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Carità o diritti?

l testo della lectio magistralis tenuta da Walter Tocci in occasione della Giornata Mondiale della Lotta alla Povertà, presso il convegno “Termini Sociali: System Update”, che si è svolto nei giorni 14-15 ottobre 2019 nell’Ostello di via Marsala dedicato alla memoria di don Luigi Di Liegro. L’intervento è una riflessione sulla relazione, in atto o in teoria, tra la politica e il volontariato
Pubblicato il 11 Gennaio 2020
Materiali, Scritti, Seminari e convegni
Un titolo lancinante apre la nostra sessione del convegno: Carità o diritti? Le parole vengono da antiche tradizioni culturali, ma in questo luogo di accoglienza e di fraternità indicano due esperienze di vita: la carità come un dono all’altro che è anche un dono a se stesso; i diritti come doni universali che regolano le relazioni tra le persone.
Fin qui il nostro titolo appare in tutta la sua positività. Ma interviene la parola più piccola a infrangere l’armonia, separando con la disgiunzione “o” ciò che dovrebbe andare insieme. C’è però un punto interrogativo a lenire la preoccupazione, annunciando che la questione è ancora aperta alla discussione e nulla è detto di definitivo. È appunto la discussione che la mia introduzione vorrebbe sollecitare.
È davvero scontato che ci sia un aut-aut oppure esiste uno spazio comune di relazione e anzi di interdipendenza? E quale sarebbe questo spazio comune?
Osserviamo innanzitutto gli esiti contrapposti che possono avere l’indifferenza oppure la relazione tra carità e diritti.
Quando le due esperienze rimangono indifferenti l’una all’altra non riescono a sviluppare pienamente le proprie ragioni. La carità senza i diritti non riesce a generalizzare la sua speranza di giustizia. I diritti senza la carità non riescono e personalizzare il soddisfacimento dei bisogni.
Quando invece le due esperienze sono in sintonia riescono a dare il meglio di se stesse e portano a compimento le proprie motivazioni.
Da un lato, se i diritti sono riconosciuti la carità è libera di trascenderli, perfino di tradirli, andando oltre la mera conformità alla legge per aprire il cuore delle persone e contemplare la beatitudine della misericordia. È il messaggio della lettera di Don Milani a Pipetta, il giovane comunista di S. Donato, un testo formativo per tanti della mia generazione, e a me molto caro.

Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò.
Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua cosuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati”.
Dall’altro lato, la carità nella misura in cui coltiva le relazioni interpersonali genera l’humus sociale da cui traggono alimento i diritti. Questi, infatti, non sono garantiti solo dalle procedure formali, anzi hanno bisogno di una democrazia viva che non cada nell’apatia, ma sappia rinnovare continuamente le sue promesse. “Rinnovare le promesse della democrazia”, questo fu l’ammonimento di Norberto Bobbio. In uno dei suoi ultimi libri sentì il bisogno di raccomandare che la democrazia non poteva divenire un costume condiviso se non avesse mantenuta la promessa del “riconoscimento della fratellanza che unisce tutti gli uomini in un comune destino”.
Due maestri così diversi tra loro ci aiutano a comprendere come la carità e i diritti, solo nella loro felice congiunzione, siano in grado di esprimere le massime potenzialità. Per Don Milani la carità trascende la giustizia sociale, a cui aveva pur dedicato la vita, educando i ragazzi di Barbiana. Per Bobbio i diritti si fondano sulla promessa di fraternità e non solo sulle procedure, alle quali aveva pur dedicato tutta la sua opera intellettuale.
È come se i due grandi maestri, venendo da percorsi opposti, indicassero uno spazio comune tra carità e diritti. Possiamo a questo punto eliminare il punto interrogativo del nostro titolo, sostituendo aut-aut con et-et, ma viene spontanea una nuova domanda: quale è la natura della congiunzione?
Il significato costituzionale della dignità
Ciò che tiene insieme carità e diritti è la dignità. Questa parola è una presenza invisibile nel titolo, non appare nel suo lessico, ma illumina il significato delle parole che lo compongono.
La dignità, infatti, è il fine supremo della carità. Quando un senza fissa dimora incontra un volontario e riceve da lui una carezza riconquista come per miracolo la dignità di persona. L’atto più disinteressato e privo di scopi è sufficiente a realizzare l’opera umana che fino a un attimo prima sembrava impossibile.
