Tra il dicembre del 2009 e l’estate del 2012 Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti hanno intrattenuto una fitta serie di conversazioni con Pietro Ingrao. Sono state registrate e trascritte. Il proposito era quello di realizzare un volume. Alcuni capitoli sono pronti per la stampa, altri attendono una revisione. Nel marzo del 2011, frutto di quegli incontri, fu pubblicato “Indignarsi non basta” presso l’editore Aliberti, che ebbe grande diffusione ed è stato tradotto in diverse lingue. Gli stralci che qui si riportano risalgono ad un incontro della primavera del 2011. Li abbiamo scelti per l’attualità che i giudizi di Pietro Ingrao rivestono riguardo alle discussioni su Parlamento e legge elettorale.
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Il parlamento di Pietro Ingrao
Per impegnarmi in Parlamento, nel 1959 preferii lasciare la segreteria e l’incarico di responsabile dell’Ufficio di propaganda del partito. Rinunciavo a svolgere un ruolo che veniva considerato di particolare rilievo, forse il secondo per importanza dopo quello di segretario. Ero persuaso che ci trovavamo in una fase di profondo movimento, una mutazione che coinvolgeva allora forze politiche e gruppi sociali. Il Parlamento, il gruppo parlamentare, ero convinto fossero, come ho scritto, “un osservatorio da cui si poteva capire quello che stava maturando. E si poteva non solo capire, ma vivere direttamente un punto che mi cominciava a premere molto: che succede nello Stato; o meglio che cosa volevamo che succedesse nella sfera delle istituzioni”, [Le cose impossibili, p.111] delle decisioni pubbliche. Capire, insomma, in che modo si combinavano, con contrasti ed influenze reciproche, le forme di partecipazione e di allargamento del potere nella società con le forme della rappresentanza pubblica. Compio quella scelta intenzionato a verificare il ruolo effettivo, vorrei dire reale, del Parlamento, constatare quali poteri esercitasse e quale funzione svolgesse nel governo e nell’organizzazione della società per comprendere cosa poteva essere, o cosa volevamo che fosse, la democrazia rappresentativa nel progetto politico del Pci. Insomma, ragionare sulle forme della democrazia partecipata, sul ruolo delle autonomie locali e delle Regioni, previste dalla Costituzione, ma non ancora, all’epoca, attuate. Del resto, come ho scritto, “ormai avevo capito da tempo l’utopismo delle ultime pagine (da me amatissime) di Stato e Rivoluzione in cui Lenin ragiona sul deperimento dello Stato e sull’avvento di una democrazia diretta”, [Pietro Ingrao, Le cose impossibili. Un’autobiografia raccontata e discussa con Nicola Tranfaglia, Roma, Editori Riuniti, 1990, p.111.] che prefiguravano, o illudevano, un integrale superamento delle istituzioni rappresentative. Al contrario, per altre vie, ritenevo si dovessero elaborare le forme adeguate e originali per renderle compiute sedi di effettiva democrazia, di libero confronto politico nella formazione delle scelte su questioni di interesse generale. Un Parlamento non inceppato dagli apparati e dalle burocrazie, non sopraffatto dai poteri economici e finanziari. Per trovare risposta a queste domande mi era più utile lavorare a Montecitorio che non a Botteghe Oscure.
