Interventi

1. La giurisprudenza costituzionale sulla “utilità sociale”: cenni ricostruttivi.

Gli studi costituzionalistici sulla “utilità sociale” partono regolarmente dalla considerazione della polivalenza ed elasticità della nozione. E non si può negare che essa appartenga al novero delle clausole elastiche della Costituzione, che si ribellano alla “pietrificazione” degli enunciati per mantenere la Costituzione stessa all’altezza dei cambiamenti dell’esperienza giuridica, economica e sociale. Ma questo non vuol dire che si tratti di una formula vuota, buona a tutti gli usi, e perciò liberamente disponibile dal legislatore. Lo dimostra la giurisprudenza costituzionale, che ne ha progressivamente delineato l’area di operatività, segnando così dei confini sufficientemente precisi alla discrezionalità legislativa. E’ significativo, inoltre, che la Corte abbia ritenuto di doversi impegnare in questa opera in coincidenza con una fase di decisivi mutamenti di quella che viene comunemente chiamata la “Costituzione economica”. Mi riferisco all’epoca immediatamente precedente il varo della legge sull’Antitrust del 1990. Già nella sentenza n. 223 del 1982, occupandosi dei patti limitativi della concorrenza previsti dall’art. 2596 cod.civ., la Corte osservava che “La libertà di concorrenza tra imprese ha, com’è noto, una duplice finalità: da un lato, integra la libertà di iniziativa economica che spetta nella stessa misura a tutti gli imprenditori e, dall’altro, è diretta alla protezione della collettività, in quanto l’esistenza di una pluralità di imprenditori, in concorrenza tra loro, giova a migliorare la qualità dei prodotti e a contenerne i prezzi”, e dopo aver ritenuto che gli accordi contemplati dal codice non turbavano necessariamente il gioco della libera concorrenza e potevano anzi talvolta agevolarlo, aggiungeva un preciso obiter dictum: “Diverso e ben distinto problema è quello riguardante l’idoneità della disciplina vigente nell’ordinamento giuridico italiano ad assicurare la effettiva tutela del mercato, oggettivamente considerato, sotto il profilo concorrenziale e a soddisfare così le esigenze della moderna vita economica. In proposito, com’è noto, si sono susseguiti numerosi studi e progetti che generalmente muovono dalla insufficienza dell’attuale normativa e tendono ad una più incisiva e sostanziale tutela del mercato stesso. Ma l’auspicata regolamentazione – è appena il caso di osservarlo – esula dai poteri di questa Corte e costituisce compito esclusivo del legislatore, a cui spetta disciplinare la materia con l’emanazione di un’opportuna normativa (cioè di una legislazione antimonopolio o antitrust)”. L’auspicio diventa pressante nella sent.n. 241 del 1990, in occasione di una questione di costituzionalità riguardante la legge sul diritto d’autore nella parte in cui attribuisce alla SIAE l’esclusiva nella gestione dei diritti di utilizzazione economica delle opere ivi tutelate. Premesso che il limite dell’utilità sociale e i controlli necessari a indirizzare e coordinare la libertà di iniziativa economica privata a fini sociali “sono fatalmente scavalcati o elusi in un ordinamento che consente l’acquisizione di posizioni di supremazia senza nel contempo prevedere strumenti atti ad evitare un loro esercizio abusivo”, la Corte sollecita espressamente, anche in ragione della “insufficienza della sola normativa comunitaria”, la definitiva approvazione della disciplina antitrust, all’epoca già passata al Senato, “in quanto necessaria al rispetto dei suddetti princìpi costituzionali”. Il fatto che la legge n. 287 del 1990, intitolata “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”, esordisca autoqualificandosi “In attuazione dell’art. 41 Cost. a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica” (art. 1, primo comma) deve pertanto collegarsi a quelle impegnative