Nel contempo la dignità è anche il fondamento giuridico dei diritti poiché è scritta in Costituzione. In una delle sue ultime lezioni Stefano Rodotà ha usato la parola addirittura per scandire una terza epoca del costituzionalismo moderno. Dopo l’Homo hierarchicus dell’ancien régime e l’Homo equalis del Novecento, dal dopoguerra siamo entrati nel costituzionalismo dell’Homo dignus. La parola, infatti, si trova esplicitamente nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e nell’incipit della Costituzione tedesca – La dignità umana è intangibile – come monito per l’avvenire dopo l’orrore dell’Olocausto. Ma è interessante notare che lo stesso concetto di intangibilità umana ritorni, in condizioni storiche molto diverse, nel costituzionalismo contemporaneo, ad esempio nella Carta di Nizza, come contenimento dei poteri pervasivi della tecnica e dell’economia che tendono a invadere la vita umana. La dignità diventa il nuovo principio di resistenza della persona di fronte alle sfide del postumano.
Ma è nella Costituzione italiana che la parola dignità esprime il meglio di sé. E lo fa in un modo originale e poco celebrato, quasi senza apparire, senza prendere le sembianze di un principio assoluto, ma mettendosi al servizio di altri principi costituzionali al fine di renderli cogenti.
Per scoprire questi rimandi reconditi dovremmo riprendere in mano la Carta, rileggerla con curiosità nuova, senza la trascuratezza e la retorica degli ultimi tempi. Si dovrebbe prendere esempio dai sacerdoti che tutte le domeniche dal pulpito leggono e commentano il Vangelo di fronte all’Assemblea. I fedeli conoscono la Buona Novella, non è affatto una sorpresa, ma quella lettura suscita ogni volta nuove riflessioni spirituali e impegni sociali.
Allo stesso modo dovremmo prendere l’abitudine di iniziare ogni assemblea civile, incontro pubblico, manifestazione popolare con la lettura di un articolo della Carta. Proviamo a farlo oggi qui con uno degli articoli più dimenticati, il 36.
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Non si può non ammirare la chiarezza di questo testo composto di parole semplici e profonde. Nessuna legge sul lavoro degli ultimi venti anni ha cercato di raggiungere tale chiarezza e tutte si sono prodigate per indebolire quei principi. Anche da qui si vede che è la Costituzione per l’avvenire. È attuale proprio perché la sua inattualità orienta il nostro presente verso un diverso avvenire.
La nostra parola appare solo alla fine dell’articolo con l’aggettivo dignitosa, che apparentemente non aggiunge granché, poiché il senso della norma giuridica è già chiarito dalle parole precedenti. Eppure, in questo contesto l’aggettivo vuol dire che il lavoro di cui si parla non è solo un fatto economico, anzi riguarda una dimensione fondativa della società e della persona. Quindi l’articolo 36 richiama e chiarisce implicitamente l’articolo 1. È come se l’incipit costituzionale, La Repubblica fondata sul lavoro, pur non utilizzando la parola dignità, ne contenesse il significato.
E allo stesso modo opera l’articolo 41, quello che voleva cancellare il ministro Tremonti per farsi perdonare dall’establishment europeo lo sperpero nei conti pubblici. Esso stabilisce che l’iniziativa economica trova un limite nella «libertà e dignità umana». La dignità, quindi, rivela che sopra il mero interesse economico esiste una superiore sovranità, il cui primato non può che scaturire, come nel caso precedente, dall’articolo 1 della Repubblica fondata sul lavoro.
Inoltre, il mirabile articolo 3 sancisce la «pari dignità sociale» dei cittadini, senza distinzioni di razza, di censo, di genere. Questo primo comma è sempre stato considerato come il principio liberale dell’eguaglianza che nega ogni forma di discriminazione, mentre il secondo comma del «rimuovere gli ostacoli» è stato considerato il principio sociale dell’eguaglianza, che si afferma nella sostanza dei rapporti tra i cittadini. Ma è la parola dignità, non a caso accompagnata dalla denotazione «sociale», a creare un ponte tra i due principi fondamentali e a reggere l’unità costituzionale dell’articolo 3.
Da tutto ciò discende la particolare attitudine della dignità nel connettere principi costituzionali diversi – libertà, eguaglianza e sovranità – rinunciando a esprimere un proprio significato determinato.
La dignità non è né una supernorma, né un diritto fondamentale, ma è la forza connettiva della Carta. La pienezza della dignità non è in sé, ma per gli altri. Se immaginassimo la dignità come una persona sarebbe come il volontario che senza vantarsi dona un senso alla vita delle persone.
In questa natura connettiva la dignità rivela anche la sua dimensione politica. Se ne avverte una eco nel dibattito pubblico, seppure in forma distorta. Di fronte ai fallimenti, alla volgarità, al malaffare, di partiti e di correnti emerge sempre più accorato l’appello dell’opinione pubblica a ritrovare la Dignità della Politica. Leggiamo questa espressione nei titoli dei giornali e nei messaggi dei social, la sentiamo ripetere nei talk-show e anche nelle discussioni in famiglia o tra amici. Viene ripetuta distrattamente e di conseguenza si smarriscono le differenze tra due diversi significati.
