. Mi dispiace, adesso, dicendo anti-partitico, il ricordo di una frase che ho già citato in un mio saggio sul Presidente della Repubblica.
Quando Ciampi è stato Presidente del Consiglio ebbe a dire con soddisfazione (e questo vi fa capire il clima dell’epoca, se un uomo come Ciampi poteva dire questo con soddisfazione) all’uscita del Consiglio dei Ministri che aveva approvato il testo del disegno di legge finanziaria che «i partiti politici la finanziaria l’hanno letta sui giornali». E no, questo non va, perché i partiti politici possono essere esclusi dal Consiglio di Amministrazione della Rai, ma non dalla finanziaria; cioè, la legge fondamentale che è «il cuore del sistema rappresentativo» i partiti politici e cioè le grandi realtà politiche che rappresentano milioni di cittadini, non possono leggerla sui giornali, devono concorrere alla sua formazione, devono concorrere a produrla, a verificarla e così via. E quindi il nostro è un maggioritario nato in questo clima anti-politico, anti-partitico sull’onda di una decisione, mi sia permesso anche questo – come comparatista – di dirlo, di assoluta anomalia.
Nessun Paese paragonabile all’Italia quindi appartenente all’upper class della democrazia, ha cambiato il proprio sistema elettorale per referendum, nessuno, ma proprio nessuno, non dico nessuno per dire uno. Tutte queste cose vanno tenute presenti quando si parla di sistema politico e quindi nell’ambito del sistema politico, di quella decisione fondamentale che è la decisione di bilancio.
Concludo osservando che può apparire astrattamente illuminista la tesi della necessità di allargamento delle aree protette dalla decisione politica. Ci devono essere, cioè, delle aree e fra queste c’è anche quella di bilancio in cui il dato tecnico, la conoscenza tecnica, che vuol dire anche la trasparenza politica, deve prevalere sul decisionismo politico. Questo è giustissimo, ma dico solo che ambientato nel sistema italiano questa esigenza correttissima appare un po’ ottativa in un contesto in cui – ripeto – la stessa decisione costituzionale è assorbita, rientra, viene considerata ed è stata considerata come rientrante nella decisione maggioritaria.È indubbio che un maggioritario così grezzo, nato in condizioni così eccezionali e in parte casuali, per il momento non può che dare – a mio giudizio – cattivi esiti. Uno dei possibili cattivi esiti, sarà appunto la riforma costituzionale.
PETRINI Roberto La decisione dovrebbe essere il risultato finale di un processo deliberativo. Pare che così non sia, almeno in questa fase.Prima si parlava di un aumento di discrezionalità del Ministero dell’economia. Mi vengono in mente alcuni dei provvedimenti degli ultimi tempi come il decreto «tagliaspese», come il «tetto del 2 per cento» posto in modo trasversale e indiscriminato ai vari capitoli di spesa. Questo si affianca anche a un calo di tensione, ad un accantonamento della politica di concertazione con il sindacato. Vorrei sentire adesso Marigia Maulucci.
MAULUCCI Marigia. È fuori discussione che la decisione di bilancio è il luogo della democrazia di un Governo, ma è altresì vero che le politiche di bilancio sono la carta d’identità della coalizione che rappresenta in quanto le sue scelte di politica economica si sostanziano e si inverano nelle scelte di bilancio. Questo è un dato che per certi versi il sistema maggioritario può enfatizzare e rendere più trasparente, perché è evidente che una coalizione che si presenta alle elezioni e chiede il voto ai cittadini su un programma di Governo, se vince, deve avere gli strumenti per attuare quel programma. È altresì evidente che poiché le risorse pubbliche sono un bene comune da salvaguardare, bisogna trovare il modo, e questo credo che sia un lavoro in gran parte da fare, per attuare gli opportuni contrappesi per evitare che nell’attivare legittime scelte di politica economica, che si inverano in una politica di bilancio, il Governo produca situazioni di squilibrio nei conti.
Tutto questo è, non solo lontanissimo dalla realtà di questi ultimi tre anni, ma anche dalle caratteristiche del sistema maggioritario italiano, che non solo è imperfetto per le ragioni che venivano dette precedentemente, non solo ha bisogno di contrappesi e strumenti di controllo, ma è un sistema malato.La ragione a mio parere sta nell’anomalia di questo esecutivo. Non c’è in realtà una vera coalizione; c’è un Presidente del Consiglio che va in televisione e sigla il programma con gli italiani esprimendo un’inaccettabile autoreferenzialità ed un approccio autocratico. Questo per le parti sociali, per il sindacato, equivale ad un treno che passa sulla testa.
I primi treni sono state le cartolarizzazioni con cui si vendeva da una parte e si comprava dall’altra. La creatività della finanza di questi tre anni di politica ha prodotto un sistema senza nessuna trasparenza, senza nessun controllo, senza nessuna verifica.Il «tagliaspese», strumento anticostituzionale, ha esautorato il Parlamento e nella nuova versione all’inglese del tetto del «2 per cento», si configura come una misura che è il contrario di una rigorosa programmazione.Non è chiaro dove e come si taglia e nemmeno se chi decide, è in grado di farlo. Ciò rende la decisione incerta e confusa, le coperture finanziarie evanescenti, gli effetti indeterminati. L’unico vero contrappeso alle politiche di bilancio di questo Governo, espressione di un sistema malato, è l’Unione Europea. Altri non ce ne sono.
Non si tratta di un contrappeso democratico ma finanziario, che opera attraverso un vincolo esterno sul saldo complessivo, per certi aspetti necessario, ma sicuramente non sufficiente.
Vengo alla domanda. Noi abbiamo costruito per anni un sistema forse un po’ complicato, ma efficace, quando abbiamo ragionato sul metodo della concertazione, sulla politica dei redditi, che è stato uno strumento utilissimo da tutti i punti di vista in questo Paese, un sistema nel quale il Governo discuteva insieme ai corpi della rappresentanza sociale gli obiettivi di politica economica e di finanza pubblica. I corpi della rappresentanza sociale avevano il diritto di proposta. Questa discussione su questa proposta e sulla verifica dei contenuti delle indicazioni veniva assunta dall’esecutivo che, se d’accordo la sosteneva in Parlamento, altrimenti sosteneva le sue decisioni; infine, il Parlamento decideva.
Ho richiamato schematicamente un sistema che non esiste più. In primo luogo per attuare un processo di questo genere ci deve essere un confronto con organismi e con corpi intermedi che siano rappresentativi. Già dalla seconda fase del Governo del centro-sinistra la rappresentatività dei soggetti che devono discutere le politiche di bilancio e le linee del documento di programmazione economica e finanziaria, si è progressivamente annacquata. Non voglio fare un discorso di monopolio o di rappresentanza, ma di rappresentatività reale dei soggetti chiamati a Palazzo Chigi a discutere delle caratteristiche del documento di programmazione economica e finanziaria. Una verifica reale sul peso e la rappresentanza di ciascuno.
Noi andiamo normalmente una volta l’anno, da parecchi anni, a Palazzo Chigi. Da cinque-sei anni a questa parte, ci sono in quella stanza in cui è faticosissimo trovare un posto a sedere, cinquanta sigle; ci sono una decina di sigle sindacali, la maggior parte delle quali nessuno di noi sa chi siano e che cosa rappresentino. Questo, ovviamente, rende molto più complicata una decisione forte rispetto alle scelte da fare. È evidente che se lì ci sono dei soggetti rappresentativi che presentano e che rappresentano degli interessi, è scelta poi del Governo di come trasformare quella richiesta e quella presenza di interesse in interesse generale, come riportare quella istanza all’interno del Parlamento, ma per fare questo è essenziale la valutazione della consistenza dei soggetti che siedono al tavolo con l’esecutivo.
