Nelle ultime elezioni abbiamo visto una riconquista di voti da parte del Partito socialdemocratico, che ha addirittura raggiunto il suo miglior risultato degli ultimi vent’anni. Tale incremento è dovuto a uno spostamento al centro delle sue politiche, che gli ha permesso di sottrarre voti al Partito liberale (Venstre)?
La realtà è forse ancor più paradossale. La socialdemocrazia danese è riuscita a promuovere, già durante la precedente legislatura, una politica più di sinistra sui temi sociali e più di destra su quello dell’immigrazione; un cambio di rotta centrale in un paese che era fino a pochi anni fa il più aperto in Europa verso l’accoglienza. Ovviamente questo strano binomio crea dei problemi, sia sul lato politico che su quello del diritto internazionale al Governo danese, che non è riuscito tra l’altro ad attuare il suo piano di trasferimento dei richiedenti asilo in Rwanda, molto somigliante a quello promosso dal Governo Johnson in Regno Unito.
Ad ogni modo, questa duale strategia è stata messa in atto per tentare di riprendere il voto dei ceti popolari perso e con essa i socialdemocratici sono riusciti, già alle ultime elezioni, a recuperarne effettivamente una parte. Il suo avanzamento dell’1,6% (dal 25,9% al 27,5%) può sembrare piccolo, ma è significativo in un Parlamento formato da 12 diverse forze politiche, e lo è ancora di più pensando che il secondo partito è grande meno della metà. La questione migratoria non è stata praticamente trattata nel dibattito della campagna elettorale, perché con la sua linea restrittiva la Socialdemocrazia si è resa inattaccabile da destra su quel campo (così da fare “zero a zero” con la destra, secondo gli intenti dei socialdemocratici). Si è parlato molto di più invece di welfare e di lavoro, terreni su cui il Partito socialdemocratico ha potuto invece guadagnare sugli avversari.
Da vent’anni il centro-destra classico aveva aperto alle politiche nazional-populiste su immigrazione e altri temi, togliendo al principio voto popolare alla Socialdemocrazia. Ora, come si è visto, a questo si è cominciato a porre rimedio: la linea restrittiva sull’immigrazione non sarebbe bastata, ma, dato quanto avvenuto nel ventennio precedente, nemmeno la sola svolta verso sinistra su welfare e pensioni sarebbe stata sufficiente. L’insegnamento possibile è questo: la contemporaneità tra politica neoliberale e di maggiore apertura all’immigrazione dal mondo (che in Danimarca si era condotta dal 1982, e che la Socialdemocrazia solo in parte aveva ribaltato negli anni 1990) conduce poi a dovere adottare rimedi in parte sgradevoli. Forse, rinsaldata la fiducia con la base popolare sofferente, sarà possibile in seguito fare altro. L’economia danese avrebbe tutto il potenziale, per esempio, per favorire una maggiore crescita del welfare e dei salari.
Forti della loro corroborata posizione di partito leader, i socialdemocratici proveranno ad allargare la compagine di Governo anche ai Moderati dell’ex ministro di Stato Rasmussen, nati da una costola del Venstre?
Il Partito socialdemocratico danese è riuscito, differentemente da molti altri simili partiti europei, a confermarsi come una forza rappresentativa dei lavoratori, ancora in gran parte la sua base sociale di riferimento.
Premesso questo e tenuto conto che si è andati a elezioni anticipate perché il Partito social-liberale (Radikale Venstre – un partito radicale appena meno liberista nelle politiche economiche) ha tolto il suo sostegno al Governo monocolore socialdemocratico, c’è ora in primo luogo la necessità di allargare la maggioranza di Governo per garantirgli una più solida stabilità.
Dal canto suo Rasmussen si è staccato dai liberali con l’intento di favorire una politica che passi per il centro, offrendo la sua disponibilità a collaborare coi socialdemocratici.
In terzo luogo, stante la gravità della situazione internazionale, tra guerra, inflazione e aggravamento della crisi climatica, anche i socialdemocratici ritengono necessario, dopo aver ricostruito il rapporto con le classi popolari, mettere in atto una politica di maggiore unità nazionale.