Nel primo la politica costituisce l’oggetto ed è una sorta di scatola vuota che occorre riempire apportando dall’esterno il contenuto di valore. Tale accezione ha motivato tutti i tentativi di immettere la dignità nella politica mediante le leggi, le riforme istituzionali e le norme di comportamento e di finanziamento. Sono stati scarsi gli obiettivi raggiunti perché l’approvazione e soprattutto l’attuazione di tali provvedimenti dipendeva comunque dagli stessi politici di cui si voleva innalzare la qualità. Neppure il barone di Münchhausen è riuscito ad innalzarsi tirandosi per il codino.
È più ambizioso l’altro significato, nel quale la politica è il soggetto e assume la dignità come propria dimensione interiore. Intesa così l’espressione Dignità della Politica svela che le due parole sono in una relazione profonda e si valorizzano a vicenda.
Un esempio viene da Giuseppe Di Vittorio. Quando gli chiesero di parlare dei risultati raggiunti dal sindacato italiano disse: “nel mio paese di Cerignola abbiamo insegnato ai braccianti a non inchinarsi più di fronte al padrone delle terre, ma a guardare avanti a testa alta con la dignità di chi è consapevole dei propri diritti.
Con il linguaggio di oggi diremmo che il bracciante di Cerignola è un caso di empowerment, di presa di consapevolezza dei propri diritti. Sappiamo dirlo in modo più sofisticato rispetto alle parole semplici di Di Vittorio, ma molto meno siamo in grado di metterlo in pratica. E la difficoltà riguarda non solo la politica generale, ma anche le politiche sociali. La deriva prestazionale delle amministrazioni pubbliche trasforma i servizi in numeri di interventi che spesso prescindono dai risultati umani. Nei casi migliori si punta a soddisfare bisogni, molto spesso con risposte settoriali che non colgono la dimensione esistenziale del disagio.
La nostra cuccia di cartone
La politica della dignità osa di più, vuole rendere più esigenti le persone. Non basta dare risposte, si devono riattivare le domande. Non a caso la prima azione dei volontari consiste nell’accompagnare a “fare domanda” allo sportello pubblico e già questa esperienza spesso riattiva la fiducia nelle persone.
Quando i cittadini diventano più esigenti con se stessi e con gli altri il compito degli amministratori si fa più difficile, ma migliora il governo della città. L’ho imparato per esperienza diretta negli anni novanta quando realizzammo le Centopiazze. Non tutte riuscirono bene, e molte non hanno retto alla mancanza di manutenzione, però furono esperienze emblematiche. Conservo come ricordo più bello lo stupore dei cittadini. Lo spazio pubblico recuperato o addirittura inventato suscitava la fantasia su come poteva migliorare il quartiere e l’intera città. Tutti gli altri problemi permanevano ma sembrava più facile risolverli. Prendeva fiducia lo sguardo verso il futuro a partire da uno spazio dedicato all’uso quotidiano. Le persone diventavano più rigorose tra loro – chi gettava una cartaccia a terra veniva subito redarguito dagli altri – ma soprattutto più severe con noi amministratori, che andavamo alle inaugurazioni sicuri di prendere gli applausi e invece venivamo subissati da tante altre domande impreviste.
Oggi i cittadini domandano di meno perché è venuta meno la fiducia nel futuro. Ma questo è lo stesso sintomo che gli operatori riscontrano nelle persone spaesate quando arrivano ai centri di ascolto. La mancanza di aspettative si esprime in forme estreme nella marginalità, ma riguarda l’intera società cittadina. Quindi, prendersi cura degli ultimi significa fare i conti con un malessere che è di tutti noi. Aiutare un disperato a ritrovare la fiducia è come aiutare la rinascita di Roma, sono azioni di diversa scala ma della medesima dignità.
Su un muro di Roma è apparsa una scritta paradossale: “Basta fatti, vogliamo promesse”. A prima vista mi è sembrata sbagliata; come ex-amministratore conosco il valore dei risultati e so quante soluzioni oggi si attendano i cittadini. Ma la retorica dei fatti nasconde molti inganni: risolve tutto un uomo solo, si risponde sempre a un’emergenza, sembra già stabilito e certo il da farsi. Non è cosi. Governare non significa promulgare un editto, ma aiutare i cittadini attivi che stanno già realizzando il cambiamento, che si danno il tempo necessario, che inventano insieme le soluzioni. La promessa è diventata una brutta parola nella politica mediatica. Ma è tempo di darci nuove promesse come comunità sociale e politica, per realizzare i fatti che non abbiamo ancora immaginato.
Il bracciante di Cerignola e il cittadino esigente delle Centopiazze immaginavano stagioni migliori della loro vita. Avevano i piedi piantati in un luogo ma trovavano la forza in un altrove temporale.