Quando le sedi della democrazia e del confronto vengono così svuotate e diventano sostanzialmente delle passerelle in cui ognuno dice la sua e non c’è una misura del confronto, una misura della rappresentanza, svanisce ogni cogenza delle questioni che vengono discusse a quel tavolo.
Il primo anno di questo Governo, non abbiamo potuto discutere con il Ministro dell’economia perché il Presidente del Consiglio ci ha detto che il Ministro dell’economia stava ancora facendo i conti e quindi non poteva discutere con noi. Abbiamo poi scoperto che non stava facendo i conti, ma era al TG1 a spiegare agli italiani lo stato dei conti – in televisione – e noi stavamo in una stanza ad aspettare, a parlare di nulla.
Quest’anno, il neoministro “tecnico” Siniscalco ci ha spiegato che aveva una mail e un sito, e che ognuno di noi volendo poteva mandare le sue considerazioni sul DPEF al sito www….. oppure scrivergli una mail. Non so se questa è la democrazia. So con certezza che non è così che si fa e che quello dovrebbe essere il tavolo in cui si misurano e si confrontano gli interessi.
Sempre quest’anno ci ha detto – è vero, avete ragione – torno tra due giorni e assumo tutte le cose che avete detto e, tornato dopo due giorni, non ha assunto ovviamente niente, perché in due giorni non si fa la mediazione degli interessi di tutti.Gli abbiamo chiesto il tasso di inflazione programmata (perché è un interesse forte delle organizzazioni sindacali conoscere il tasso di inflazione programmata): ha detto che lo sapeva, ma che non lo diceva e che lo avremmo letto, scritto da qualche parte.
Credo che in questa situazione, dobbiamo ragionare su come è possibile costruire un sistema reale di controllo, di verifica che renda il Parlamento, gli organi della rappresentanza sociale e anche gli enti locali capaci di rappresentare validamente le rispettive istanze. Al punto in cui siamo il Governo decide veramente da solo.Bisogna costruire un sistema capace di risolvere in modo non elusivo la potenziale frizione e contraddizione fra la legittimità dell’Esecutivo di portare avanti la sua linea di politica economica e di tradurla in scelte di bilancio, che è una cosa assolutamente legittima e la funzione di altri soggetti, che devono concorrere in maniera ovviamente non consociativa, ma in rappresentanza dei propri interessi a formare quella decisione, o a modificare quella decisione, che incide su interessi e risorse comuni. È l’utilizzo delle risorse di tutti che giustifica la fissazione di limiti che non possono esaurirsi nel vincolo tecnico che viene dall’Europa. Se non si trova un punto di equilibrio non solo avremo un sistema maggioritario imperfetto, ma una democrazia zoppicante.
Non possiamo rinunciare ai vantaggi del sistema maggioritario. Non credo che un sistema proporzionale da questo punto di vista sarebbe meglio. Peraltro, siamo in una situazione dove c’è una coalizione che ha una maggioranza in Parlamento che consente ampi margini di manovra e si riduce alla posizione della fiducia, evidentemente per difendersi da sé stessa. È chiaro che il sistema maggioritario italiano deve essere riequilibrato.
PETRINI Roberto Credo di poter interpretare l’andamento della discussione fino a questo momento, suggerendo di continuare con l’analisi in questa prima tornata e nella seconda cominciare magari con qualche ricetta e qualche proposta. Una cosa che mi viene da dire è raccontare semplicemente quello che abbiamo scritto sui giornali relativamente alla nascita e alla presentazione dell’emendamento sulla riduzione fiscale. Ricordo che in un primo momento, nella seconda metà del mese scorso, fu presentato dal Ministero del tesoro un emendamento che proponeva di destinare tre quarti delle risorse al taglio dell’IRAP, (quindi alla riduzione delle tasse per le imprese) e questo emendamento avvenne dopo una notte in cui ci fu un lungo vertice tra i partiti di maggioranza e il Ministro del tesoro.Poi, il Presidente del Consiglio da Bratislava minacciò le elezioni anticipate e addirittura di portare Forza Italia da sola alle consultazioni elettorali. Ne uscì quindi una riforma con un taglio fiscale di entità raddoppiata di cui tuttavia il 40 per cento trova la copertura in un condono edilizio e nella riduzione delle risorse in conto capitale. Mi chiedo, ad esempio, un simile racconto in quale delle varie anomalie del nostro sistema va inquadrato, professor Pedone.
PEDONE Antonio. Comincio a rispondere a questa domanda perché inquadra un po’ la mia posizione che ritengo un po’ isolata in questo dibattito e poi però vorrei parlare del libro.
Se prendete la stampa internazionale, negli ultimi giorni, le difficoltà del Governo italiano in materia di finanziaria, la discussione sull’articolo 1, sul limite massimo del saldo netto della finanziaria, oppure se si pone o no la questione di fiducia sulle tasse, non sono riportate poiché, evidentemente non interessano. Quello che importa, sono le dichiarazioni del Commissario europeo ed un comunicato della BCE che valuta queste dichiarazioni. Questo dà l’idea di quanto sia compresso il potere nazionale, l’autonomia nazionale in materia di decisione di bilancio (riprenderò questo punto). E tutto ciò indipendentemente dal tipo di sistema maggioritario e dal rapporto Governo-Parlamento.
La decisione di bilancio è influenzata da molti fattori, da fattori variabili tra cui ci sono gli assetti istituzionali che però non sono i soli.
Il motivo per cui ci si è occupati, in particolare, del sistema maggioritario rispetto alla decisione di bilancio è che appare necessaria «l’immissione nella dialettica politica di elementi robusti di trasparenza e imparzialità tecnica (un punto sul quale torneremo, ma che è già stato sollevato nella discussione, secondo me, in qualche caso, con troppa fiducia) quanto più il sistema si stabilizza entro formule istituzionali maggioritarie» cioè, entro formule che «tendono a spostare il pendolo della decisione legislativa dalla rappresentanza alla decisione». Ora, questo pendolo, è vero che si è spostato, si è spostato non solo in Italia, ma anche in altri ordinamenti, di fatto, al di là delle formule – e cercherò poi di dimostrarlo – anche per altri motivi. «Negli anni Novanta, almeno altri due fattori, oltre all’avvento del sistema maggioritario, – aggiungiamo all’italiana, come mi pare è stato ben chiarito – hanno modificato ruolo e peso degli attori originari, Governo e Parlamento».
Si tratta della riforma del titolo V della Costituzione e dell’adesione al Patto di stabilità e crescita, che viene un pò prima, comunque tutte e due importanti, poiché hanno influenzato radicalmente il processo della decisione di bilancio, il processo di bilancio in Italia.
Questo è molto importante. Vengono enfatizzati gli aspetti istituzionali, ma sono cruciali anche gli altri.
Per valutare il contenuto e un diritto al bilancio e sostenere che c’è stato uno svuotamento notevole a partire dalla metà degli anni Settanta, un po’ in tutti i Paesi industrializzati, sostengo che i limiti del contenuto e un diritto al bilancio sono legati a tre aspetti: quello della conoscibilità e significatività delle grandezze di bilancio o opacità; oggi si usa dire la trasparenza usando il termine anglosassone e quindi ci sono tanti studi sulla trasparenza di bilanci, manuali del fondo monetario e così via.
