Fra le croniche oscillazioni della politica italiana c’è una sola certezza, ed è che sempre meno cittadini/e considerano il voto un diritto-dovere utile e significativo per la propria condizione e la propria esistenza. Se ne dovrebbe ragionare molto – disaffezione o protesta? Rassegnazione passiva o esodo attivo? Spoliticizzazione o bisogno di una politica diversa da quella che c’è? – e invece ogni volta il non-voto scivola via dalle analisi del giorno dopo come fosse una grandinata che poi passa, e i conti si fanno solo con i voti espressi, corrispondenti ormai a meno della metà del corpo elettorale. Applicando peraltro alla dimensione locale giudizi e pregiudizi presi dalla dimensione nazionale, il che non aiuta a fare l’operazione inversa, cioè a cogliere dalla dimensione locale i segnali utili per leggere meglio quella nazionale.
È stato così anche con la mini-tornata di amministrative conclusa domenica scorsa, che è stata complessivamente assegnata al cosiddetto “campo largo” di centrosinistra in supposta rimonta su un centrodestra litigioso e diviso. Il che sommariamente è vero, ma solo sommariamente, e rischia di far passare per conferme dello schema bipolare processi che sono al contrario effetti del suo sfarinamento.
Prendiamo il caso di Catanzaro, che per una volta fa notizia non per il suo rassegnato consenso al campo moderato ma per la brillante vittoria della coalizione di centrosinistra guidata da Nicola Fiorita, il quale ha sbaragliato al ballottaggio (58,24 a 41,76) quella di centrodestra guidata da Valerio Donato, ribaltando il risultato del primo turno (44 a 31 per Donato). Una vittoria della strategia del “campo largo” di Enrico Letta, com’è stato detto nelle dirette televisive notturne e sui quotidiani del giorno dopo? Sì e no. Lo stesso Letta, in una intervista su La Stampa di martedì scorso, ha ammesso con onestà che il risultato si deve soprattutto alla “solidità dei candidati”, e che il successo di due candidati civici come Fiorita a Catanzaro e Tommasi a Verona dimostra che tanto i voti conquistati tanto la semina di una nuova classe dirigente provengono da bacini più larghi di quelli di partito. Quello che Letta non aggiunge è che invece è tutta da ricondurre alle contorsioni del suo partito la bizzarra situazione che a Catanzaro ha visto scontrarsi due personalità entrambe di sinistra, Fiorita e Donato, l’uno, esterno al Pd, a capo di una coalizione di centrosinistra, l’altro, fino a poco prima internissimo al Pd, a capo di una prevalentemente di centrodestra. Com’è potuto accadere?
Passo indietro di cinque anni. In vista delle comunali del 2017, Nicola Fiorita, docente di diritto all’Unical di Cosenza all’epoca quarantottenne, si candida a sindaco mettendo in piedi il movimento civico Cambiavento, che eredita e rilancia fra l’altro quello che aveva sostenuto la giovane e brillante candidatura di Salvatore Scalzo nel 2011. Fiorita si propone già allora come frontman di tutto il centrosinistra, ma il Pd non ci sta e candida un esponente di partito, che va al ballottaggio contro Sergio Abramo (FI poi trasmigrato nella Lega) e perde. Forte di un ottimo risultato al primo turno, Fiorita non molla. Fa opposizione in consiglio comunale (ma si dimette quando viene infondatamente sfiorato da un’inchiesta giudiziaria presto archiviata), mantiene in vita Cambiavento, lavora sul radicamento territoriale senza sacrificare al professionismo politico altre passioni: il collettivo di scrittura Lou Palanca, l’impegno con Libera, la rete di Slow Food. Diventa insomma una sorta di testimonial di quello che i giovani catanzaresi non rassegnati al destino dell’emigrazione vogliono sentirsi dire: che nella loro città si può vivere senza rinunciare a essere sé stessi.