Oggi invece è sempre più difficile proiettare nel tempo le aspettative, sia per le singole persone sia per le comunità. L’altrove temporale è scalzato dall’altrove spaziale. Le aspettative si calano nello spazio suscitando diversi e controversi modi di vita. Il senza fissa dimora che si crea la propria cuccia di cartone sul marciapiede affida a quei pochi metri le sole aspettative rimaste, perché ha smarrito le aspettative dell’avvenire. Ma la sua cuccia corrisponde a un atteggiamento sociale più ampio. Si diffondono in ogni dove i recinti urbani, per delimitare i condomini, le zone esclusive, i parchi. Le persone sgradite sono allontanate dalla vista dei benpensanti. Si accentuano conflitti nell’uso degli spazi, ad esempio la movida giovanile e le proteste dei residenti. Si formano recinti immateriali che separano i ghetti dal resto della città. Gli abitanti dei quartieri centrali non conoscono la vita delle borgate. Vengono a saperne qualcosa solo quando i media la raccontano con i soliti stereotipi. L’esempio più chiaro di altrove spaziale è il mega centro commerciale, nel quale proprio la specializzazione del consumo, cioè il dominio assoluto del qui e ora, è in grado di tenere insieme l’eterogeneità sociale. È come il rovescio della piazza, la quale, al contrario, operava come spazio senza alcuna funzione specifica, come luogo dell’inutile, come memoria collettiva o come utopia dell’eguaglianza.
La cuccia di cartone, allora, è la rappresentazione del malessere della città. Chi vive sotto i ponti perché ha perso le speranze continua a essere definito come soggetto marginale, ma esprime in forme radicali un disagio che nella sua essenza si ritrova anche nella vita così detta normale. E già questo dovrebbe incoraggiare a non considerare marginali le politiche contro la marginalità.
C’è una frase di papa Francesco che coglie il problema e riapre la prospettiva: “Il tempo è superiore allo spazio”. Subito i suoi detrattori ecclesiastici si sono affannati a contestarla con i sottili argomenti della filosofia e addirittura della teoria einsteniana. Sono stati spiazzati dal linguaggio poco curiale di un aforisma pur sempre presente nei suoi documenti dalla Lumen Fidei all’Amoris Laetitia. Non è una teoria astratta, è un’esortazione pastorale a mettersi in cammino invece che possedere spazi. “Lo spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza”.
Ce lo deve ricordare il papa di camminare con lo sguardo verso l’avvenire? È il paradosso del nostro tempo, ci pervade un’atrofia del futuro proprio mentre tutta la nostra conoscenza è proiettata verso mete incredibili.
Le nozze di Cana nel nostro tempo
Viviamo in uno squilibrio tra la Potenza e la Saggezza. È sempre più evidente la differenza tra la straordinaria potenza di trasformazione del mondo e la scarsa capacità di regolarne gli esiti. Tra lo sviluppo economico e la sostenibilità del pianeta. Tra la produzione tecnologica della vita e la responsabilità dell’umano. Tra l’apertura al mondo e la guerra permanente. Tra la democrazia della rete e i nuovi monopoli cognitivi. Tra la potenza tecnologica e la mancanza di lavoro.
La forza produttiva della conoscenza consentirebbe di fare molto più di prima con meno sforzo. Sorgono domande ingenue: chi se li prende i frutti di questa irresistibile trasformazione? Dovremmo essere tutti più ricchi pur dedicando più tempo alle relazioni umane e perfino all’ozio creativo. Dovrebbero essere disponibili le risorse per una società dell’eguaglianza. E invece aumenta la povertà materiale e spirituale.
Torna in mente la parabola delle nozze di Cana. Doveva essere un giorno di festa, un convivio dell’abbondanza, un godimento comunitario. E invece improvvisamente si palesa la penuria che turba la felicità, manca il vino per i commensali, dice la madre a Gesù. Nella traduzione ordinaria del Vangelo la risposta di Gesù è scostante, in contrasto con il contesto narrativo e in fin dei conti ben poco cristiana; dice: “Donna, che vuoi da me?”, sembra quasi un rimprovero, e comunque un rinvio del problema alla madre. Raniero La Valle ha recentemente proposto una diversa esegesi, secondo la quale Gesù risponderebbe “che cosa ci sta succedendo a me e a te, donna? Come siamo diventati, donna?”. E così, infatti, è coerente con il seguito, perché Maria dice ai servi “fate quello che vi dirà”; Gesù ordina di riempire d’acqua le giare e si compie il miracolo della trasformazione in vino.
Come siamo diventati? È la domanda che ci viene alle labbra oggi di fronte ai morti innocenti del Mediterraneo, è la domanda degli adolescenti che incredibilmente sono scesi in piazza per salvare il pianeta, è la domanda dei volontari di fronte alla solitudine delle persone nella metropoli della connessione globale.
La parabola delle nozze di Cana ci indica due problemi del nostro tempo: la domanda di senso, come siamo diventati; il difficile governo della comunità, la mancanza del vino alla festa. Sono le due conseguenze fondamentali dello squilibrio tra la Potenza e la Saggezza.
