Mino MartinazzoliNon sono un esperto sul ruolo degli intellettuali; e la politica la guardo ormai da una lontananza quasi irrecuperabile. Sarò dunque breve nella mia partecipazione a questa tavola rotonda. Sono venuto volentieri, per ascoltare gli amici D’Alema e Fini e i relatori che prima sono intervenuti, ma ci sono venuto volentieri soprattutto per un tributo di amicizia nei confronti di Ugo Spagnoli. Luciano Violante nella sua relazione ha evocato Ugo Spagnoli come un politico colto, come un intellettuale politico, come una persona che realizzava una relazione coerente tra l’agire politico e la speculazione intellettuale. Lo credo anch’io e vorrei ricordare queste sue doti ricordando un episodio ormai remoto nel tempo, che al massimo occuperà una nota a piè di pagina in qualche libro dimenticato, che riguarda il processo della Lockheed. Ugo Spagnoli, insieme a Dino Felisetti era uno dei vicepresidenti della commissione inquirente. Evoco con precisione l’episodio anche perché ho constatato in questi giorni quanto siamo smemorati: tanto smemorati che persino da parte dell’avvocatura dello stato – per affermare l’incompatibilità tra responsabilità politica e condizione di imputato, di perseguito, di indagato – si è evocato l’episodio di Giovanni Leone in modo totalmente sbagliato. Le cose andarono in questo modo: alla prima seduta del Parlamento in seduta comune intervenne Marco Pannella e dichiarò che dovevamo capire che Giovanni Leone era al centro di questo scandalo. Aldo Moro mi chiamò e mi spiegò che i giornali non potevano uscire l’indomani senza una risposta alla provocazione di Pannella. Io chiamai Felisetti e Spagnoli e chiesi loro se potevamo respingere questa censura anche a nome di tutta la commissione. C’era la possibilità da parte di qualcuno di trarne un vantaggio politico, intendiamoci, discutibile, perché eravamo in una fase in cui il rapporto tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista non era più un rapporto conflittuale, tant’è che il Partito comunista si asteneva sul governo retto da Andreotti. Ma quello che è certo è che Ugo Spagnoli non ebbe nessuna esitazione nel dirmi che era d’accordo che io parlassi a nome di tutti loro; e così accadde; e così spiegammo a Marco Pannella che i cattivi pensieri privati non potevano mai diventare delle prove in un processo penale. In questo senso appunto l’intellettuale: io non ho ascoltato tutta la relazione di Violante, ma l’ho letta. Non so dove ha recuperato quelle tre righe che riguardano l’idea di Sanguineti secondo la quale Alessandro Manzoni sarebbe stato un intellettuale organico del liberalismo cattolico. Non sono neanche sicuro che siano queste le opinioni di Sanguineti. Ho il timore che sia l’opinione di Sanguineti un po’ corretta da Violante; e per la verità c’è stata una cultura che ha guardato quel rapporto in altro modo: penso a un libro di vent’anni fa di Franco Cordero, La fabbrica della peste, in cui Cordero identifica Manzoni non come l’intellettuale cattolico liberale, ma come un intellettuale organico al fondamentalismo cattolico. Sbagliando, perché ha ragione Violante: Alessandro Manzoni, concludendo l’introduzione alle sue Osservazioni sulla morale cattolica, scrive esattamente così: “può capitare a un uomo il compito di parlare per la verità, non mai quello di farla trionfare”. E secondo me è tutto qui, direi, l’insegnamento che dovrebbe suggerirci il tema dell’autonomia dell’intellettuale: che l’autonomia non è l’indifferenza, non è l’indifferenza dell’intellettuale di Prezzolini, degli apoti, di quelli che non la bevono, che sono troppo spesso quelli che la danno a bere: questo è il problema che abbiamo davanti anche oggi. Questa è l’esigenza: di recuperare, di ritrovare, in un tempo di difficoltà politica, di società intellettuale assolutamente screpolata, questo rapporto tra la politica e l’intellettualità, tra la politica e l’intelligenza, tra la politica e la cultura; senza di che certamente la politica non guarda lontano. Ancora Manzoni: ricordate la pagina di don Ferrante? Dice don Ferrante, che non era poi quello sciocco che oggi pensiamo perché era morto di peste… Don Ferrante in una pagina di Manzoni