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Il Parlamento è stato per me innanzitutto il luogo del confronto. Nell’Aula mi trovavo di fronte a “l’altro da me”, ed ero obbligato ad interrogarmi, a risolvere nel vivo del confronto, anche aspro, il nodo di fondo: quale legge? Nel Parlamento che io ho frequentato era viva e concreta la pratica del confronto. Non solo nelle forme canoniche dei rapporti tra i gruppi politici, tra maggioranza ed opposizione, ma nelle relazioni che si stabilivano tra i singoli deputati, nelle lunghe e spesso intense giornate di lavoro comune. Non saprei fare paragone con altri paesi, ma in Italia questa esperienza c’è stata e non è stata un nulla. L’ho vissuta da deputato, poi come capogruppo parlamentare e infine quale Presidente della Camera. E ricordo molto bene l’impressione che ebbi, quando seguivo per “l’Unità” i lavori dell’Assemblea Costituente, dei rapporti, tutt’altro che formali, tra Togliatti, Nenni, De Gasperi, Dossetti. Ovviamente i rapporti non sono stati sempre e solo di confronto. Scelba è stato la negazione del rapporto con “l’altro” e non era certo isolato. In tutta la Dc, dopo il 1948, si affermò una sorta di prepotenza vittoriosa. Nella stessa Aula parlamentare vi erano scontri fisici, ricordo deputati che tentavano di assaltare perfino lo scranno della Presidenza. Ma ricordo anche la qualità e l’intensità del confronto politico. Intervenivano regolarmente i laeder, ed i loro discorsi erano densi di contenuto, quanto curati nella forma. Poi ci si incontrava in Transantlantico e si ragionava su quanto era accaduto in Aula. E ci si preoccupava di come comunicare all’esterno, da parte nostra di informare e coinvolgere i militanti di partito. Togliatti veniva a “l’Unità”, subito dopo la fine della seduta, per correggere personalmente il suo discorso. Lo vedo ancora, tutto sudato, tanto che le compagne avevano sempre pronta una camicia fresca, concentrato a modificare anche le virgole, prima di consegnarlo al redattore per la stampa. Bisognava far presto, per i tempi stretti di uscita del giornale. Del resto tutta la stampa dava conto in modo minuzioso delle cronache parlamentari. Insomma l’azione politica in Parlamento era molto mossa, tutt’altro che rituale. Credo che oggi sia molto sottovalutato, per non dire dimenticato, quanto abbia contato il Parlamento nella vita politica del paese. Non si facevano chiacchiere, si entrava nel merito delle scelte e delle decisioni del governo. In quel confronto mi sono formato, come giornalista e come politico. Ed è nella concreta pratica parlamentare che è maturata la mia concezione della democrazia e la mia riflessione sulla centralità del Parlamento. A voi oggi può sembrare improbabile, ma in quegli anni vi furono dibattiti molto interessanti, di grande rilievo per le prospettive del paese.
[…]
Vi sono due facce nel mio rapporto con la legge: la prima, fondamentale, è che noi venivamo da un’illegalità che aveva raggiunto abissi, sbocchi rovinosi: l’arbitrio del potere era divenuto totalizzante. E’ questa la parola che restituisce l’evento: la prepotenza, la concentrazione del potere, il comando nelle mani di tiranni. L’illegalità e l’arbitrio sono stati un connotato anche simbolico del nazifascismo. Non erano solo praticati, erano esplicitamente dichiarati, quale portato intrinseco alla totalità del comando. Presto, molto presto questa rivendicazione dell’arbitrio si è imposta in tutta la sua brutalità materiale: arresti, confino, campi lager. Si impadronivano del potere nel modo più selvaggio e cancellavano tutto l’impianto di istituti e regole, nato dalla Rivoluzione francese. Per questo la riaffermazione delle regole e del Parlamento, il luogo in cui si esercita il controllo sul potere, fu per noi un evento straordinario, coinvolgente. Insomma, la Costituzione cancella la violenza e l’arbitrio. Per il modo stesso in cui si realizza, nella pratica e nelle relazioni tra i costituenti, la scrittura della Costituzione ha significato per ognuno di noi compromesso ed alleanza con “l’altro”. Questo è il senso che ha avuto allora. Nel compiersi della vicenda costituzionale avviene una svolta nel rapporto con l’avversario. Non solo rispetto alle dittature nazifascista, ma al clima politico degli anni Trenta, in cui maturò l’avvento del nazifascismo. L’Assemblea Costituente fu vissuta e percepita come incontro, altamente simbolico, tra sensibilità e tradizioni differenti. Ricordo bene l’aura attorno alla Commissione dei 75. Quell’origine ha segnato in profondità l’esperienza politica, l’atteggiamento e la sensibilità di ciascuno di noi. Metterlo in ombra significherebbe non capire quale forte discontinuità ha rappresentato la Costituzione, e quali differenze ha prodotto nella comunicazione tra persone di diversa appartenenza politica. Su di me influì soprattutto nei rapporti con il mondo cattolico, con la Dc, o con alcuni gruppi dentro la Chiesa. La tradizione liberale in me ha influito in misura minore, e non fu politicamente determinante nella vicenda politica di quegli anni, nonostante l’autorità e l’impegno di alcuni costituenti, primo tra tutti Piero Calamandrei. Guardavamo, comunque, con rispetto ai “padri costituenti” e al confronto sulla scrittura della Costituzione. Questa è la prima, essenziale, faccia storica e politica del mio rapporto con la legge. Poi, in me c’è un senso del limite che mi induce ad accettare fino ad un certo punto la sovranità della legge e del potere politico. Ed è l’altra faccia di quello che sono. Da una parte sono stato immerso nella politica e nel Parlamento, vi ho lavorato con passione e convinzione, avendo sopratutto in mente l’interrogativo sul rapporto con “l’altro”. Ripeto, l’ho fatto per scelta, nutrita di una convinzione profonda. E la mantengo tuttora. Ma c’è un “però”… un risvolto di cui trovate testimonianza nella ricerca poetica. E’ una diversa convinzione che mi accompagna per tutta la vita. E dice molto di me e della mia storia. C’è un di più dell’umano, non posso dire “indicibile”, ma insomma qualcosa di simile… c’è l’esperienza erotica – molto l’esperienza erotica – , e c’è il rapporto con il paesaggio… Ci sono esperienze che alludono, tutte, ad un rapporto con l’esistere.