Se la Potenza sfugge alla regolazione dei suoi esiti si determina una crisi di governo, le cui soluzioni sembrano tanto difficili da richiedere il miracolo dell’acqua e del vino.
Se la Saggezza non tiene il passo della trasformazione si apre la domanda di senso – come siamo diventati, dice Gesù – poiché vengono meno i codici morali, spirituali e cognitivi per la comprensione del mondo.
Della penuria morale non devo aggiungere granché di fronte a voi operatori e volontari che la incontrate ogni giorno tra le cause dell’ingiustizia sociale. Mi soffermo invece sullo squilibrio cognitivo.
Da un lato cresce a dismisura la conoscenza funzionale alla potenza, si sedimenta nelle tecnologie sempre più avanzate, è trascinata dal profitto, è avvertita come libertà dal consumatore. Però non cresce in pari misura il sapere della Saggezza, un sapere che non nasce spontaneamente, anzi avrebbe bisogno di un apprendimento sociale e individuale, avrebbe bisogno di un’educazione integrale, non solo per i giovani, ma anche per gli adulti in tutte le fasi della vita.
La indagini Piaac dell’Isfol rivelano che circa il 70% della popolazione non è in grado di orientarsi nel mondo contemporaneo, perché non possiede gli strumenti cognitivi, alfabetici e logici, molto più complessi delle competenze del leggere e far di conto che pure richiesero nel dopoguerra una monumentale lotta all’analfabetismo. Da quando è scomparso Tullio De Mauro nessuno parla più di questi numeri e soprattutto nessun soggetto politico pone la priorità nazionale di un’educazione integrale dei cittadini.
Il mondo nuovo apre i vecchi contenitori – nazione, famiglia, classe – che regolavano i comportamenti collettivi. Tutto ciò rende l’individuo più libero di scegliere la propria linea di condotta. D’altro canto, questa varietà di scelta degli stili di vita richiederebbe una maggiore competenza. Si crea quindi uno scarto tra la libertà dell’individuo e la cultura che dovrebbe sostenerla. All’inizio del Novecento, quando il fenomeno era ancora allo stato embrionale, Georg Simmel comprese pienamente il pericolo di una diversa dinamica di crescita tra la potenza e la cultura, che avrebbe potuto portare a “un regresso degli individui in termini di spiritualità, delicatezza e idealismo”. Sembra una descrizione dei fenomeni irrazionali, rancorosi e distruttivi tipici dei nostri tempi. Al contrario, alla fine del Novecento, nel pieno della globalizzazione irenica Antony Giddens postulò una “modernità riflessiva” che avrebbe consentito agli individui di acquisire gli strumenti cognitivi indispensabili per gestire le nuove opportunità. Si supponeva che la società della conoscenza avrebbe fornito a tutti i saperi necessari per gestire le nuove libertà. Era il sogno del cittadino razionale che sceglie nel mercato, decide in politica ed è in grado di progettare la propria vita. La modernizzazione era come passeggiare su un prato raccogliendo i fiori della conoscenza. Purtroppo non è andata così. Le opportunità sono utilizzate nel migliore dei casi dai ceti medi riflessivi. Ma lo scarto cognitivo espone i ceti popolari alla mobilitazione identitaria promossa dalle agenzie politiche della xenofobia, del fondamentalismo e della propaganda bugiarda. La manipolazione delle masse sembrava una storia degli anni Trenta, e invece si ripresenta con maggiore pervasività sociale e raffinatezza tecnologica. Nonostante i suoi mirabili i frutti, la società della conoscenza contiene anche il lato oscuro di un’età dell’ignoranza.
Mi ha colpito un dato del rapporto Caritas: tra coloro che si rivolgono ai centri di ascolto la condizione di depressione o ansia cronica è due o tre volte più frequente nei soggetti meno istruiti. Il malessere che si esprime nella marginalità è della stessa natura di quello che attraversa l’intera società. Anche per questo la marginalità non dovrebbe essere affrontata da politiche marginali o settoriali, ma dovrebbe suscitare politiche di grande respiro sociale.
Dalla metafora delle nozze di Cana è emerso l’altro effetto dello squilibrio tra potenza e saggezza: la crisi di governo del mondo. Lo vediamo soprattutto nelle relazioni internazionali che ormai sfociano con tanta leggerezza verso la guerra militare, religiosa e commerciale. Lo vediamo nell’incapacità delle leadership di guidare i rispettivi paesi. Basta pensare al mondo anglosassone che nel Novecento è stato esempio di affidabilità e sicurezza mentre oggi è guidato da due bugiardi patologici. Lo vediamo nell’insoddisfazione degli elettorati verso qualsiasi governo. Questi fenomeni sono stati classificati come populismo che è una formula vuota inventata dai media e da una politologia meramente classificatoria.