Nel frattempo, durante la quarta sindacatura di Abramo – e mentre Catanzaro assume il volto bizzarro di una sorta di megalopoli in sedicesima, con i quartieri che si snodano lungo una verticale lunghissima scollegati l’uno dall’altro, il centro storico che si spopola di abitanti e attività, il commercio che langue, l’edilizia che fa quello che vuole, il traffico che impazzisce – il centrodestra si scompone e si decompone per ragioni politiche e giudiziarie, e il solido blocco di potentati economici che da sempre lo vota rischia di ritrovarsi senza sbocco amministrativo. Tradizionalmente molto moderata, la città adesso è contendibile da sinistra, e Fiorita è pronto a riprovarci.
Stavolta il Pd non ripete l’errore del 2017 e lo sostiene, e così pure il M5S oltre a SI e al movimento di De Magistris. Ed è a questo punto che interviene a sorpresa l’autocandidatura di Valerio Donato, “aperta a tutti”. Donato non è uno qualunque. Anche lui docente di diritto all’Università Magna Graecia di Catanzaro, nonché presidente dell’omonima Fondazione e in precedenza aspirante rettore, è un intellettuale stimato, un avvocato affermato e soprattutto un uomo di solide radici nel Pci-Pds-Ds-Pd, fino a un attimo prima tutt’altro che ostile al progetto Fiorita. Ma il Pd calabrese è in fase congressuale, e le sue movenze interne sono incomprensibili ai più. Fatto sta che Donato straccia la tessera e si lancia in un’avventura trasversale in cui conta di gestire gli apporti di Fi e della Lega, mentre sarà lui a esserne usato e giocato. Tutte le consorterie del voto di scambio saltano sul carro, camuffate da liste civiche senza simboli di partito che oscurano i segmenti minoritari di centrosinistra pur presenti nella coalizione. Solo Giorgia Meloni annusa l’impresentabilità dell’operazione e impedisce alla sua esponente di spicco locale di farne parte, costringendola a correre da sola.
Gli annunci dell’esito finale stanno già nei risultati del primo turno, dove sotto l’ampio vantaggio di Donato su Fiorita si intravedono i due dati salienti che consentiranno il ribaltamento del ballottaggio. Il primo: Donato è sotto di parecchi punti rispetto alle sue liste, segno che i capibastone della destra, una volta eletti, sono pronti a mollarlo, come infatti accadrà al ballottaggio quando gli verranno meno circa 8000 voti malgrado l’appoggio, stavolta, di Fdi. Il secondo: nella coalizione di Fiorita le due liste civiche di Cambiavento doppiano con un totale del 14,50% il risultato assai modesto del Pd (5,8) e del M5S (2,7), grazie a una campagna elettorale capillare, quartiere per quartiere e caseggiato per caseggiato, che si intensificherà nelle due settimane del rush finale.
Finisce con un ribaltone superiore a qualunque aspettativa, cui solo in parte contribuisce la convergenza su Fiorita di parte della coalizione centrista di Talerico arrivata terza al primo turno, e che con ogni evidenza premia la tenacia del candidato, il radicamento di Cambiavento sul territorio, la costruzione di una squadra giovane, piena di energia e di per sé dimostrazione che il cambiamento, generazionale e politico, è possibile e anzi è già in atto. È il lavoro politico che un tempo facevano i partiti di massa, che oggi i loro eredi residuali non sanno fare, e che rispunta, a Catanzaro come a Verona come in altri esperimenti degli ultimi anni, in una generazione allevata al comandamento neoliberale del fai-da-te che alla fine ha imparato a fare da sé anche in politica. Nessun “campo largo” può più fare a meno di questi laboratori cresciuti dentro e contro la desertificazione della politica ufficiale. Sarebbe una lezione da tenere presente in vista delle prossime politiche, ben più dell’aritmetica delle sigle di partito ufficiali e dei capricci dei loro leader. E sarà una lezione da tenere ben presente nella stessa Catanzaro, dove solo tenendo in vita questo laboratorio sarà possibile amministrare vincendo le resistenze degli sconfitti, che al momento possono contare in consiglio comunale su una maggioranza di seggi in stridente contrasto con la festa allegra e liberatoria esplosa in città.
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