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Trema la nostra vita
percossa dal bisogno.
Si spacca nella sete.
Precipita
la vita nostra.
Senza appello.
Gridi, dubbio, paura,
abbracci: tutto
è nel conto.
Ma trema,
domanda la nostra vita.
Muore.
Morendo domanda:
quale legge?
Una poesia de Il dubbio dei vincitori: il travaglio del vivere, il suo oscillare. In questo tremore del bisogno, qual è il criterio, quale ordine dispone delle nostre vite? La condizione umana è bisogno. Siamo incalzati, “percossi”, dalla sete di appagamento del bisogno. Il patimento dell’esperire umano, tutte le emozioni muovono dal bisogno. Gridi, paure, dubbi, ed abbracci: anche l’abbraccio, il contatto è esperienza di un bisogno, inappagato. La vita è bisogno, senza possibilità di appagarsi. “Precipita”: nei momenti in cui avvertiamo quest’impossibilità, “senza appello”, di soddisfare il bisogno, c’è crisi, è una ferita dalla quale non troviamo riparo. Fino all’ultimo la vita di ognuno di noi interroga l’ordine, pone la questione sul senso e l’adeguatezza del sistema di regole in cui la vita è stretta. L’intero testo della poesia parla di questo assillo. Non c’è risposta a questo continuo, arso, interrogarsi. E non ho trovato compiuta risposta nella politica. E’ così. In fondo, tutto questo libro di versi nasce da questo assillo, e ripropone quella domanda.
[…]
Forme sorsero
Attorno, al di sopra.
Le nominammo Stato. Insieme
Uniamo le mani.
Giuriamo.
Come se da sempre,
culla e prigione
fuori di noi esista.
“Attorno, al di sopra” dell’esistere umano si costruisce un ordine al quale si è dato nome di Stato. Legittimato e sorretto dal patto, l’atto del giuramento. “Culla e prigione” sono due volti di questo ordine, affiancati, come se questa prossimità tra loro fosse naturale. Ci accade ogni giorno di essere presi nelle maglie di una struttura artificiale. E questo sembra esserci “da sempre”. L’ordine ti prende e stringe fin dalla nascita, come se fosse un dato naturale appartenervi. “Stato” è il nome che diamo ad un insieme composito, forse per nulla ordinato e coerente, di regole, istituti, funzioni, dentro il quale svolgiamo le nostre vite. Non si dice, qui, se è accettato o respinto. Ma sorge la domanda: cos’è questo Stato? Cosa sono queste forme? Perché queste e non altre?
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Uno che scompare è volo
che traspare dai vetri.
Uno che scompare è tutto.
E’ la vita e la morte. “Volo” è fantasia di quell’entità inafferrabile che ogni essere umano è nel suo esistere. Quell’essere umano è “tutto”. L’unicità di un essere umano è “tutto” e non può essere cancellata. Neppure può essere fatto sparire, reso un’ombra dietro le mura di una prigione. La morte -ed anche la reclusione a vita è scomparsa – prende qui la forma di una distanza. “Uno” che scompare, cancellato dalla legge, lascia a noi quella trasparenza, quel volo. E’ l’irriducibilità dell’essere umano che rende ognuno un “tutto” insopprimibile. Nessuno mi è estraneo, anche se ignoto, anche se non è nulla più di un volo percepito dietro un vetro. La vita è labilità e densità, pienezza e trascolorare. E’ la sua fragilità, la sua estrema sottigliezza a renderla preziosa; a chiederci di esaltarla.
