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Articolo pubblicato su “Strisciarossa” il 10.04.2021.

Nell’elezione Groenlandese di pochi giorni fa vince alla grande il partito di democrazia socialista Inuit Ataqatigiit (Comunità popolare), ed è un’elezione storica. Anche e soprattutto perché accade nella zona artica, quella del globo investita dai maggiori e più profondi mutamenti: ambientali, con un riscaldamento climatico particolarmente accelerato, economici, con giacimenti immensi di ogni tipo da sfruttare, e strategici, con la lotta fra le potenze artiche rivali (USA e Russia) per accaparrarseli. Con l’aggiunta della Cina che come sempre ed ovunque preme per essere protagonista. Fino a volersi definire “nazione artica”.

Di fronte a tutto questo è significativa la vittoria di un eco-socialismo che si oppone all’assenso verso la Greenland Minerals, compagnia australiana pronta ad investire cifre immense per estrarre terre rare e uranio a Kvanefjeld, nel sud del paese. Di fronte alla possibilità di uno sfruttamento ritenuto inaffidabile, gli Inuit hanno risposto in queste elezioni parlamentari con un reciso no. I vincitori del IA arrivano ad uno storico 36,6%, ed è sconfitto, ma nettamente secondo, il partito socialdemocratico Siumut (Avanti!) pur in incremento dal 27 al 29,4%. Va detto però che anche Vivian Motzfeldt, vicesegretaria di quest’ultima forza politica, aveva espresso forti dubbi sul progetto di Kvanefjeld, le cui scorie per il momento si progettano smaltite nel lago prossimo alla cittadina di Narsaq, 1300 abitanti. Così, che i dubbi e le opposizioni siano forti è comprensibile: la Greenland Minerals prevede una miniera allo scoperto, per 37 anni, con un’estrazione di 3 milioni di tonnellate l’anno di terre rare, uranio e torio e, particolarmente inaccettabile ad una maggioranza di Inuit, in totale la produzione di oltre 220 milioni di tonnellate di scarti e scorie, in cambio di appena 328 posti di lavoro groenlandesi. Nessuna meraviglia, così, che la Motzfeldt, già mesi prima delle elezioni, avesse fermato la corsa sfrenata verso il progetto, costituendo con altri una maggioranza interna nuova al Siumut, ed eleggendo, al posto del leader socialdemocratico e capo del governo autonomo groenlandese Kim Kielsen, un altro leader, Erik Jensen. La manovra è riuscita a frenare le perdite elettorali e ad ottenere nella totalità del paese un buon risultato, ma nel sud, maggiormente in ansia per il progetto minerario, non è bastato: la socialdemocrazia di Siumut, che nella regione otteneva fino al 56%, ha accusato un netto e inequivocabile arretramento (fino al 40%) a favore di IA, da sempre nettamente contrario alle estrazioni di Kvanefjeld. IA le ritiene innanzitutto (ancora) non sicure per la base di sostentamento storica degli Inuit (pesca, caccia, ambiente, oggi l’85% del PIL esportato). Ma la contrarietà del partito e dell’opinione maggioritaria è dovuta anche al fatto che il contesto (compresa l’autonomia dalla Danimarca) non è ancora tale da garantire che la trattativa sia del tutto svolta secondo le premesse Inuit. Peraltro, con l’apertura del mercato cinese (tanto più se con domanda interna potenziata come ha deciso il Pcc) anche l’esportazione di prodotti ittici e la sua salvaguardia non va assolutamente ritenuta un totale ripiego. Quando si chiede loro come sostituiranno le risorse promesse da Greenland Minerals, IA indica per esempio una riforma del sistema fiscale, che contrariamente al paese tradizionalmente “coloniale”, la Danimarca, è tutt’altro che di tipo nordico progressivo, anzi è improntato alla “aliquota piatta”. I socialisti di IA insomma contano, con una riforma fiscale progressiva, di rimediare alla forte disuguaglianza e al contempo di ricevere introiti da utilizzare per uno sviluppo sostenibile e durevole del paese. Una volta impostato il futuro in questo modo si potrà pensare ad una graduale ma chiara indipendenza dalla Danimarca, di cui IA è sostenitore ma non fanaticamente, come lo sono invece altre forze politiche più nazionaliste. Per esempio Naleraq (Il segnale): la terza forza (12%), anche essa diffidente verso le nuove miniere, che verrà coinvolta in non facili trattative di governo. L’esito di un’indipendenza davvero solida e “ragionata” presuppone che nuove risorse siano utilizzate anche per formare più quadri locali di una più efficiente pubblica amministrazione. Essa oggi dipende troppo da giovani laureati danesi che fanno una breve, prima esperienza nel paese artico, e poi tornano in Danimarca ad utilizzare le nuove competenze. Un’altra dipendenza da recidere. La sovranità per cui lotta il socialismo Inuit appare quindi di ampio respiro: soprattutto di tipo democratico, economico e ambientale, vede in prospettiva favorevolmente una “libera associazione” con la Danimarca, specie se questa sarà lungimirante e collaborerà contenendo solo gradualmente il “bloktilskud”, cioè il contributo annuo di 4 miliardi di corone che devolve ai 60.000 abitanti della immensa Groenlandia.