Il primo punto, quindi, riguarda il grado di conoscibilità o viceversa di opacità.Il secondo, io ritengo, è legato alla prevedibilità delle grandezze di bilancio. I bilanci servono per stimare delle grandezze in modo tale che poi si possa dire che non ci siamo allontanati molto (oppure ci siamo allontanati e spiegare il perché di questo), altrimenti sarebbe inutile fare dei bilanci, soprattutto preventivi, sia nelle imprese sia nelle istituzioni pubbliche. Il terzo motivo, riguarda, ammesso che ci sia conoscibilità e prevedibilità, la controllabilità delle grandezze di bilancio. Su tutti e tre questi aspetti le situazioni non sono molto migliorate.Per quanto riguarda il primo punto, ho citato varie volte, che il problema della opacità è un problema vecchio.
Più di cent’anni fa Puviani sosteneva che un diritto al bilancio era un po’ un’illusione del popolo perché tra gli altri motivi diceva: «chi voglia parlare con sincerità deve riconoscere che un bilancio moderno rimane alla grande massa del popolo, (anche per motivi di allora, di conoscenza e di capacità di saper leggere e scrivere) alla stampa, alla maggior parte del Parlamento (non oggi, parlava di allora) una regione buia, misteriosa, piena di sorprese». Questo più di cento anni fa. Quindi non è una novità. Era un bilancio molto piccolo, un bilancio fatto per contingente, cioè con assegnazioni per entrata e per uscita certe, sicure, perché poi le assicuravano gli esattori e più di tanto non si spendeva, ma nonostante questo era una regione buia, misteriosa, piena di sorprese.
Questo primo aspetto è rimasto in parte attuale, anche se è quello sul quale si sono fatti i maggiori progressi anche in virtù delle innovazioni introdotte: ad esempio, l’introduzione della nota tecnica, per quanto valga, per quanto sia discutibile, fornisce comunque elementi di informazione che prima non c’erano, quindi il quadro è diventato forse un po’ meno buio.Mettiamo, però, che si riesca a realizzare la piena trasparenza del bilancio e che quindi il popolo, i parlamentari e la stampa, riacquistino il diritto a conoscere il bilancio. Rimane, il problema della previsione delle grandezze di bilancio. Qui, sono cambiate molte cose rispetto al bilancio ottocentesco ai princìpi allora immaginati, che saranno anche presupposto della formulazione dell’articolo 81.
Nella previsione di bilancio quello che è cambiato è che si è passati da bilanci, appunto come si chiamavano nei vecchi testi, per contingente, per quantità, a bilanci in cui Parlamento, Governo, sostanzialmente il Parlamento, con le leggi fissa le aliquote, ma non fissa le grandezze di bilancio, con un conseguente grado di incertezza. Il risultato sarà in relazione a due aspetti sui quali né Governo né Parlamento hanno controllo: l’andamento dell’economia, l’andamento di fenomeni tipo quello demografico, la morbilità e così via, cioè i comportamenti dei cittadini per tutte quelle che sono le spese di bilancio che si chiamano entitlements, per le quali, si fissano le condizioni al verificarsi delle quali i cittadini hanno diritto a certe prestazioni sanitarie, di istruzione e previdenziali di vario tipo, ma non si può prevedere esattamente l’ammontare dello stanziamento necessario. Certo, si possono usare metodi di previsione più o meno accurati per la stima delle grandezze, però non le si può prevedere esattamente.
Questo era il meccanismo alla base dell’articolo 81: il fatto che si prevedesse il pareggio del saldo incrementale, (le nuove e maggiori spese debbono indicare mezzi di copertura), ammesso che qualcuno fosse in grado di valutare esattamente gli oneri non fissati nella legge (nelle leggi moderne di spesa non si fissa quanto è la spesa, si fissano le condizioni). L’introduzione, per esempio, del sistema sanitario nazionale del ’78 prevede le condizioni, ma non prevede l’ammontare delle risorse.
E così è per le imposte; si fissano le aliquote, non si fissano più, come nell’Ottocento, i contingenti e poi, gli esattori per l’imposta fondiaria o altro versano quel tanto che assicura il conseguimento dell’ammontare in cifra assoluta.
Il gettito oggi dipende dall’andamento dell’economia, dalle basi imponibili, dalle situazioni di occupazione nel caso in cui siano previsti dei contributi per i disoccupati e così via, cioè le grandezze di bilancio sono in parte, in larga parte, etero determinate. Per questo si usa prevedere dei fondi per fronteggiare situazioni impreviste portate all’esame del Parlamento. La difficoltà di valutare queste grandezze è emersa proprio nell’esperienza francese prima richiamata (la cagnotte) ed era da tempo stata discussa negli Stati Uniti in relazione al meccanismo dinamico di valutazione delle possibili maggiori entrate future. Prendo qui il caso, errore grave dell’ultima finanziaria della precedente legislatura, (la finanziaria 2001) in cui il maggior risparmio pubblico previsto appunto sulla base di tassi di crescita del 3 per cento all’anno, è stato in parte considerato per la prima volta come possibile copertura di nuovi oneri correnti. Anche quello è un caso di previsione dinamica nella fattispecie rivelatasi successivamente errata.Quindi, la questione della prevedibilità è diventata molto difficile e può creare problemi nel caso in cui si renda necessario un controllo stringente sulle grandezze finanziarie. Questa esigenza è cominciata molto tempo fa, negli anni Settanta.
Fino a metà degli anni Settanta è andata bene, dopodiché si è perso il controllo della spesa pubblica sotto un duplice profilo. A metà degli anni Sessanta risale l’esigenza di programmazione della spesa pubblica e si pongono princìpi che tornano poi spesso: che la spesa pubblica deve avere un orizzonte pluriennale (e questo è stato poi inserito nella Legge n. 468 del 1978); che deve essere programmata in termini reali (cioè in termini di prestazioni di servizi di risorse effettive e non solo in termini nominali), si deve fornire cioè una valutazione di quello che le Amministrazioni fanno, (posti letto, docenti per alunno, ecc.). Questo secondo principio è saltato a metà degli anni Settanta per qualcosa, la grande inflazione, che era al di fuori del controllo dei Parlamenti e dei Governi nazionali.
La grande inflazione, allora, ha espropriato i Parlamenti e i Governi nazionali della decisione di bilancio e questi hanno accettato che venissero stravolte le spese e le entrate che avevano deliberato, perché per le spese si doveva o rinunciare al controllo delle grandezze finanziarie, o di quelle reali, o si accettava che i bilanci andassero fuori controllo (e in parte sono state percorse entrambe queste vie). Da una parte si è verificata la riduzione della spesa reale e la perdita di controllo finanziario, l’aumento dei disavanzi pubblici o della spesa coperta con debito o con moneta e dall’altra si è accettato il venire meno del controllo sul prelievo tributario perché con il fiscal drag, le aliquote non erano più quelle decise né dai Parlamenti, né dai Governi. Questo già dimostra che allora la controllabilità sulle grandezze di bilancio e quindi il diritto al bilancio era in parte affidato ad elementi esterni, andava al di là delle autonomie nazionali.
Tutto ciò cosa ha riflettuto e riflette sempre più chiaramente? Secondo me, procedendo a grandi sciabolate, come direbbe Paolo Sylos, ci siamo illusi di poter fare determinate scelte nel «quartetto incompatibile», avendo avuto nel periodo del dopo guerra, tra il 1950 e l’inizio degli anni Settanta, il sistema di Bretton Woods. Abbiamo scelto in quel quartetto incompatibile che Tommaso Padoa Schioppa ci ha sempre ricordato (libertà degli scambi e dei commerci, libertà di movimenti di capitali, stabilità se non fissità dei cambi e autonomia delle politiche nazionali) di avere autonomia delle politiche nazionali, libertà degli scambi e stabilità dei tassi di cambio rinunciando alla libertà dei movimenti di capitali, che allora era per certi aspetti possibile. Poi, dalla metà degli anni Settanta anche per altri motivi, è cambiato il mondo. In questo mondo cambiato si possono scegliere solo tre variabili, non quattro, indipendentemente dal rapporto tra Governo e Parlamento.