prese di posizione della Corte costituzionale, compreso il richiamo all’utilità sociale come fondamento costituzionale del divieto di abuso di posizione dominante. E il fatto che, subito dopo, la legge affermi che “L’interpretazione delle norme contenute nel presente titolo [recante “Norme sulle intese, sull’abuso di posizione dominante e sulle operazioni di concentrazione”] è effettuata in base ai princìpi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza” (art. 1, quarto comma) non significa che una disciplina nazionale della materia debba ritenersi meramente ripetitiva di quella comunitaria, ma serve a sancire “in modo formale il vincolo di interpretazione conforme che la giurisprudenza della Corte di giustizia ha costantemente rilevato in capo al giudice nazionale” . Ma il caso in cui la Corte costituzionale si spinse più avanti nel delineare la nozione di utilità sociale fu probabilmente quello riguardante una norma che, stabilendo certe limitazioni all’uso dei trattori idonei al traino di veicoli quali rimorchi e semirimorchi da parte di soggetti diversi da quelli aventi la disponibilità del trattore, veniva a restringere, secondo il giudice remittente, il potere dell’imprenditore di realizzare l’equilibrio ottimale dei fattori della produzione, così ponendosi in contrasto con l’utilità sociale. Osserva la Corte che se “la individuazione da parte del legislatore dell’utilità sociale può sostanziarsi di valutazioni attinenti alla situazione del mercato anche per quel che concerne fenomeni di concentrazione o no delle imprese”, “Ciò che conta è che, per un verso, l’individuazione dell’utilità sociale come dianzi motivata non appaia arbitraria e che gli interventi del legislatore non perseguano l’individuata utilità sociale mediante misure palesemente incongrue, e per altro verso, e in ogni caso, che l’intervento legislativo non sia tale da condizionare le scelte imprenditoriali in grado così elevato da indurre sostanzialmente la funzionalizzazione dell’attività economica di cui si tratta, sacrificandone le opzioni di fondo o restringendone in rigidi confini lo spazio e l’oggetto delle stesse scelte organizzative” (sent.n. 548 del 1990). Nell’affermare che l’apprezzamento dell’utilità sociale da parte del legislatore incontra un limite nella funzionalizzazione dell’attività imprenditoriale, la Corte segnava uno spartiacque rispetto a una fase del dibattito soprattutto scientifico sull’iniziativa economica privata che dall’entrata in vigore della Costituzione in poi si era appunto incentrata intorno a se tale libertà dovesse configurarsi come funzionale agli obiettivi dell’intervento pubblico. Ora la Corte escludeva esplicitamente una simile ipotesi, e lo faceva interpretando proprio l’utilità sociale. E da allora non ha più dubitato che l’utilità sociale non possa mai costituire il grimaldello per “sacrificare le opzioni di fondo” delle imprese, e debba piuttosto equivalere ai benefici che alla collettività arreca la libera concorrenza fra di esse. La disciplina della cassa integrazione, dirà per esempio la Corte, non viola l’art. 41, commi 1 e 2, perché, alle condizioni ivi previste l’accesso alla integrazione salariale è consentito a tutti gli imprenditori in condizione di perfetta parità, e per questo “mira a salvaguardare le condizioni della loro efficienza, della loro potenzialità e competitività; in genere, a garantire i valori aziendali, la permanenza delle imprese in un mercato libero, il mantenimento delle regole della libera concorrenza che in esso vigono, nonché il sistema produttivo vigente” (sent.n. 439 del 1991). Che la Corte “riferisca tranquillamente il mercato all’art. 41 e lo faccia con toni che, sviluppandoli, si intessono coerentemente coi precedenti della propria giurisprudenza”, configurava per un commentatore di quella decisione “una interpretazione della Costituzione economica economica che si preoccupi di ricordare che il mercato c’era già nell’art. 41….Dato che sul crinale del mercato si fronteggiano molte cose, sembra positivo, perché equilibrato, che venga mostrato che quel tema può essere trattato non necessariamente come una frontiera ma come una