[…]
La norma non realizza una parte insopprimibile della relazione e dell’esperienza umana. Che non può essere rimossa, relegata alla sfera privata. Non può essere cancellata, sia pure come eccedenza e differente dicibilità, nell’agire politico, o in quella sua peculiare manifestazione che è l’atto legislativo. Se non altro come consapevolezza del limite, come dubbio sulla pretesa di imparzialità e sugli esiti contradditori che la legge avrà nella sua applicazione. Personalmente non mi sono affidato in primo luogo alla scrittura di norme. Quando dico “volevo la luna”, nomino l’esigenza di un salto, prima di tutto nel linguaggio e nelle relazioni. Questa esigenza in me non è mai venuta meno, pur stando intero, dentro la politica. In comune c’è il contatto con l’umano. Nella politica è questo che mi coinvolge: nella vita umana le leggi contano, e dunque l’attività legislativa è importante, non può essere sottovalutata. Ma c’è un di più nella politica che è comunicazione, relazione. Una relazione che assume le forme più strane, particolari. Questo in me si è unito spesso con… come lo vogliamo chiamare? ma sì, chiamiamolo amore per la natura. I cieli, le inclinazioni del tempo che scorre, l’alzarsi della luna nelle notti di estate: mi ha sempre trascinato, mi ha dato molta emozione.
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Sono stato immerso, incollato alla politica, nel suo farsi quotidiano, ma ho sempre avvertito chiaramente una riserva interiore. Lo testimonia la poesia che amo terribilmente… c’è un di più che la politica non esaurisce in sé stessa. E dal quale, tuttavia, non può prescindere. Non credo alla separazione tra sfere distinte, segnate da confini definiti: privato e pubblico, interiorità ed esteriorità, individuo e collettivo, società civile e Stato. Non è così nella vita di ognuno di noi e la politica non può non intrecciarsi alla complessità dell’essere umano. Anche se non potrà mai comprenderla e darne conto, per intero. Quella convinzione mi ha formato, negli anni giovanili, quando ho compiuto la scelta che ha deciso di tutta la mia vita. Ed è forse all’origine, di una mia intima contraddizione. Nella politica ci sono stato intero. Ne conosco, per averle vissute, le regole che la governano, quelle della disciplina di partito e quelle delle istituzioni. Ma la politica è stata per me prima di tutto relazioni con gli altri, comunicazione attraverso la parola e quel di più della parola che è il contatto. Penso al comizio, a quella relazione ad alta tensione, nella quale da un lato ci sei tu e dall’altro una piazza gremita di uomini e donne venuti ad ascoltare, spesso in modo appassionato, quello che esce dalla tua bocca. Poi vivo di altre forme di comunicazione che si affidano all’influenza dei suoni, delle visioni. Vivo di Leopardi. E non parlo, in realtà, di altro. Vi sono molti modi dell’esistere politico.