Questo è accaduto e l’Europa per vari motivi, che io ritengo giustificati, ha scelto di avere un sistema di cambi stabili (prima i tentativi con lo Sme, poi, per fortuna, con l’euro, che ha significato dal 1999 tassi di cambio irrevocabilmente fissi). Da allora si sono ridotti i gradi di libertà e la politica monetaria è fuoriuscita dalla sfera nazionale.Avendo accettato di avere libertà degli scambi, libertà dei movimenti di capitali (che hanno attuato tutti i Paesi tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta) e la stabilità dei cambi, è chiaro che non c’è più autonomia della politica monetaria. Dire, allora, come qualcuno dice: «ma oggi la politica economica di un Paese è fatta più a livello europeo che a livello nazionale» in parte limita ma non annulla l’autonomia nazionale. La frase di Ciampi: «ma la finanziaria in fondo i partiti la leggono sui giornali» mi fa dire: «forse la finanziaria prima o poi la leggeranno sui giornali tutti». Il tasso di inflazione programmato è fissato nel trattato di Maastricht (almeno il limite massimo). Uno può dire, cioè, quanto sta sotto però siccome molto sotto non riusciamo a stare, (è quello che la BCE e per Costituzione europea è tenuta a mantenere) quindi siamo lì, lo leggiamo sul Trattato anziché sui giornali. Lo leggono tutti i partiti, i sindacati, tutti gli operatori.
Il problema, allora, è vedere nell’ambito di questa camicia di Nesso che cosa si può fare. Vorrei ricordare, non perché condivida, che il premio Nobel quest’anno è stato dato a due economisti, Kydland e Prescott, i quali tra l’altro sono quelli che con maggior forza hanno dimostrato la convenienza ad avere delle regole istituzionali piuttosto che discrezionalità di decisione. L’importante è stabilire delle regole. In parte noi dobbiamo dire che sono stabilite nell’ambito del Trattato europeo o dai Rapporti internazionali. Una volta che ci sono regole esterne il margine di discrezionalità è un margine relativamente più limitato. Uno potrebbe dire è limitato agli aspetti micro perché quelli macro sono determinati da questo vincolo. Per quelli micro conviene andare a vedere quello che è accaduto negli anni Settanta-Ottanta in termini di ripartizione di risorse tra settori, di assorbimento di una grande quota di risorse, da parte degli interessi sul debito pubblico che per fortuna, per vari motivi è scesa. Anche in questo caso credo che i limiti di controllabilità siano molto elevati.
Come fronteggiare questo? Come conciliare questa presenza di alcune regole che limitano il diritto del bilancio, comunque sia ripartito tra il Governo e il Parlamento, (è in ogni caso il diritto al bilancio dei rappresentanti, dei politici nazionali) in presenza di un decentramento di competenze e di risorse che voglia esprimere almeno un minimo di capacità di differenziazione, di autonomia su alcune proposte e tentativi di applicazione nelle varie esperienze, nelle varie formulazioni di Patti di stabilità interni, dai decreti tagliaspese ad altro. Confrontiamoli non tanto con la proposta e il tentativo di Amato, in occasione della crisi del ’92, che Paolo De Ioanna ha studiato, ma anche con tutta l’esperienza dei cash limits non solo qui in Italia ma anche in altri Paesi dagli anni Settanta.
Si possono discutere tutti questi vari strumenti, che però, credo possano essere solo accentuati o meno, da un certo tipo di sistema maggioritario. Anche aggiustando il sistema maggioritario o abbandonandolo o facendo quel che si vuole, rimangono questi problemi di limiti al contenuto al diritto al bilancio che derivano, come si è detto, dalla conoscibilità, ma soprattutto dalla prevedibilità e dalla controllabilità delle grandezze di bilancio.
PETRINI Roberto Ringrazio di essere stato invitato a coordinare questo dibattito perché se ne traggono stimoli molto interessanti ed io personalmente sto imparando molte cose. Stimoli che vanno tra il presente e il passato, tra problemi contingenti e problemi strutturali, tra problemi che stanno nella storia e problemi che stanno nella cronaca e quando poi, anche il confine tra la storia e la cronaca è rappresentato da una zona grigia è sempre difficile individuarlo.
PENNACCHI Laura. Per rispondere a questa domanda e anche per incrociare gli spunti interessantissimi che sono venuti da questa riflessione vorrei arrivare ad una questione cruciale che è stata posta fin dall’inizio e che investe la nozione stessa di democrazia. Infatti, la discussione verte sulla «La decisione di bilancio nel sistema maggioritario» e il nostro ragionamento è un ragionamento intorno al diritto del bilancio, come diceva adesso Pedone, alla democrazia del bilancio; si investe in tal modo la nozione stessa di democrazia rendendo esplicito il significato, oggi riproposto nel dibattito politico-culturale, di una democrazia procedurale e dunque minima. La minimalità non viene oggi proposta solo per lo Stato, lo Stato minino, le istituzioni minime, Governi collettivi minimi, ma anche per la stessa nozione di democrazia tout court.
É una nozione di democrazia in cui il discrimine non è indifferente, ci sono tante sfumature, come dialogo democratico che avviene in una sfera pubblica, in una dimensione dialogica appunto interattiva – uso tutte queste espressioni che fanno riferimento a una filosofia politica molto rilevante, da Rawls ad Habermas – dialogo democratico su bene comune. Questo è in fondo ciò che ci propone tutto l’approccio, anch’esso molto variegato, della democrazia deliberativa. Questi problemi che dicono della crucialità della fase in cui siamo e della delicatezza delle questioni di cui stiamo discutendo.
Per tornare al rapporto tra storia e cronaca, e in questo rapporto reinterrogarci su alcune cose, per esempio diceva adesso da ultimo Pedone, ricordandoci quali sono i limiti del diritto del bilancio, la conoscibilità, la prevedibilità, la controllabilità delle grandezze, vorrei, soffermarmi brevemente sulle grandi discontinuità, gli spartiacque verificatisi dagli anni Settanta ad oggi, e in particolare negli ultimi dieci anni in Italia. Ciò anche per verificare questa parzialità del sistema maggiorioritario; una parzialità che io personalmente riconosco, ma di cui, come Marigia Maulucci, sarei assolutamente contraria a non riconoscere gli aspetti positivi come distinzione più chiara, più netta, più riconoscibile dell’offerta politica che viene fatta ai cittadini che si verifica nella distinzione tra coalizioni che appunto si contrappongo – perché di questo si tratta – e che poi trova una realizzazione anche attraverso il sistema del voto. Ma per rimanere a questi ultimi dieci anni mi rifarei la domanda che si faceva Paolo De Ioanna all’inizio salvo ancora così en passant ricordare il problema della conoscibilità che io ritengo decisivo perché è l’altra faccia dell’opacità.
Per quanto riguarda la prevedibilità delle grandezze ha comunque un significato la stima del PIL programmatico che è stata fatta dal ’96 al 2001, in cui lo scarto tra PIL programmatico e PIL reale, è stato minimo mentre è stato enorme lo scarto tra PIL programmatico e PIL reale realizzatosi tra il 2001 e il 2004.