linea di sviluppo del discorso costituzionale” . Questa stessa linea interpretativa consentirà peraltro alla Corte di affinare sempre meglio il discrimine fra regolazione di un’attività economica finalizzata al perseguimento dell’utilità sociale e limiti tali da comportare un’indebita funzionalizzazione di tale attività. Il divieto di esportazione dei materiali di risulta provenienti dalla escavazione delle vasche non pare alla Corte incongruo, perché si limita a regolare l’esercizio dell’attività di acquacoltura, “ponendo condizioni che, finalizzate come sono alla tutela dell’ambiente, non appaiono irragionevoli”: se è vero che il legislatore avrebbe potuto avvalersi di altri mezzi, ciò che conta, e che può unicamente rilevare in sede di scrutinio di costituzionalità, è che “il mezzo prescelto non sia palesemente sproporzionato” (sent.n. 190 del 2001). La tecnica adoperata è indubbiamente quella usuale del controllo di ragionevolezza , e tuttavia qui l’eventuale sproporzione mezzi/fini non è commisurata alla stregua di un arbitrio del legislatore previamente inqualificabile, e dunque rimesso allo stesso apprezzamento della Corte, ma si risolve in un sindacato sul rispetto del limite della funzionalizzazione dell’attività imprenditoriale che trova fondamento nell’interpretazione dei due primi commi dell’art. 41 Cost. Dalla giurisprudenza che ho sommariamente ripercorso si ricavano dunque due direttrici interpretative fra loro alternative, ma anche complementari, a seconda che la legislazione preveda interventi pubblici diretti nei confronti della singola attività imprenditoriale, ovvero regole condizionali riferite al mercato, e perciò ai comportamenti intersoggettivi giuridicamente qualificati che lo strutturano sul piano operativo. Nel primo gruppo di casi il sindacato sull’utilità sociale è condotto appunto nei termini del rispetto del limite della funzionalizzazione. Nell’altro è basato sulla presunzione che sia lo stesso mercato concorrenziale a produrre utilità sociale, e quindi sul rispetto da parte del legislatore delle regole condizionali che lo rendono necessariamente diverso dal Far West, ossia da un ambito di comportamenti intersoggettivi non giuridicamente qualificati, dominati dalla sola legge del più forte. Le due direttrici sono alternative nella misura in cui diversi sono i presupposti di partenza della disciplina cui rispettivamente si riferiscano, e complementari, perché in grado di dar conto insieme dei due presupposti, ricavabili dall’interpretazione dell’art. 41. Bisogna però subito aggiungere, a proposito del secondo gruppo di casi, che se la Corte rimane l’unico giudice dell’utilità sociale come apprezzata dal legislatore, e abbiamo visto che casi del genere ben possono verificarsi anche sotto il vigore di una legge antitrust come quella del 1990, le regole condizionali poste da quella legge sono presidiate dall’Autorità Antitrust, e si tratta di regole “necessarie” al rispetto della libertà di iniziativa economica privata in quanto operante sul mercato e perciò finalizzata all’utilità sociale, come aveva affermato la Corte, in particolare, nella sent.n. 241 del 1990. Il tutto per dire che, a far data dall’entrata in vigore della legge sull’Antitrust, l’apprezzamento dell’utilità sociale non è più monopolio del legislatore, essendo rimesso alla stessa Autorità Antistrust per la parte che le spetta per legge.

2. Le modifiche apportate con l.cost.n. 3 del 2001, con particolare riferimento alla “tutela della concorrenza” e al principio di sussidiarietà orizzontale.