[…]
Conosco bene la realtà del sistema istituzionale e dunque so quanto siano fondate le ragioni della critica. So quanto di tecnico e separato vi è nel Parlamento, e quanto questo contrasti con il suo ruolo costituzionale, di esercizio della sovranità popolare. Ho potuto verificare, soprattutto da presidente della Camera, quanto fosse difficile far funzionare il Parlamento, quale luogo effettivo di formazione delle scelte, di mediazione e di sintesi per le decisioni. Tuttavia non mi persuade la riduzione a “Palazzo” dell’Assemblea elettiva, e degli eletti a casta: un mondo separato, chiuso nei suoi privilegi e nei suoi meccanismi di autoconservazione. Seppure verosimile, è una lettura troppo semplice, non ci aiuta a capire, tanto meno a risolvere la questione, complicata ma ineludibile, della rappresentanza. Intanto il Parlamento, tutta la rete delle istituzioni rappresentative, a suo modo conta. Bene o male. Per come rappresenta nella sua composizione, la realtà sociale, in tutta la sua complessità. E per come si materializza nella sua attività il rapporto tra governati e governanti. La rappresentanza, di questo sono convinto, non è mai mera delega. E’ una relazione attiva, quali che siano concretamente le sue modalità. Ed è qui il problema. Se è una relazione costruita sullo scambio di interesse, o sul messaggio mediatico. O, viceversa, su una condivisione di esperienze, un dialogo sulle idee, in qualche modo un patto tra soggetti, diversamente coinvolti nella politica. Nella Costituzione è scritto che il parlamentare rappresenta la nazione, senza vincoli di mandato. Si possono tuttavia stabilire regole e modi di controllo, perfino di revoca, sull’effettivo esercizio della funzione, senza ledere la libertà politica del parlamentare. Nella storia politica di cui sono stato partecipe sono stati i partiti a dare costrutto pratico, materiale, alla rappresentanza. E se ho scelto di lavorare in Parlamento, non l’ho però considerato il luogo esclusivo dell’attività politica. Né, tanto meno, ho sostituto i rapporti politici tra gli eletti all’agire politico collettivo nel partito. Crisi dei partiti di massa e crisi della rappresentanza sono due facce della stessa medaglia. E tuttavia non mi convince ridurre la rappresentanza a voto e consenso, a mera procedura di legittimazione. O restituiamo sostanza e trasparenza alla relazione tra rappresentanti e rappresentati, e le Assemblee elettive tornano ad essere un luogo di confronto che conosce momenti di conflitto e momenti di mediazione e sintesi, oppure si acuirà la divaricazione tra procedure del consenso e sedi della decisione. Da un lato la personalizzazione della politica, affidata a poche figure di leader e al loro messaggio, dall’altro una miriade di tecnici, concentrati su questioni settoriali, nei vari gabinetti e vertici di concertazione corporativa. E’ davvero singolare che mentre si invoca ad alta voce una semplificazione della politica ed un rapporto più diretto ed immediato dei cittadini con chi li governa, lo Stato si dilata. Cresce e si articola attraverso un insieme di apparati e organismi più o meno informali, in ogni modo sottratti ad ogni forma controllo e di trasparenza democratica. Ognuno di noi ne ha esperienza diretta. Lo Stato è un prisma di specchi nel quale si rifrange ogni giorno, sui diversi aspetti della vita, una particolare modalità del potere politico. E né come individui, né come gruppi sociali possiamo fronteggiare questa influenza, senza le necessarie mediazioni. A questo sono servite le istituzioni della rappresentanza, sociale e politica. Francamente non vedo altri strumenti, altre forme politiche che possano svolgere questa funzione, in modo più efficace.
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Nella Costituzione è il Parlamento, non il governo, a rappresentare la sovranità popolare. E’ vero, nei fatti ha prevalso una diversa, perfino opposta, concezione politica. Ma i guasti che ha prodotto, di inefficienza e degenerazione, sono ormai cronaca quotidiana. Questo rende più attuali le riflessioni e le proposte che per anni abbiamo fatto nel Centro studi e iniziative per la Riforma dello Stato. Se il Parlamento deve essere una sede autorevole ed esercitare un potere reale vanno introdotte innovazioni importanti. Sono stato sempre convinto che la prima riforma è il monocameralismo. Una platea di mille membri non può funzionare. Più alto è il numero, più cresce a dismisura la lentezza e l’inefficienza dell’istituzione. Se riduci il numero dei parlamentari ed hai una sola sede rappresentativa la selezione dei deputati corrisponderà più a criteri politici che non ai mille rivoli degli interessi corporativi e delle clientele locali. Non è la sola riforma da fare. Anche la legge elettorale deve essere adeguata alla centralità dell’istituzione rappresentativa. Il modo in cui si formano le Assemblee elettive orienta le scelte dei partiti, il loro modo di organizzarsi, di scegliere i propri dirigenti, di rivolgersi all’opinione pubblica e costruire partecipazione e consenso. Lo conferma quanto avvenuto dal referendum sulla preferenza unica nel 1992 fino alla legge attuale, approvata nel 2001. Cambiando sistema elettorale si è modificata non solo la composizione, ma la funzione del Parlamento. Da luogo di esercizio della sovranità popolare è divenuto sede di ratifica delle decisioni del governo.