Questo per dire che queste discriminanti sono tutte molto rilevanti ma non è vero che ci danno un contesto segnato, quasi deterministico, così come, non è vero, che il contesto è quasi deterministico se noi teniamo conto del processo più ampio, ancor più importante, che è stato di trasferimento della sovranità dai singoli Stati all’Unione europea, in particolare per gli Stati europei che hanno aderito alla moneta unica e all’euro. Per quelli, voglio anche aggiungere, l’ingresso nell’euro, il risanamento finanziario che è stato compiuto dai Governi dell’Ulivo e di centro-sinistra per poter entrare nell’euro, è stato uno dei meriti storici maggiori di quella legislatura, (più che di quel Governo visto che comunque c’è stato un concorso da parte di tutti i cittadini a conseguire quei risultati) perché ha cambiato sostanzialmente un regime macroeconomico.
Pensiamo per esempio alla spesa per interessi e alla sua esplosione connessa al fatto che le politiche di svalutazione del tasso di cambio erano state scelte come politiche fondamentali in un periodo lungo che aveva preceduto la scelta fatta nel ’96. Queste scelte avevano portato a un’esplosione, appunto, di tutta una serie di grandezze e in particolare della spesa per interessi che, ve lo ricordo, era pari al 12 per cento del PIL, nel 1996, è scesa al 5 per cento del PIL, grossomodo, nel 2001 ed è tutt’oggi lì, anche se adesso ci sono una serie di implicazioni diverse.
Il risanamento finanziario che è stato compiuto in quegli anni trova la sintesi nella scelta di entrare nell’euro, ma evidentemente non si esaurisce in quella. Altrettanto – è la mia lettura – sono state scelte successivamente politiche e strategie che hanno dissipato, disperso e compromesso il risanamento finanziario.Il deficit rispetto al PIL era il 7,6 per cento nel 1996, era sceso allo 0,7 per cento nel 2000, poi c’è stata la finanziaria del 2001 della quale io non mi sento minimamente responsabile perché mi sono dimessa da Sottosegretario nel ’99, tuttavia penso che nella finanziaria per il 2001 sono stati commessi degli errori – questa è la mia valutazione – ma penso che fosse rimasta una sostanziale continuità con l’atteggiamento precedente. Oggi, il deficit è quello che ci ha indicato il Governatore della Banca d’Italia, il 3 di agosto, nell’audizione sul DPEF, dicendo che facendo astrazione dalle una tantum, sarebbe già al 6 per cento del PIL.
Anche in questo caso vi sono state delle scelte. Sommariamente vi ricordo la Tremonti-bis, priva di copertura, con una copertura che è stata poi imposta dal Capo dello Stato; la soppressione dell’imposta di successione e donazione per i grandi patrimoni; lo scudo fiscale con un’aliquota del 2,5 per cento per i capitali portati legalmente all’estero ai quali si è consentito di mantenere l’anonimato a differenza della Germania che ha messo aliquote che andavano dal 25 per cento in su e che ha soppresso l’anonimato. Il risultato per noi è stato che i capitali si sono regolarizzati e sono rimasti all’estero, una bassissima percentuale è davvero tornata. Vi ricordo la miriade di condoni. Per il solo anno fiscale 2002 sono state messe in atto con una norma sola, venti fattispecie diverse di condoni fiscali per non parlare del condono edilizio e di tutte le altre cose che conosciamo.
Vi ricordo anche che vi è stata una ripresa della spesa, addirittura di un punto e mezzo, due punti di PIL. Una spesa di cui peraltro non abbiamo elementi per poter valutare la sua natura, ma abbiamo indizi per ritenere che sia una spesa molto clientelare e molto discutibile. Accanto a questo flusso di azioni e di scelte, di risultati e di scelte, c’è stato fin dall’inizio un altro flusso di azioni che, a mio parere, nella mia lettura, corrispondevano alla volontà di lacerazione di un tessuto istituzionale. Ricordavo prima la copertura per la Tremonti-bis che non c’era, per arrivare al tagliaspese, di cui io ho sempre pensato e penso che abbia costituito (e i fatti lo stanno dimostrando) una licenza preventiva a sforare e quindi una violazione del principio costituzionale che dice che le coperture sono ex ante e non ex post.
Il principio costituzionale ci dice che ogni atto di spesa deve avere al proprio interno la sua copertura. Questa lacerazione istituzionale si è basata sull’ipotesi di fondo che, è vero, viene da lontano, sia nel tempo sia nello spazio (quella di spostare tutti gli equilibri sull’Esecutivo espropriando il Parlamento dei poteri residui che mantiene), ma c’è un salto di qualità, come c’è un salto di qualità nella volontà di invertire il processo di risanamento finanziario e di comprometterlo, così c’è un salto di qualità nella volontà della lacerazione istituzionale. C’è una fortissima connessione con le cose che si dicevano prima sulla controriforma costituzionale e quello che avviene sul piano del bilancio. Anche questi ultimissimi exploit, come il famoso gioco di parole «tetto-tagli», usando Gordon Brown, che penso che querelerà tutti gli italiani che continuano ad usare il suo nome in modo assolutamente improprio (la spending review, che era stata sospesa, e che Gordon Brown aveva ripristinato dal 1997, e quindi esisteva da prima è comunque qualcosa che si fa non ogni anno, ogni due anni, si fa per un periodo di tre anni, si fa dopo che la budget law è stata varata e si fa proprio per poter stabilire qual è il rapporto tra entrate e spese e identificare le priorità).
È una responsabilità politica identificare le priorità nell’uso delle entrate rispetto alle spese.
Con questo gioco di parole invece si è di fatto abdicato alle responsabilità di scelta politica. Si è messo questo tetto del 2 per cento per mascherare che in realtà il tetto è un taglio. Su una spesa tendenziale, visto che il nostro bilancio si fa ancora così, e la legislazione in vigore esprime in parte le previsioni di spesa. La spesa tendenziale cresce mediamente nel 2005 del 5 per cento e se la spesa tendenziale (e vale a dire sulla base delle leggi in vigore, già varate dal Parlamento, non di ipotetiche volontà, per rimettere in discussione le quali, devo votare altre leggi) cresce del 5 per cento e metto un tetto del 2, l’aritmetica ci dice 5 meno 2 uguale 3. Il taglio medio è del 3 per cento. Quindi, queste volontà di mascheramento sono state veramente risibili. Vengo, pertanto, all’aspetto dell’opacità, al salto di qualità anche nell’opacità che riguarda il presente facendo una breve notazione conclusiva di questo mio intervento.
Con la finanziaria di quest’anno, con la sessione di bilancio di quest’anno, l’opacità è stata portata al suo apice (ho citato adesso la questione del gioco di parole tetto-tagli). È la finanziaria stessa, nel suo complesso, (che è di 24 miliardi di euro, circa 50.000 miliardi di vecchie lire, quindi di proporzioni, di entità enorme) a non essere credibile come è emerso fin dall’inizio nelle discussioni che siamo riusciti ad avere in Commissione, nelle Commissioni bilancio di Camera e Senato.
Pensate al taglio di 4 miliardi di euro sulla sanità, che configura una spesa obbligatoria basata su diritti soggettivi. Un medico non si può rifiutare di soccorrere una persona che va al Pronto soccorso altrimenti è perseguibile, finisce in galera. Quindi avremo problemi seri perché le misure o non sono credibili, o se lo sono, e si va fino in fondo, costituiscono davvero una superstangata reale drammatica sui cittadini. L’emendamento sugli sgravi fiscali: anche qui non dirò delle cose più politiche – che penso – di questi sgravi fiscali e che, per quanto mi riguarda, ho scritto a proposito della controllabilità e di quanto era stato erroneamente fatto nel 2001, anch’io condivido questo giudizio. C’è, però, una differenza radicale nell’indicare in fase di discussione del DPEF, uno scarto tra il PIL tendenziale e il PIL programmatico.