Il fico sterile della politica
Sono più utili i classici del pensiero politico per capire la contemporaneità. Antonio Gramsci nei Quaderni parla dell’irrequietezza che scuote le società nei momenti di transizione, quando cioè la vita reale mette in discussione le teorie che in passato ne avevano ispirato il governo. In genere, dice Gramsci, si commettono almeno due errori. C’è chi si attesta sulle vecchie teorie e continua ad applicarle nonostante gli insuccessi pratici. Ma c’è anche chi alla discrasia tra teoria e pratica risponde con soluzioni fittizie che non solo non risolvono l’irrequietezza ma l’aggravano e richiedono ulteriori soluzioni fittizie.
Grosso modo sono i due errori che ritroviamo a sinistra e a destra. La sinistra abbarbicata sulle vecchie ricette novecentesche oppure su quelle del mercato, imparate recentemente con l’entusiasmo del neofita, che applica a dispetto dei risultati. La destra grande produttrice di soluzioni fittizie, che danno sempre la colpa agli altri, allo straniero, all’Europa, al mondo, risvegliando i fantasmi del passato, sotto il nome nuovo di sovranismo, come per far dimenticare le tragedie del nazionalismo e del razzismo.
La politica contemporanea si dimena dentro lo squilibrio tra Potenza e Saggezza. Ha trovato una via d’uscita utile per sé ma non per il bene comune. Ha dato per irrisolvibile il problema del governo e nei fatti rinuncia a grandi obiettivi di trasformazione. Nel contempo si è però specializzata nell’inventare narrazioni che offrono risposte fittizie alla domanda di senso.
Si vede meglio nel nostro Paese, che non dimentichiamolo ha sempre espresso una genialità nell’invenzione di nuove forme politiche, a volte anche maligne come il fascismo. Nel decennio della crisi sono emersi ben cinque modelli di risposta al malessere della società: il possidente Berlusconi, ancora in campo, l’austero Monti, il comico Grillo, il rottamatore Renzi e il ruspista Salvini. Nessuno dei nostri salvatori della Patria sarà ricordato per aver risolto la crisi italiana, ma ciascuno a modo suo ha suscitato emozioni profonde e ha influenzato i comportamenti sociali.
Si parla molto della debolezza dei politici, ma si sottovaluta la loro capacità performativa dei comportamenti nella sfera pubblica. Vi sarà capitato di incontrare persone eccentriche e vi sarete detti quello mi sembrava berlusconiano, grillino, o renziano o leghista. Non è vero che i politici seguono i sondaggi, creano gli orientamenti che sono poi misurati dai sondaggi. Poiché non sono in grado di governare si sono specializzati nell’influenzare i comportamenti popolari.
Questa capacità performativa agisce pesantemente sul fenomeno delle migrazioni. È la più difficile politica di governo e nessuno almeno in Italia l’ha mai affrontata organicamente, ma si presta molto bene a soluzioni fittizie.
Si continua a dire che la politica si limiterebbe a raccogliere il malcontento della gente verso i migranti. È falso. È la politica di destra che crea la mente popolare della xenofobia. Lo dimostra proprio il caso italiano: i borgatari che calpestano il pane dei poveri, l’odio razziale che spumeggia nei discorsi pubblici, le ronde contro i rom, tutto ciò non è frutto dello spontaneismo sociale, ma sono modelli di comportamento costruiti con forti investimenti mediatici, incoraggiati dalla propaganda politica, legittimati da leggi sciagurate come il decreto sicurezza. Il razzismo viene dall’alto non dal basso. La prova è che tali fenomeni sono diventati più frequenti da quando la destra si è data un leader che ogni giorno alimenta l’odio verso lo straniero. Erano meno frequenti quando un altro leader della destra solleticava istinti diversi, non meno dannosi, incoraggiando gli evasori a non pagare le tasse o le ragazze a fare le veline.
Purtroppo attualmente i messaggi di odio si diffondono per mancanza di avversari. Non è in campo una forte narrazione popolare della solidarietà e dell’accoglienza. I politici che ci credono fanno discorsi astratti, tecnici, volontaristici, facilmente travolti dagli slogan semplificatori.
La maggioranza dell’opinione pubblica, ad esempio, se bene informata, sarebbe favorevole a dare la cittadinanza italiana ai giovani figli dei migranti che studiano nelle nostre scuole, giocano, cantano e si divertono, contribuiscono al futuro del paese e parlano italiano. Ma nessuno a sinistra si è mai speso per elaborare una comunicazione efficace di questa politica. Già il ricorso al latinorum dello ius soli o jus culturae dice tutto sulla sterilità del messaggio. E così i nostri parlamentari si ritraggono quando si tratta di approvare la legge, con la scusa dei sondaggi, ma senza aver fatto nulla per modificare quei sondaggi. Il razzismo è diventato un frame potente, una cornice che spiega a modo suo qualsiasi cosa accada, e potremo batterlo solo con un altro frame, con un discorso pubblico convincente e tanti esempi sulle concrete soluzioni di accoglienza dei migranti.