Laddove questa soluzione “che passa per il centro” non fosse percorribile, rimane pur sempre l’alternativa, sebbene più risicata, del Governo monocolore con l’appoggio delle sole forze di sinistra. Questa possibilità di scelta garantisce al Partito socialdemocratico una posizione ancor più vantaggiosa in sede negoziale, tanto che, subito dopo le elezioni, la Regina Margherita II ha dato alla ministra di Stato uscente Mette Frederiksen l’incarico esplorativo per formare il nuovo Governo.
Che ruolo giocheranno invece gli altri partiti di sinistra che appoggiavano il precedente Governo Frederiksen? Manterranno il loro sostegno esterno, anche nel caso di un accordo dei socialdemocratici con Rasmussen?
Innanzitutto, è utile chiarire che se vi fosse un accordo con i Moderati, la maggioranza conterebbe su 73 voti sul totale dei 179 del Folketing, il Parlamento danese, e dovrebbe dunque costituire un Governo delle astensioni, cosa assai tipica nei paesi scandinavi, dove è presente il cosiddetto parlamentarismo negativo, in cui le astensioni si sommano ai voti favorevoli alla maggioranza per garantire la fiducia all’Esecutivo.
Con questo meccanismo, il sostegno esterno si configura appunto con l’astensione e ritengo probabile che i partiti della sinistra – che nel complesso hanno superato il 14% dei consensi, perdendo circa l’1,2% rispetto alle precedenti elezioni – in ogni caso garantiranno il loro appoggio al Governo. Appoggio che nella scorsa legislatura era fondato su qualcosa di più: sostegno sempre esterno al monocolore socialdemocratico, ma corredato con un accordo d’intesa. Il voto favorevole alla maggioranza è invece difficile a realizzarsi, tra le altre cose, per la differenza di vedute sul tema dell’immigrazione e perché post-comunisti e verdi sono per una politica di riconversione ambientale ancora più rapida e radicale.
Sul piano politico, questa modalità di collaborazione ha giovato molto alla sinistra radicale, che è riuscita, ad esempio, a raggiungere la maggioranza relativa (15 seggi ai post-comunisti e 8 ai socialisti popolari sui 55 totali, a cui si aggiungono i 10 dei socialdemocratici) nel Consiglio comunale di Copenhagen.
Non si sa invece cosa faranno i social-liberali, che, usciti fortemente ridimensionati nell’ultimo turno elettorale (-4,84%), hanno sostituito la leader che aveva rotto con i socialdemocratici, aprendo, forse, a una nuova alleanza. Anche questa è una vittoria di Mette Frederiksen: chi le ha tolto la fiducia ne è uscito gravemente ustionato.
Per quanto riguarda la destra, invece, abbiamo visto la nascita del nuovo partito dei Democratici danesi, la cui leader Inger Støjberg viene dal Venstre, e che alla sua prima prova elettorale si è affermato con la conquista di 14 seggi e dell’8,12% dei consensi. Nel nome si ispira ai Democratici svedesi, di cui abbiamo parlato nella nostra precedente intervista sulle elezioni in Svezia. I Democratici svedesi prendevano però i passi a loro volta dal Partito Popolare Danese che, già in forte calo nelle ultime tornate elettorali, ha ora ottenuto solo 5 seggi. Quali sono le differenze tra le varie compagini e cosa sta succedendo più in generale nella destra danese?
Con la loro politica di un passo a destra e uno a sinistra, i socialdemocratici hanno eroso molto del consenso elettorale dei Partito Popolare Danese, che è riuscito in ogni caso con la sua influenza ventennale a cambiare radicalmente le politiche (e direi proprio la mentalità) del paese sul tema dell’immigrazione. Come accaduto un po’ per i Verdi, una volta che l’argomento politico centrale di una compagine viene assorbita e integrata da più o meno tutte le altre, questa perde la sua presa sull’elettorato.