Quest’anno il PIL tendenziale è nel DPEF di agosto l’1,9, il PIL programmatico è il 2,1. In Commissione, facendo la nostra parte, abbiamo contestato anche questo nel senso che abbiamo detto che non ci sono ragioni reali per poter affermare questa divergenza. Le previsioni non sono giocate al lotto, devono avere un loro fondamento. Esprimono certo, incorporano, la capacità d’iniziativa programmatica del Governo, ma non possono essere bussolotti. Abbiamo, perciò, contestato ma ci è stato risposto che così era, e va bene! Ma a questo punto non si può presentare l’emendamento sugli sconti fiscali portando a copertura le cosiddette coperture, macroeconomiche. Questa è veramente una cosa gravissima perché siccome la differenza tra il PIL tendenziale e il PIL programmatico è stata già scontata ad agosto, nel passaggio dal DPEF alla finanziaria se si scontano coperture macroeconomiche in sede di emendamento sugli sgravi fiscali, si conta due volte la medesima copertura. Questo non è solo qualcosa di opinabile, di discutibile, ma è qualcosa è di gravissimo, molto scorretto.
Dicevo, sull’emendamento sui tagli fiscali – che sono nella mia opinione falsi, non sono veri, in quanto un taglio di 6 miliardi corrisponde poi a maggiori entrate per 11 miliardi – sono finanziati in deficit, perché se le coperture sono quelle che vi sto dicendo, creeranno un enorme deficit.
C’è, però, un altro aspetto che in questa sede in cui discutiamo sulla democrazia del bilancio mi interessa mettere in rilievo visto che il bilancio è fatto appunto di entrate e spese; qui torna la crucialità delle questioni della democrazia. Torna in due sensi: diceva Marigia Maulucci all’inizio che nessuno contesta la legittimità di un Esecutivo di fare le sue scelte, di portare avanti le sue politiche altrimenti contesteremmo un fondamento della democrazia. Siamo di fronte, però, ad un salto di qualità: che cosa fare e dire di fronte a un Esecutivo che ispira la sua azione alla delegittimazione delle istituzioni, dello Stato di diritto moderno?
Tra queste istituzioni c’è anche l’istituto della tassazione e, a mio parere, con la politica dei condoni condotta fin qui, è stata inferta una ferita gravissima all’etica pubblica (la campagna – a proposito di battute di Berlusconi – per cui è moralmente legittimato chi evade quando la pressione fiscale supera il famoso terzo di cui lui parla, ignorando che, nell’Unione europea mediamente la pressione fiscale è al 41 per cento, anzi un po’ più del 41 per cento). Che cosa dobbiamo fare quando c’è una delegittimazione per cui è l’istituto in sé, a prescindere dal suo assetto, che viene delegittimato suggerendo che si tratti di un esproprio, di una confisca a danno dei cittadini? Avete visto alcuni manifesti che sono al centro di Roma in cui c’è scritto «meno tasse, più soldi, più libertà». Le tasse, quindi, sono una lesione alla libertà. È chiara l’operazione di delegittimazione.
C’è, poi, ancora un altro aspetto. In questa ossessione c’è una caratterizzazione superidentitaria che l’onorevole Berlusconi compie. Una caratterizzazione superidentitaria che usa la delegittimazione di un istituto fondamentale degli stati di diritto delle democrazie moderne e che ha come conseguenza l’offerta ai cittadini di un baratto: meno fisco, meno servizi, meno responsabilità collettiva, perché i servizi questo significano. Ma come si esprime in democrazia la responsabilità collettiva se non attraverso quella mediazione terza che le istituzioni appunto incorporano e realizzano?
La risposta al baratto meno tasse più soldi sta nell’affrontare i problemi strutturali di questo Paese e di questa società che esattamente il baratto tende a rimuovere, ad eludere, a cancellare. E i problemi strutturali sono quelli che conosciamo tutti: sono la competitività del sistema dell’economia delle imprese, l’economia reale, la ricerca, l’innovazione, la scuola, la società, anche la qualità del vivere associato, che è il nostro bene primario.

PETRINI Roberto, coordinatore. Sempre nello stesso ordine: cosa cambiare e quali sono le priorità, quali sono i meccanismi correttivi di cui ha bisogno il nostro sistema? Cosa cambiamo?
DE IOANNA Paolo. Credo che le questioni che ha posto il professor Pedone siano fondamentali e proprio sul terreno di queste, voglio dire che tutto il mio ragionamento sulla trasparenza, sulla controllabilità e sulla prevedibilità sta tutto dentro la lezione degli economisti che lui ci ha indicato. Ma, attenzione, proprio gli economisti delle regole che lui ci ha indicato dicono una cosa. Che la regola non è indifferente rispetto all’effetto dimostrativo che il procedimento legislativo crea nelle schede marginali di consumo, risparmio, investimento dei cittadini.
La regola, cioè, non è una regola deterministica; tra la regola e il modo con cui la regola viene vissuta nella soggettività dei cittadini, c’è tutto il discorso che facevano la Maulucci e la Pennacchi sul senso della democrazia rappresentativa. Lo stato fiscale – tu ce l’hai insegnato benissimo – si regge esattamente sulla globalità dell’imposta dove la globalità è esattamente l’opposto dell’opacità. La globalità invoca lo stato di cittadino, la cittadinanza. Se questo è vero, questi economisti ci dicono che cosa? Che noi oggi – qui ha perfettamente ragione Pedone – questi problemi del diritto del bilancio, della tipicità del diritto del bilancio, li dobbiamo risolvere su scala europea. Dico semplicemente questo – qui, naturalmente, apro un altro tema, quello che poneva il professor Di Giovine – tutti gli assetti costituzionali europei non a caso disegnano una tipicità dei contenuti di bilancio che è variabile a seconda dei sistemi maggioritari, che sono storicamente diversi. La tipicità dei contenuti del bilancio, il contenuto non libero della decisione di bilancio, nasce esattamente dall’effetto dimostrativo che è insito nella procedura di bilancio ed in tutti i procedimenti legislativi. Nel fatto, cioè, che il cittadino attraverso il Parlamento deve comprendere e capire e poi subire la decisione della maggioranza.
Il problema di fondo, tra le regole e le modalità con le quali le regole lavorano, nel Parlamento e nelle istituzioni, c’è quella piccola differenza qualitativa tra un maggioritario rappresentativo che funziona, cambia le aspettative e modernizza il Paese, e il maggioritario – come dire – un po’ bulgaro, dentro al quale ci troviamo impantanati e che in qualche misura speriamo sia una malattia provvisoria. Credo che la riflessione su questi temi dovrebbe aiutare le classi dirigenti di questo Paese, che sono all’interno di un grande contorcimento liberaldemocratico, a distinguere la liberaldemocrazia delle regole dentro le quali il procedimento legislativo si invera nelle prassi, nei comportamenti, nell’etica pubblica un cambio e, un comportamento legislativo che invera nei comportamenti dei cittadini un senso di negatività di ciò che è la sfera pubblica.
Ora, se la sfera pubblica, al di là del suo simbolismo non etico ma pratico, invoca un luogo di interesse generale – interesse generale, in termine economico – le regole a cui ci richiamano questi economisti, sono esattamente le regole della trasparenza, della partecipazione, non della consociazione, ma della partecipazione. A questo punto, mi permetto di dire, tra un errore di previsione sulla crescita del PIL programmatico e il PIL tendenziale, in una condizione nella quale tutti gli indicatori economici internazionali dicevano che l’economia europea poteva crescere tra il 2,5 e il 2,3 e in una situazione nella quale per tre anni, diciamo, tutte le previsioni e le coperture sono state fatte non tenendo conto assolutamente di ciò che diceva la «tecnica», bè, tra questi due scenari c’è la differenza tra regole che diventano rappresentanza e, come dire, condivisione, e regole che sono imposte in un modo deterministico e bulgaro.