Una prima rottura dell’equazione statale=pubblico si consumò allora, e con essa l’idea che l’apprezzamento dell’utilità sociale fosse appannaggio esclusivo del Parlamento. E quando, per altri versi, l’art. 118 verrà riformato con la previsione del principio di sussidiarietà orizzontale, ossia del “favore” degli enti territoriali della Repubblica per “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale” (art. 118, quarto comma, nel testo approvato con l.cost.n. 3 del 2001), si verificherà una seconda rottura, stavolta esplicita, di quel monopolio, giacché a niente altro dalla utilità sociale quelle attività potrebbero indirizzarsi. Diversa sarà la funzione, ma ancora una volta pienamente corrispondente a questa ricostruzione delle linee essenziali del quadro costituzionale, dell’inserimento della “tutela della concorrenza” fra le materie oggetto di legislazione statale esclusiva (art. 117, secondo comma, lett. e)). Alla individuazione di questa “materia trasversale”, perché capace di attraversare quelle di competenza regionale al fine di rendere operativo un principio costituzionale, e perciò al pari di altre (a partire dalla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” di cui all’art. 117, secondo comma, lett. m)), affidata alla legge statale solo in quanto legge della Repubblica, ha provveduto ancora una volta la Corte costituzionale. La Corte vi ha visto subito una precisa corrispondenza con la nozione “operante in ambito comunitario, che comprende interventi regolativi, la disciplina antistrust e misure destinate a promuovere un mercato aperto e in libera concorrenza”, onde procedere a una selezione degli interventi e delle misure da attribuirsi alla legislazione nazionale che rispettasse la riserva a quella regionale di “materie la cui disciplina incide innegabilmente sullo sviluppo economico” (sent.n. 14 del 2004, che ha inaugurato un consolidato filone giurisprudenziale: fra le altre, sentt.nn. 272 del 2004, 134 e 336 del 2005, 29 del 2006, 401 del 2007). La breve ricostruzione basta a far concludere che non solo l’art. 41 non ha mai avuto alcun sapore “sovietico”, ma ha da molto tempo perduto quelle (comunque ben più miti) valenze funzionalistiche che solo una parte della dottrina ritenne di potergli ascrivere. Al contrario, l’art. 41 è da molto tempo considerato in sede giurisprudenziale e scientifica perfettamente capace di stare al passo con la progressiva attuazione delle regole dettate in riferimento al mercato europeo, ivi compresa quella nozione di “utilità sociale” che, come ho cercato di dimostrare, nulla ha a che vedere con una residua concezione statualistica.

3. Che cosa si dovrebbe e si potrebbe fare, e quali conseguenze deriverebbero invece dall’approvazione del d.d.l. costituzionale AC n. 4144.

Il solo modo per contrastare questa veduta consiste nel decontestualizzare la lettura dell’art. 41, cosa priva di senso a proposito di qualunque testo normativo, nell’illusione di portare all’indietro le lancette degli orologi. Molto all’indietro, fino a immaginare che il testo contempli due soli soggetti, lo Stato e il singolo libero imprenditore, ossia il comando sovrano della pubblica autorità e un soggetto dotato di animal spirits. Questa era in effetti la situazione durante la prima rivoluzione industriale, non nella seconda metà del XX secolo e tantomeno oggi. Per Costituzione, quando si profila il rischio di indebite compressioni dell’iniziativa economica privata da parte del legislatore, magari in nome dell’utilità sociale, vi è una Corte in grado di reagire, e che ha dimostrato di saperlo fare. Per il resto c’è il mercato, istituzione basata su un insieme di rapporti intersoggettivi retti da regole condizionali, che l’ottocentesca contrapposizione fra Stato e singolo imprenditore non può contenere, e che si regge d’altra parte sulla premessa che, lasciata a se stessa, quella contrapposizione porta dritto ai monopoli, non importa se statali o privati. Ed è la Costituzione a favorire un’idea di utilità sociale perfettamente in grado di superare ove possibile e necessario