dice: “La storia senza la politica è come una guida che cammina senza guardare se indietro qualcuno la segue”, ma aggiunge “la politica senza la storia è come uno che cammina senza guida”. Credo che oggi uno dei grandi temi che riguardano e la politica e la speculazione intellettuale riguardi questa capacità di lunghezza del pensiero, questa evocazione della possibilità almeno di un futuro. Diciamo che guardo lontano – e concludo su questo – ma non sono disperato: sono preoccupato sì, da cittadino. Almeno ottant’anni fa, tra le due guerre, Maritain scrive un opuscolo che si chiama Cristianesimo e democrazia; in una riga dice: “il dramma delle democrazie moderne è che non sono ancora riuscite a realizzare la democrazia”. Oggi la tendenza, la difficoltà, la tentazione è di dire che le cose sono più gravi, nel senso che le democrazie hanno anche rinunciato all’idea che l’utopia democratica possa inverarsi nella storia: ed è su questo, credo, che il rapporto tra politica e cultura deve tornare alla visione, alla capacità di memoria e di futuro. Lo dico, vedo qui Guido Bodrato, per quanto riguarda noi, la nostra piccola e modesta partecipazione a una grande tradizione. Leggevo in questi giorni una bella pubblicazione dell’Istituto Sturzo, l’epistolario Sturzo-Salvemini. Erano due intellettuali antifascisti, esuli, si stimavano, avevano una zona di incomunicabilità che avevano riconosciuto tutti e due, che non valicavano: per Salvemini, al massimo era possibile immaginare una “democrazia cristiana”, ma era inimmaginabile una “democrazia cattolica”, tant’è che per convincere Sturzo diceva: “no, tu non c’entri, perché sei un giansenista”; e Sturzo giustamente si arrabbiava perché gli spiegava che lui era un cattolico, non un giansenista. Nella prefazione di questo volume c’è una lettera di Giuseppe Tomazzi, il giovane direttore del “Popolo” di Sturzo, morto in esilio a Parigi a poco più di quarant’anni, in miseria, che era stato allievo di Salvemini. Anche con questo suo allievo Salvemini conduce questa polemica sull’impossibilità per un cattolico di essere partecipe dell’emancipazione democratica del Paese. Giuseppe Tomazzi risponde a Salvemini che lui è insieme cittadino, o meglio italiano, e cattolico, e che non saprebbe pensare i due aggettivi disgiunti l’uno dall’altro. Che cosa voglio dire: che anche noi possiamo dare ancora un contributo, con le giovani energie che sapremo suscitare, se ricorderemo sempre che i cattolici in questo Paese hanno contato tanto non quando si sono pensati come rappresentanti dell’Italia cattolica, ma come rappresentanti dei cattolici in Italia. In questo senso io credo che non è negata la possibilità di un futuro più benigno, tutto sommato. Anch’io per età, per acciacchi, per delusioni, sarei portato a osservare da distante questo “autunno della politica”, che procede tra l’altro con lentezza infinita, che “lungamente ci dice addio”, come dicono i versi di Cardarelli, ma penso più volentieri invece alla possibilità di qualcosa che è davanti a noi, che è possibile recuperare. Ho letto in questi giorni la lunga conversazione tra Simonetta Fiori e Asor Rosa proprio sul rapporto intellettuali-politica. È una lettura interessante, anche perché dà conto, insieme, dei limiti, delle virtualità dei tradimenti dell’intellettualità. Mi ha colpito la pagina finale, che corrisponde anche un poco al mio stato d’animo, che non è un’uscita consolatoria, infondata, ma è quello che avverto, che percepisc
o: verranno, stanno venendo giorni nei quali nuove generazioni si affacceranno alla ribalta della politica italiana e guarderanno le cose come per la prima volta. Tutto sommato se pensiamo ai grandi passaggi di fase nel nostro Paese le cose andarono così: la stagione della Costituente la fecero certo anche i vecchi arnesi della democrazia prefascista, ma la fecero soprattutto quei giovani, molti passati attraverso la Resistenza, che vedevano le cose della democrazia come per la prima volta, in un’ora mattutina, in una luce sorgiva. Io credo in questo, e anche per questo sono venuto qui a rendere omaggio all’amicizia con Ugo Spagnoli.
Mino Martinazzoli
 

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