Le classi dirigenti di questo Paese sono chiamate a decidere in che modo vogliono stare in Europa; che tipo di democrazia rappresentativa pensano per noi e poi in prospettiva per quest’area, come dire, continentale, che deve competere con altre aree continentali dove a volte la democrazia è quasi assente o soggetta a manipolazioni mediatiche. Tutto sommato, insomma, in Europa faremmo bene a riflettere come quella lezione di quei Nobel prima citati si deve tradurre in democrazia rappresentativa.
DI GIOVINE Alfonso. Cosa bisogna cambiare. Ovviamente si possono cambiare cose fondamentali e cose più concrete. Faccio un esempio di cosa fondamentale e un esempio di cosa, importante, ma più concreta. Può sembrare una battuta, ma bisognerebbe cambiare la cultura politico-istituzionale che si è affermata in questi ultimi dieci anni e che ha dietro di sé una lunga storia.
La cultura, potrei dire, così con una sintesi, dell’unicità del potere. La cultura che sta facendo passare l’idea che all’unicità del fondamento del potere, unicità indiscutibile e cioè la sovranità del popolo, debba corrisponedere una sorta di unicità della gestione del potere.
Se vogliamo andare, dal mio punto di vista, all’essenza, al fondamento ultimo – a mio giudizio – della devastazione istituzionale di questi ultimi anni, ciò che bisognerebbe cambiare è proprio questa cultura della unicità del potere che poi porta in termini più tecnico-istituzionali a quel maggioritario sbilanciato attualmente vigente in Italia. Voglio ricordare anche, non solo come provocazione ma anche come stimolo, il fatto che nella cultura politologica internazionale ciò che da noi è dato quasi per scontato viene messo, con maggiore o minore plausibilità scientifica, in discussione e cioè il binomio maggioritario-maggiore efficienza decisionale sotto il profilo economico e, di contro, proporzionale-minor correttezza decisionale.
Voglio ricordare che uno dei maggiori politologi (è molto conosciuto in Italia perché è molto tradotto, e cioè Lijphart, quello delle «Democrazie contemporanee», il Mulino, e di tante altre cose recentemente, verso la fine degli anni Novanta, ha messo in discussione ciò che diamo come un dogma. Ha messo in discussione, con dati ovviamente completi, perché è un politologo anche empirico, il dato di questo corto circuito che noi diamo per scontato: le democrazie maggioritarie hanno migliori performance sul piano del PIL, del deficit spending, appunto, delle decisioni economiche di fondo e quindi della decisione di bilancio.
Ci sono – lui è olandese anche se è mondiale, nel senso che scrive in inglese e dialoga con tutti i maggiori politologi – politologi di area anglosassone, anche come loro esperienza di vita, che hanno messo in discussione – ripeto ancora – questo dogma. Ovviamente, proprio perché si tratta di una discussione, non bisogna prendere (e non sono state prese) come oro colato queste sue uscite, però, voglio dire, che il dubbio può esserci. Il dubbio può esserci proprio perché la democrazia maggioritaria, la democrazia del leader, tende soprattutto, quando non è supportata da grandi tradizioni storiche, come noi non abbiamo, a slittare verso quella che veniva chiamata la democrazia minima e quindi una democrazia puramente procedurale se non addirittura di facciata. Se questo è, per passare, come dire, dalle grandi idee alle cose più concrete, evidentemente quello che bisogna cambiare e non nell’impianto culturale di fondo, ma anche nelle tecnologie che inventa, è proprio questo disegno di legge di revisione costituzionale che stiamo approvando.
Ad esempio questa tripartizione delle modalità di approvazione della legge ha in qualche momento qualcosa di paranoico; come il cosiddetto Senato federale, che non ha proprio nulla di federale, e praticamente si dice che alcune leggi devono essere bicamerali proprio perché si dà quel presupposto che l’intervento del Senato implichi l’intervento delle autonomie territoriali. Ma così non è!
Dai problemi di fondo – ripeto – della nostra cultura politica alle tecnologie giuridiche che stanno per essere approvate, queste sarebbero cose da cambiare.
MAULUCCI Marigia. Credo che, probabilmente, dovremo convivere con un bilancio che ha comunque degli aspetti oscuri e stime imprecise, ma è possibile che negli ultimi tre anni le previsioni non siano state azzeccate mai? Il risultato di questa non coincidenza ha portato effetti drammatici nell’economia reale. Sbagliare la stima del tasso di inflazione programmata non è una scelta neutrale, ma ha comportato che le condizioni materiali delle persone sono peggiorate.
Abbiamo calcolato in 800-900 euro in tre anni lo scarto fra l’inflazione e le retribuzioni, e il potere di acquisto delle retribuzioni è molto influenzato dal tasso di inflazione programmata; perché questo influenza i contratti e in particolare in quelli pubblici, è determinante, come si vede dal fatto che non si chiudono. Nei contratti privati significa aprire una contrattazione senza regole e quindi rendere quel processo contrattuale molto più lungo, conflittuale e faticoso.
Il PIL: c’è uno scarto enorme fra la crescita reale che si è realizzata e la crescita che era prevista nei dati. Questo produce delle ferite e dei danni economici molto forti. Penso che l’esercizio della decisione sia sulla combinazione tra prevedibilità di un dato e politiche che si attivano per realizzare quell’obiettivo.
Credo che sia assolutamente giusto che un Governo si dia un obiettivo anche ambizioso in termini di crescita, in termini di inflazione, però ha bisogno di verificare con i soggetti istituzionali, con i soggetti sociali se quelle politiche di crescita che attiva sono atte e adeguate a realizzare quell’obiettivo ambizioso.
Questa scommessa del fatto che la riduzione delle tasse, oltre a renderci tutti più liberi, farà anche crescere l’economia, in parte è stata già verificata perché un primo modulo di riforma delle tasse è stato già attuato e l’economia non è cresciuta. Da questo punto di vista, però, esprimo una forma un po’ perversa di ottimismo, perché quando il messaggio mediatico così forte (sul fatto che tutti pagheremo meno tasse, tutti saremo più liberi) si scontrerà con la verifica concreta e materiale, a quel punto la frattura tra l’immagine e quanto si dice e il rapporto diretto Premier-Popolo che spiega le meraviglie, crollerà. A quel punto in maniera molto più efficace di tutti i ragionamenti che noi abbiamo fatto, si scopriranno le carte.
PEDONE Antonio. Esprimo soltanto dei punti affermativi senza motivarli.

  • Primo: non ho sostenuto che i bilanci sono falsi, imprevedibili e incontrollabili.È vero che ci sono stati in passato esperti di bilanci privati che hanno sostenuto che tutti i bilanci sono per definizione falsi, eppure di bilanci se ne intendevano.
  • Quindi, non voglio sostenere che siano opachi, che siano imprevedibili e inconoscibili, volevo soltanto dire, che è bene, secondo punto, tener conto di come è cambiato il mondo dalla seconda metà degli anni Settanta. Forse non tutti ci siamo resi perfettamente conto di questo, per cui, nuovi limiti, tecnicamente possono chiamarsi vincoli, soprattutto di natura strutturale e di natura internazionale, possono influenzare il grado di conoscibilità, il grado di prevedibilità e il grado di controllabilità dei bilanci. Questo al di là dei comportamenti dei singoli Governi, dei Parlamenti, e così via.
