Interventi, Materiali
Ingrao, lo ha scritto e detto tante volte, nasce poeta, amante della letteratura del suo tempo e, in seguito, si avvicina al cinema iscrivendosi con l’amico fraterno Gianni Puccini all’appena nato Centro sperimentale di cinematografia dove, tra parentesi, insegnava anche il russo Pietro Sharov al quale, dagli anni Cinquanta e fino alla sua morte, mi legherà una profonda amicizia. Ingrao ci racconta del suo entusiasmo giovanile per le scoperte di Chaplin e dei grandi registi russi, del valore dell’insegnamento di un Umberto Barbaro e degli incontri formativi con un Rudolf Arnheim.

Insomma, pare avviato a una brillante carriera nel cinema quando, del tutto improvvisamente, abbandona il Centro sperimentale (…). Ingrao ne fornisce una sua spiegazione. Scrive che l’abbandono del Centro sperimentale fu motivato in sostanza dal contraccolpo provato per l’inizio della guerra di Spagna. Considero questo un punto assolutamente nodale del suo percorso, ma Ingrao mi pare che si limiti sempre a farne breve cenno. Forse per un alto senso di pudore. Perché penso che la guerra di Spagna invece sia stata per lui qualcosa di più di un tragico impatto, sia stato un autentico, squassante cortocircuito.

Penso che Ingrao ebbe in quel momento la lucida percezione di quello che in realtà veniva a significare la guerra di Spagna e ne ebbe esistenziale sgomento. Su di lui, sulla sua sensibilità, gravavano già da tempo quelli che Vittorini avrebbe chiamato «i dolori del mondo offeso» e la guerra di Spagna consisteva in un insopportabile aggravio dell’offesa (…). Ecco, sono convinto che Ingrao venne allora preso da un dubbio che indirizzò diversamente la sua vita: il dubbio cioè che l’arte da sola e in sé, e in quel momento specifico, fosse assolutamente inadeguata a far barriera contro il fascismo(…).

Quindi dal dubbio nasce un meditato agire. Il dubitare di Ingrao è sempre, come dire, la messa in moto di un motore che attivamente elabora il che fare più attinente al fine proposto. In altri termini, non è mai la messa in dubbio del perché, ma del come (…). Ma c’è un altro punto nodale nella vita politica di Ingrao che, ai miei occhi, ha la stessa valenza di quello del 1936. È la richiesta da lui fatta, nel 1966, nel corso dell’XI congresso del partito, di libertà del dissenso.

Com’è logico supporre, una tale ardita richiesta all’interno di una struttura rigida, gerarchica e centralista non può essere che la disperata, e ormai non più cancellabile somma finale di un innumerevole dubitare accumulato nel corso degli anni. E questa somma finale ha una precisa definizione: dissenso. Perché questo dissenso?

Scrive Ingrao: «In quella mia rivendicazione di libertà del dissenso c’era non solo il drammatico stimolo che era venuto dalla rivelazione dei delitti di Stalin, ma una convinzione più profonda che aveva anche a che fare con una riflessione sull’esistere. Mi muoveva non solo la tutela della libertà d’opinione, ma ancor più la convinzione che il soggetto rivoluzionario era un farsi del molteplice: l’incontro fluttuante di una pluralità oppressa che costruiva e verificava nella lotta il suo volto». «Un farsi del molteplice».

È in sostanza, anche questa, una crisi esistenziale e politica che nasce dalla crisi di una certa concezione ristretta della politica e postula una sua rifondazione nel recupero di quella che Hanna Arendt chiamava la politica perduta, vale a dire quella messa in rapporto diretto tra gli uomini, attraverso un’azione che corrisponda alla condizione umana della pluralità, della molteplicità.

Anche se tutti gli aspetti della nostra esistenza sono in qualche modo connessi alla politica – scrive la Arendt – questa pluralità è specificamente «la» condizione – non solo la condicio sine qua non , ma la condicio per quam – di ogni vita politica(…). Allora, qual è la funzione positiva del dubbio secondo Ingrao? Sentiamo le sue parole: «Mi appassionava la ricerca. E il dubbio mi scuoteva, vorrei dire: mi attraeva. Vedevo in esso un’apertura alla complessità della vita. Dubitare mi sembrava l’impulso primo a cercare: aprirsi al ‘molteplice’ del mondo…».

E ancora: «Il dubbio per me non significava povertà: anzi apertura di orizzonti, audacia nel cercare. Sì, vivevo il piacere del dubbio. E avvertivo anche una ricchezza per quell’interrogarsi, cercando. Come se il mondo – nella sua problematicità – si dilatasse intorno a me». «Dubitare mi sembrava l’impulso primo a cercare», afferma Ingrao (…).

Il dubbio allora nasceva non dall’opportunità ma dalla necessità di accogliere o meno le inevitabili modificazioni che quelle basilari opinioni via via subivano nel convulso procedere della Storia, senza che però ne intaccassero la verità di fondo. È stato il secolo che ha avuto, rispetto a quelli che l’hanno preceduto, una massa, proprio nel senso che vien dato in fisica a questo termine, di gran lunga superiore.

La qualità del dubbio di Ingrao perciò non attiene alla sfera del sistematicismo o se volete dello scetticismo, ma assume il carattere di un procedimento metodico di volta in volta tendente a un fine, a uno scopo: e cioè la verifica del fondamento di una ulteriore certezza.

Ingrao non dubita di tutto ciò che è dubitabile, forse questa posizione è più di un filosofo che di un politico, Ingrao limita il suo dubbio a quando scopre che su un dato argomento, su una precisa posizione, si può dubitare della possibilità del dubbio. È un dubitare a posteriori. Una postulazione di verifica. Ma pur entro questi limiti, l’esercizio del dubbio produce in lui, come egli stesso ha affermato, una sorta di dilatazione del mondo. Il dubbio quindi come mezzo di conoscenza, cioè un dubbio di marca cartesiana per il quale ogni dubbio doveva risolversi nella scoperta di un nuovo territorio su cui avventurarsi. E su questi nuovi territori di conoscenza Ingrao si è sempre inoltrato non per il gusto dell’avventura intellettuale in sé, ma quasi per assolvere un dovere politico e umano(…).

Mi sbaglierò, ma io sono convinto che del suo impegno politico egli sia rimasto maggiormente legato al periodo 1944-1945, quando, in una grigia Milano con il piede straniero sopra il cuore, lavorava all’edizione clandestina de «l’Unità», quando il vivere e l’agire quotidiani erano un azzardo, quando la possibilità dello scacco era dietro ogni angolo, quando si era uomini e no.

Vai alla scheda del volume da cui è tratta la lezione di Andrea Camilleri.

Un commento a “Camilleri racconta Ingrao. Viaggio dalla poesia alla politica”

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