Ma perché siamo arrivati a questo punto della crisi della politica? È un un processo almeno trentennale, che oggi manifesta i suoi esiti peggiori. Perfino il linguaggio è inadeguato a descrivere la transizione. Li chiamiamo ancora partiti, rappresentanti del popolo, forze di governo, ma sono definizioni che non corrispondono più ai comportamenti reali dei soggetti politici.
Appartengo a una generazione che ha vissuto per esperienza diretta questa transizione e quindi ne è anche in parte responsabile. Ho conosciuto tutti i peccati della vecchia politica, ma ricordo anche le sue virtù: il radicamento sociale inteso come relazione con la vita reale delle persone; la produzione culturale intesa come riconoscimento di diverse visioni del mondo.
In vecchiaia mi ha preso la passione di coltivare frutti antichi. La linfa che alimenta i frutti e le foglie è come il radicamento sociale dei vecchi partiti. E i frutti sono generati dai fiori che vengono fecondati dal polline proveniente, per merito delle api e del vento, da alberi diversi, e questa differenza è decisiva per la fruttificazione. L’impollinazione, quindi, è come l’influsso delle diverse culture sulla vita politica. Qui è avvenuta la trasformazione: ai nuovi soggetti manca sia la linfa sociale sia l’impollinazione culturale.
Non si alimentano più dal basso, ma dall’alto. Non sono in grado di agire sulla trasformazione sociale, ma solo di operare con le leve statali e amministrative. E infatti le usano in modo bulimico, fino a produrre l’alluvione normativa che ormai invade tutti i campi della vita pubblica e crea una burocrazia asfissiante.
Paradossalmente, nel trentennio della privatizzazione a ogni costo, la politica si è invece statalizzata, si è incistata nella macchina amministrativa. Il politico è diventato un funzionario, e agisce solo in quanto presidia una carica pubblica.
Il ribaltamento della sorgente modifica i contenuti del governo. Il radicamento produceva la tendenza all’eguaglianza perché rispondeva ai bisogni delle classi subalterne. La politica statalizzata, al contrario, è più direttamente influenzabile dagli interessi delle classi dirigenti.
La differenza che veniva dall’impollinazione culturale, invece, è stata sostituita dalla propaganda mediatica. Questa, per sua natura è totalitaria, tende cioè a omologare, a volgarizzare, ad appiattire disprezzando la molteplicità culturale. La politica mediatizzata ha guadagnato in capacità performativa, ma ha perduto la fecondità dell’impollinazione.
Come i miei alberi anche i partiti non danno frutto se manca la linfa e il polline. Diventano come il fico sterile dei vangeli sinottici. È l’unica parabola distruttiva, tutte le altre sono generative, come nella trasformazione dell’acqua in vino a Cana.
Tra le versioni degli evangelisti ci sono però sottili differenze che possono valere come metafore della politica attuale. In Matteo c’è l’invettiva più dura, il fico sterile è condannato a morire; come si sente oggi nello sdegno di chi vorrebbe distruggere insieme ai partiti anche la politica. Marco, invece, aggiunge una notizia curiosa, non era la stagione adatta, quindi il fico avrebbe potuto ancora dare frutti; è come l’attesa di cambiamento che ogni tanto si riaccende nella vita dei partiti, magari con il rito delle primarie. Luca propone una scena diversa, non c’è Gesù, ma il signore delle terre che si lamenta della mancanza di frutti e ordina di tagliare il fico al vignaiolo. Questi, però, risponde con molta saggezza: “mio signore diamogli un’altra possibilità, potrebbe dare frutti se lo coltiviamo con cura, con la zappa, il concime e la potatura”. Noi siamo dalla parte del vignaiolo, scegliamo di coltivare la politica affinché porti frutti alla comunità.
Le coltivazioni possibili
In conclusione quindi vorrei indicare alcuni modi di coltivazione, come un’agenda dei cambiamenti possibili.
Primo, liberare la politica dalla corazza burocratica che si è messa addosso. Quando ne parla un politico sembra una disgrazia che gli è piovuta addosso, ma è la conseguenza della statalizzazione, della legislazione come unica modalità della sua iniziativa.
La burocratizzazione fa male in ogni campo, ma soprattutto alle politiche sociali. Impedisce di cogliere la molteplicità dei bisogni delle persone, di integrare i diversi servizi, di sviluppare la qualità piuttosto che misurare solo la quantità, di valorizzare e dare fiducia alle professionalità degli operatori.