  • Terzo: in questo compito di individuare come fatti nuovi e importanti, come sono l’integrazione europea, l’adesione all’euro, cioè, l’abbandono della possibilità di svalutare il cambio, di avere politiche monetarie nazionali, e così via, o tassi di inflazione molto diversi da quelli europei. Teniamo conto della perdita di competitività, almeno sette punti accumulati dall’introduzione dell’euro rispetto a Paesi come la Germania. Non possiamo permetterci di fissare tassi programmatici di inflazione e non realizzarli. E questo riguarda proprio il comportamento dei Governi e degli stessi Parlamenti. Quindi, dobbiamo renderci conto di come sono stati calcolati.
  • Quarto punto: in questo compito i tecnici, gli economisti possono dare un contributo, però, io non avrei l’elevata fiducia che, gentilmente, Paolo De Ioanna attribuisce ai miei colleghi, forse non a me, in quanto a capacità di dare risposte e direttive.

Forse converrebbe analizzare meccanismi che siano più coerenti, accettabili, dal punto di vista del controllo democratico sul bilancio, su singoli punti. Per esempio, il problema di applicare dei limiti di cassa. Abbiamo un’esperienza che chiaramente è molto diversa rispetto a quella di altri Paesi, ma che comunque, secondo me, è interessante studiare, quella dei limiti (che io chiamo i limiti Giarda) per il controllo almeno dei flussi di cassa della spesa. Avremo tra un po’ anche l’esperienza del decreto «tagliaspese» o di altre esperienze che esistono in altri Paesi.
È stato appena pubblicato un grosso volume sul controllo della spesa pubblica e il ruolo delle Agenzie di bilancio centrali in vari Paesi, dagli Stati Uniti alla Cina, passando per Canada, Nuova Zelanda, e così via. È interessante vedere come questo accentramento dei controlli sui flussi di bilancio ha dato risultati contraddittori positivi, negativi, marginali e così via e quindi in concreto analizzare singole questioni.
Io trascurerei, invece, questioni molto più generali perché su quelle, credo, che sia molto difficile che gli economisti possano dare una risposta. Non sono in grado di dirlo perché tra assetti istituzionali ed esiti delle politiche di bilancio, (nonostante gli sforzi di Persson, Tabellini ed altri, che sono qui citati, per cui il maggioritario assicurerebbe un equilibrio di bilancio più del proporzionale) esistono verifiche empiriche contrastanti. Basti pensare all’Inghilterra, che non ha avuto modifiche istituzionali e che fino agli anni Settanta era considerato un Paese che aveva disavanzi, debito, molto più alto dell’Italia, e dopo, con lo stesso sistema istituzionale ha realizzato il pareggio del bilancio. Questo non per dire – ripeto – che ritengo irrilevanti gli assetti istituzionali, dai sistemi elettorali ai rapporti Parlamento-Governo e così via, però ritengo che non siano l’unico fattore determinante del processo di decisione di bilancio e anche del modo in cui le rappresentanze democratiche possono influenzare la decisione di bilancio.
PENNACCHI Laura. Solo una battuta. Condivido molto le cose che sono state dette in questa tornata di ciò che si può fare anche abbastanza nell’immediato. La battuta invece – poi avremo altre occasioni, altri tempi, altri modi per svilupparla – è tornare su questo aspetto più generale relativo agli assetti istituzionali, di cui adesso parlava Antonio Pedone. Anche lì, penso, come Antonio, che queste indagini econometriche abbiano una fragilità intrinseca non nel senso che non si possa dimostrare una qualche relazione, ma che non se ne possa sostenere la validità con la carica ideologica con cui in genere vengono sostenute, ricavandone ricette prescrittive molto, molto rigide.
Pensate, appunto, al fatto che quegli stessi autori che citava Antonio Pedone sono gli stessi che usano quelle indagini econometriche per dire che c’è una relazione automatica tra meno imposte e più sviluppo. Ci sono moltissimi casi che la rimettono in discussione. Pensiamo alla Danimarca che ha il PIL procapite medio superiore del 20 per cento alla media europea e ha una pressione fiscale che supera il 51 per cento. Non è ovviamente quello che io indico come modello, anzi, ma per dire che non possiamo prendere queste relazioni in queste forme così apodottiche e accettare come buoni gli stereotipi e i luoghi comuni che ci vengono imposti.
Per ritornare su questo aspetto, penso, che la sottolineatura del tema delle regole sia importante, la faceva anche De Ioanna poco fa, e tuttavia non smarrirei uno degli elementi che mi è sembrato di grande interesse e che oggi abbiamo discusso. Il fatto, cioè, che la democrazia non può essere ridotta solo a procedure, dunque a regole, e che quando ci richiamiamo a queste idee di democrazia deliberativa, noi riproponiamo una questione di dialogo su fondamenti che con un’espressione sintetica io chiamo bene comune. Anche rispetto al fatto, all’elemento che le regole non sono indifferenti, ma non bastano, credo che dobbiamo considerare, in questo caso parlo soprattutto del centro-sinistra, insufficiente un tipo di sistemazione che abbiamo utilizzato fino ad ora. Quella, di dire cioè che la nuova sfera pubblica, le nuove forme dell’intervento pubblico devono essere prevalentemente indicazioni di regole e modelli di regolazione. E qui, c’è un problema per noi che investe anche la democrazia del bilancio. Un problema, non di smentire questa affermazione, ma di andare anche oltre, e comunque anche restando dentro quel contesto, dalla crucialità delle regole possono trarsi conclusioni e prescrizioni molto diverse.
Ad esempio Stiglitz è un economista che dà molta importanza al tema delle regole, ma ne trae conclusioni opposte a quelle degli economisti che dalla riproposizione della crucialità delle regole ripropongono per i cittadini europei più orario di lavoro, lavorare di più; indicano la pigrizia e l’amore per il piacere come la determinante del fatto che la crescita europea sia inferiore.
Invece, come appunto ricordavo, Stiglitz ne trae conclusioni opposte in relazione anche alla concertazione, al ruolo della tassazione, al ruolo dei sindacati e Stiglitz parla soprattutto per gli Stati Uniti d’America.
Ne traeva conclusioni opposte da questi discorsi, che è vero che avvengono da tempo, anche Carlo Azeglio Ciampi. L’abbiamo ricordato per la battuta che egli fece nel 1993 che, se ci ricordiamo quale fu il contesto, penso che si possa capire (il contesto era quello di una situazione nella quale, dal cappio che la Lega fece pendolare in Parlamento, all’esaltazione dei magistrati, che tutti facevano, Alleanza Nazionale in testa, per i partiti non c’era una grande benevolenza). Quello che invece a me interessa recuperare è imputare, dare, riconoscere questo merito nella gestione del Ministero del tesoro che noi abbiamo fatto nel 1996 e che io ho vissuto direttamente fino al 1999 (e poi non più). Parlo della unificazione del Ministero del bilancio e del tesoro, la revisione di tutta la normativa sul bilancio, di cui Paolo De Ioanna è stato uno dei protagonisti. È vero che i bilanci erano oscuri anche cent’anni fa quando erano piccolissimi, però insomma, un tentativo per cercare di renderli più leggibili, più chiari e tutta una serie di altre iniziative che abbiamo preso nel senso della collegialità, del rispetto e della necessità di far sentire la pluralità di voci nell’esercizio del dialogo democratico, mi pare che questo fu un tratto distintivo di quella stagione che io vorrei veder riprodotto per il futuro.

Un commento a “Il bilancio nel sistema maggioritario: una discussione”

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