quella contrapposizione (art. 41), come a suggerire l’idea che la legge possa accompagnare e non guidare lo svolgimento di un tessuto pluralistico di iniziative capaci di assicurare beni e servizi socialmente utili (art. 118, quarto comma). Anche se Bentham e Stuart Mill non hanno mai abitato da queste parti, e anche se le idee di mercato e di iniziative di singoli e associati per svolgere attività di interesse generale debbono ancora farsi largo in uno spazio ingombrato da intrecci pubblico-privato risalenti e duri a morire, che si convertono in rendite di gruppi chiusi, in posizioni dominanti di oligarchie e corporazioni, se non in rapine istituzionalizzate e formalmente ineccepibili. Invece di dipanare quegli intrecci, è intenzione della maggioranza parlamentare emendare il d.d.l. costituzionale AC 4144 in modo da eliminare il richiamo alla “utilità sociale”. In ogni caso, tale disegno di legge prevede già una integrazione al testo dell’art. 41, primo comma, con la clausola “è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”. Si vorrebbe così semplificare le procedure amministrative richieste per l’avvio delle iniziative economiche private, ritenute fonte di eccessivo potere discrezionale in capo alle pubbliche amministrazioni. Senonché l’art. 41 non ha nulla a che vedere coi “lacci” della burocrazia, che dipendono invece dall’incapacità del legislatore e dello stesso governo di semplificarla seriamente. Se lo volesse, un qualsiasi governo avrebbe strumenti ben più diretti del “ciò che non è vietato è permesso” per favorire lo sviluppo della libera iniziativa. La clausola ha nobili origini teoriche, che da noi risalgono al magistrale studio sulle lacune che Donato Donati scrisse giusto un secolo fa. Se tuttavia ci chiediamo l’uso che se ne potrebbe fare, non è Donati che viene in mente, ma il film di Daniele Lucchetti La nostra vita (2010), dove il giovane operaio di una piccola impresa edile alla periferia di Roma scopre il cadavere di un immigrato sepolto da tempo nel cantiere dove lavora. Che funzione assumerebbe la clausola in una realtà produttiva fatta di piccole e piccolissime imprese che non di rado vivono già oggi ai margini della legalità? Non vi sarebbe forse visto come un segnale molto più forte di qualunque divieto legislativo, utile a smantellare del tutto quel minimo di controlli oggi operanti sul rispetto delle norme poste a tutela della sicurezza, della libertà e della dignità umana (art. 41, secondo comma), e quindi anzitutto dei lavoratori nell’impresa? Del resto, non sta forse tornando contestualmente in discussione lo Statuto dei diritti dei lavoratori? Anche qui siamo alle prese con una finta modernizzazione, che in realtà ci riporta in pieno Ottocento. Anche qui si ignora volutamente tutto ciò che è accaduto in Italia e in Europa negli ultimi quaranta anni, e non solo da un punto di vista giuridico. Rivela infine gravi incongruenze, oltre a un’enfasi ingiustificata, l’addizione al testo dell’art. 97 di un comma secondo cui “Le pubbliche funzioni sono al servizio delle libertà e dei diritti dei cittadini e del bene comune”. Anzitutto condivido il rilievo, formulato dall’on. Zaccaria, che fra “le pubbliche funzioni” sono usualmente comprese quella legislativa e quella giurisdizionale, per le quali il proclama racchiuso in quelle due righe acquista significati del tutto diversi. Quanto al “bene comune”, si tratta di nozione che, nel contesto della proposizione che si vorrebbe introdurre, acquista un sapore paternalistico in pieno contrasto con l’affermazione che “le pubbliche funzioni sono al servizio delle libertà e dei diritti dei cittadini”. Soprattutto, di fronte a un’amministrazione o a un governo che si richiamasse al “bene comune”, nulla potrebbe la clausola “è permesso tutto ciò che non è vietato dalla legge”. Siamo di fronte a un disegno di legge costituzionale, o a un incerto ammasso di parole degno di Lost in translation?

2 commenti a “Attualità dell’art. 41 Cost., con particolare riferimento alla “utilità sociale””

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