Intanto hanno fatto il loro ingresso nel panorama politico i Democratici danesi e si è confermata la Nuova Destra (la traduzione letterale sarebbe: Nuovi Borghesi), il primo anche espressione del malcontento delle zone rurali verso Copenhagen; elemento ricorrente un po’ ovunque in Europa, ma comunque sorprendente in uno Stato così piccolo, antico e con minori squilibri sociali. Entrambi i nuovi partiti hanno assunte posizioni forse anche più radicali del Partito Popolare Danese sulla questione immigrazione. Inger Støjberg è stata addirittura sottoposta a un processo di impeachment e condannata a 60 giorni di carcere per avere, nel suo ruolo di ministra dell’Immigrazione (svolto tra il 2015 e il 2019), operato l’indebita separazione di coppie sposate di migranti (i cui matrimoni aveva giudicato fittizi in quanto combinati) in violazione del Minister Accountability Act e dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.Al contempo, entrambe queste nuove forze politiche sono fortemente liberiste nei temi socio-economici, a differenza del Partito Popolare Danese che è invece sempre stato favorevole, ad esempio, al rafforzamento del welfare, fornendo voti su questi temi al monocolore socialdemocratico che ha governato nella passata legislatura.
Con quattro partiti borghesi (ovvero di centro-destra) e tre partiti nazional-populisti, la galassia dei conservatori è dunque particolarmente divisa e le due forze maggiormente perdenti paiono al momento il Venstre, per il primo gruppo, e il Partito Popolare Danese, per il secondo, entrambi, in un certo qual modo, dilaniati a destra e a sinistra.
Comunque, in un sistema proporzionale con sbarramento solo al 2%, che vede speso governi di minoranza e dove la raccolta firme per presentare nuovi partiti è stata molto facilitata, una varietà di forze politiche in concorrenza tra loro e non interessate a riunirsi in coalizione prima delle urne è naturale.
Tornando invece all’istituendo Governo, su quali politiche sociali concentrerà principalmente la sua azione?
In primis, sul rafforzamento del sistema sanitario pubblico, dove c’è un problema di reclutamento del personale, un po’ perché il settore pubblico paga meno di quello privato e un po’ per le precarizzazioni intervenute negli ultimi anni, in un paese dove, in ogni caso, l’occupazione è molto alta.
Ovviamente socialdemocratici e moderati hanno idee diverse su come risolvere questo problema. Se i primi ritengono necessario un forte investimento pubblico nella sanità, in primo luogo per aumentare gli stipendi; i secondi promuovono soluzioni più tecniche, tra cui quella di riportare dal livello regionale a quello nazionale l’amministrazione del servizio sanitario.
E come ci si pone invece di fronte ai grandi problemi internazionali: guerra, reperimento di risorse energetiche e crisi ambientale?
La Danimarca è forse il paese più avanzato al mondo per le politiche di indipendenza energetica, senza avere nemmeno una centrale nucleare e volendo ricavare entro il 2030 il 70% della sua energia da fonti rinnovabili. L’esplodere della guerra in Ucraina, che dal punto di vista geostrategico preoccupa molto la popolazione e il Governo danesi (preoccupazione che ha portato a un rinforzo della collaborazione militare con gli USA e con gli altri paesi nordici, baltici e nord-atlantici, UK compreso), ha ovviamente ulteriormente incentivato questo percorso di transizione energetica.
Circa la crisi ambientale invece, argomento molto presente nel dibattito pubblico, il ruolo della Danimarca è bivalente. Se da un lato infatti è tra i paesi con le più avanzate politiche ambientali, dall’altro resta uno di quelli con la maggiore impronta ecologica, in particolare per quanto riguarda le produzioni agricole e i consumi alimentari.
Per quanto riguarda l’impatto del cambiamento climatico sul paese, invece, le opinioni sono discordanti. Alcuni sostengono che la Danimarca si gioverebbe di un aumento delle temperature di uno o due gradi centigradi, mentre altri segnalano che il riscaldamento avrebbe un effetto sulla corrente del Golfo tale da provocare addirittura un ulteriore abbassamento delle temperature. Questione ancor più difficile da scandagliare è come ne risentirebbe la Groenlandia, che, in linea teorica, potrebbe veder liberati con lo scioglimento dei ghiacciai alcuni territori per uso economico e abitativo.
Altrettanto si discute, piccolo appunto conclusivo, sulla sproporzione tra abitanti e rappresentanza parlamentare proprio di Groenlandia e Fær Øer, sui cui tre voti (rispettivamente, due dalla prima e uno dalla seconda) si regge la potenziale maggioranza di sinistra, che nel suo complesso conterebbe 90 seggi. Entrambi le zone sono roccaforti del “socialismo artico”, di cui avevo già parlato in un mio passato intervento, ripubblicato anche su questo sito.
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