Oggi si persegue il modello dell’amministrazione automatica, che decide in base a meri adempimenti procedurali, rinunciando a qualsiasi valutazione di merito. Alla base c’è l’intento positivo di combattere la corruzione, ma produce una standardizzazione che riduce l’efficacia dei servizi sociali. È quasi difficile dirlo, ma servirebbe un’amministrazione “discrezionale”, che non significa arbitraria, ma capace di scegliere tra diverse soluzioni o di progettare una strategia di intervento sulla base delle competenze professionali degli operatori sociali, nella piena trasparenza delle procedure e con la verifica dei risultati. Solo un’amministrazione che ritrova in se stessa l’autorevolezza del progetto e la conoscenza dei fenomeni può aiutare la politica a liberarsi della corazza burocratica.
Secondo, avvicinare il governo alle comunità. Potrebbe aiutare la riforma istituzionale. Sapete come la penso: bisogna eliminare il Comune di Roma. Non si perde nulla perché l’amministrazione capitolina è già al collasso, i funzionari non firmano più gli atti, Atac e Ama non sono più servizi pubblici ma pericoli pubblici. Sarebbe, invece, l’occasione per una vera riforma. Le attuali funzioni comunali potrebbero essere trasferite in due direzioni: in alto, verso la Città Metropolitana, che è già istituita, purtroppo è una scatola vuota, ma può diventare il livello di governo delle strategie di area vasta e gestire le relazioni della capitale con lo Stato; in basso, elevando gli attuali municipi allo status di veri comuni pienamente responsabili della vita dei quartieri e dei servizi alla persona, in modo che si possa scrivere sulla porta di ingresso “qui è vietato dire non è di mia competenza”.
La riforma istituzionale è necessaria ma non sufficiente. Occorre andare più in profondità se si vuole ricostruire il legame tra le istituzioni e i mondi vitali. La rete degli edifici scolastici è la risorsa più preziosa, il bene pubblico più diffuso e non ancora messo a frutto pienamente. La politica del riconoscimento tra i luoghi e tra le persone, che tentammo trenta anni fa con le Centopiazze oggi bisognerebbe realizzarla con le Centoscuole. Dovrebbero essere aperte giorno e sera, come luci sempre accese contro la solitudine delle periferie. Non solo per dare sempre meglio istruzione ai figli, ma per riportare alla formazione anche gli adulti. L’edificio scolastico dovrebbe essere riqualificato per farne il luogo più bello e accogliente del quartiere. La scuola dovrebbe diventare il centro civico di mobilitazione delle associazioni e del volontariato, la sede del dialogo permanente tra istituzioni e cittadini, il laboratorio sociale per la cura del quartiere e la riconversione ecologica, la mappa dell’integrazione dei servizi pubblici, l’occasione degli scambi multiculturali, il luogo di rielaborazione delle culture popolari.
Terzo, la chiamata civica alla politica. Credetemi, il ceto politico non si sente bene, non ce la fa da solo, ha bisogno del vostro aiuto; si, proprio di voi volontari e cittadini attivi. Lo so che siete già molto impegnati, ma proprio voi più di altri sapete come fare. La malattia dei politici è una drammatica perdita del senso di realtà, un po’ come capita alle persone disorientate che arrivano nei vostri centri di accoglienza. Con lo stesso spirito potete aiutare la politica a ritrovare il proprio ruolo sociale.
E se necessario alzate la voce per farvi sentire. Come faceva don Luigi Di Liegro. Quanto ci manca! Senza di lui Roma è cambiata, non in meglio purtroppo. Sapeva parlare alla classe dirigente e al popolo, perché spiazzava il discorso pubblico usando registri molto diversi. La visione anticipatrice e la concretezza delle opere, come quando soccorse i disperati della Pantanella e tra i primi comprese la questione multiculturale che avrebbe investito l’avvenire della città. L’armonia e il conflitto, come quando istituì a villa Glori, nel quartiere bene dei Parioli, la casa famiglia per i malati terminali di Aids, ancora visti all’epoca come gli untori di una nuova peste, aiutando però la città a prendere consapevolezza del problema. Perfino il suo aspetto di persona minuta e fragile induceva a sottovalutare la voce tonante che scuoteva l’opinione pubblica, come quando convinse tutti a riconoscere le persone senza fissa dimora, con l’istituzione del prima casa di accoglienza qui a via Marsala.
Bastava ancora il grido di un profeta per influire sulla politica, allora già in crisi ma ancora connessa, seppure debolmente, con la società. E oggi, come si può influire su un ceto politico spaesato? Tanti cittadini impegnati, volontari e operatori ogni giorno discutono tra loro su come migliorare i servizi e nel contempo aiutano chi soffre a prendere parola. È il mormorio sociale della città solidale. Ma forse c’è bisogno di alzare il volume, di scuotere chi non ascolta, di farsi sentire tutti insieme. C’è bisogno che il mormorio sociale diventi il discorso pubblico della carità e dei diritti.

2 commenti a “Carità o diritti?”

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