[…]
Ho sempre ragionato all’opposto. E non per mero rispetto della forma costituzionale. Non amo la retorica democratica. Democrazia è parola che uso con sobrietà. Tanto più oggi, quando ogni giorno sono costretto ad interrogarmi su quali siano le sedi, gli attori, i poteri da cui dipendono realmente le scelte che determinano le nostre vite, che decidono gli assetti del mondo. Ma non so neppure ridurre la democrazia a mera procedura di legittimazione dei governanti. Se guardo al modo in cui ho agito politicamente la valorizzazione dell’istituto rappresentativo è un punto fermo. E’ un tratto arcaico, un retaggio della mia storia, dal quale non so prescindere? E’ una domanda lecita. Tuttavia non credo di avere una visione astratta, o peggio utopica, del Parlamento, ne ho sperimentato direttamente tutti i limiti ed i difetti. Sono stato Presidente della Camera in anni cruciali di transizione. Ho visto affermarsi culture e pratiche di frantumazione e scomposizione del sistema politico ed istituzionale. Si avvertiva già con forza la spinta verso il decisionismo e la governabilità assieme a quella, apparentemente opposta, alla proliferazione di sottosistemi, al peso crescente degli apparati e delle burocrazie. Ho fatto insomma un apprendimento sul campo dei processi di cui parli. E mi sono convinto che non dipendevano da condizioni contingenti, ma avevano radici profonde. Per capire ho ritenuto necessario studiare, ho rinunciato alla Presidenza della Camera e sono andato a presiedere il Centro studi per la Riforma dello Stato. Un modo diverso per pormi, con testarda insistenza la stessa domanda sulle forme dell’agire politico e sul ruolo delle Assemblee elettive. Ma vorrei fosse chiara qual è stata la ragione di fondo che mi ha spinto: il coinvolgimento delle classi popolari nella formazione delle scelte, costruendo l’indispensabile raccordo tra la loro azione politica e le istituzioni. Come si può realizzare questo coinvolgimento, se non si assicura trasparenza e libertà di confronto nelle Assemblee elettive? Come possono, altrimenti, esercitare un effettivo potere, a fronte della concentrazione e specializzazione dei poteri economici e finanziari, militari e burocratici, tecnologici e dell’informazione? Se ci rassegniamo alla riduzione della rappresentanza a mera delega, se ai governati rimane soltanto un precario potere di scegliere dentro la casta, di fatto accettiamo che quest’ultima deciderà sempre meno e la che politica abdichi al suo compito. E le conseguenze sono pesanti soprattutto per le classi subalterne. Non vengono meno i conflitti, la capacità di autorganizzarsi, di inventare nuove forme di lotta politica. Viviamo, anzi, una stagione per molti aspetti inedita, di rivolte e conflitti sociali. Abbiamo ragionato insieme, sull’insorgenza dirompente di movimenti in Europa ed in Africa, di cui sono protagoniste le nuove generazioni. In quel breve testo, Indignarsi non basta, [Pietro Ingrao con Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti, Indignarsi non basta, Roma, Aliberti, 2011] riflettevo sulla mancanza di un comune collante politico, sul rischio che questioni di rilevanza generali, quali il sapere o il lavoro, fossero separate, ristrette ad una dimensione corporativa. Vedo in questo riproporsi la risposta che determinò il ripiegamento e la sconfitta negli anni Settanta. Allora ebbe successo il proposito di frantumare e dividere, in qualche modo a disperdere nella dimensione corporativa, settoriale, una forte e diffusa volontà politica di cambiamento. Cambiano ovviamente le modalità con cui i poteri agiscono per dividere e frantumare, ma il deficit di rappresentanza ha un peso rilevante nella perdita di coesione sociale. In questo trovo conferma di una mia convinzione di fondo. Se la democrazia non si organizza e non si dota di poteri effettivi anche i conflitti sociali cambiano natura, muta e si restringe il senso di cosa è politica. Di certo vivo il presente con consapevolezza storica. Non dimentico quanto fosse acuta, drammatica, la preoccupazione nel Pci che si riproducesse la frattura tra le classi popolari e le classi dirigenti, che la rivolta sociale assumesse le forme del “sovversismo”. Se il Pci ha avuto una funzione nella storia politica di questo paese è stato quello di aver lavorato tenacemente a costruire legami tra le classi popolari e le istituzioni democratiche. Non sempre ci siamo riusciti, ma non è arretrando da questo sforzo che si troveranno alternative ai nostri limiti e sbagli.
 
 

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