In genere, inoltre, proprio riguardo alle sconvolgenti novità economiche e geostrategiche in atto nell’Artico, è evidente come gli Inuit con il voto abbiano esplicitato che intendono decidere secondo tempistiche e criteri compatibili con la sovranità popolare e il proprio concetto di interesse nazionale e di benessere. Se sono abili, a questo punto, potranno disporre delle proprie immense risorse nel senso di trattare su questo ed altro. E così in effetti pare di capire possa andare, al di là delle dichiarazioni vittoriose di Múte B. Egede (leader IA): “Il popolo ha parlato, il progetto minerario di Kvanefjeld è seppellito”.

Da interpretare, si diceva, il risultato di Siumut: la sua conferma ad ottimi livelli, in realtà, va decodificata come ulteriore segno di diffidenza verso il progetto di Kvanefjeld. La socialdemocrazia Inuit infatti si era recentemente spaccata sul progetto, fino a liberarsi della leadership di Kim Kielsen, anche capo del governo autonomo nella Comunità del Regno Danese (Rigsfælleskabet, composta anche da Danimarca in senso proprio e FærØer). Kim Kielsen era infatti ritenuto troppo acriticamente favorevole alla prospettiva delle terre rare subito. Su una linea più cauta in proposito è la maggioranza che al suo posto ha scelto Erik Jensen. Come minimo i socialdemocratici di Siumut favoriranno un allungamento e ampliamento delle consultazioni democratiche, cioè della ricerca di possibili migliori soluzioni da ogni punto di vista. Compresa (sarebbe auspicabile) una struttura, quando e se sarà, dello sfruttamento del sottosuolo che, per esempio sul modello norvegese, garantisca ai locali il controllo pieno dei diritti di concessione, ed accumuli in fondi sovrani vasta parte dei proventi. Devolvendo solo una parte ridotta delle rendite derivate agli impieghi di bilancio. E assicurando ampia e qualificata occupazione ai locali.

Le trattative di governo si svolgeranno dunque verosimilmente su questa base, anche coinvolgendo altre forze. Il leader IA Múte B. Egede, che registra un forte successo personale e si avvia a diventare, a 34 anni, il più giovane capo del governo autonomo da quando (1979) la Danimarca ne ha concesso uno, ha parlato di “coalizione”. Con ciò (proprio come in Danimarca) si possono intendere varie soluzioni (governo di minoranza sostenuto dall’esterno, o esecutivo maggioritario a più partiti) per colmare la differenza di 4 seggi che manca a 16, il numero magico nell’Assemblea del Naalakkersuisut (Governo Autonomo).

Quanto ai danesi etnici e a Copenaghen, è probabile comprendano definitivamente che questo è il modo migliore per non venire anche loro travolti dalla “nuova corsa all’oro” delle mega-potenze nell’artico. Il destino nordico, essere nazioni demograficamente ridotte in zone geostrategicamente vitali (a partire dalla feroce contesa per il Sund in età moderna) va sempre amministrato con cautela, e senza troppi cedimenti, facilmente irrimediabili, sulla sovranità. Trump, non a caso, aveva recentemente dichiarato, per prevenire l’espansione cinese e russa: “La Groenlandia ce la potremmo comprare”. Al che Kim Kielsen aveva replicato: “Greenland is not for sale, but is for business”. Ecco: il voto di ieri ha chiarito che anche gli “affari” cui pensava Kim Kielsen (e qualunque altro negoziato) non saranno una pura formalità, e che nessuno, se la voce dell’elettorato sarà tradotta in atto, si può “aggiudicare” la Groenlandia. Certo, questo potrà riuscire tanto più in quanto nessuna delle grandi potenze vorrà mai ci sia un unico aggiudicatario. La scommessa, in questo senso, è che così possa rimanere un unico decisore finale, o almeno prevalente, seduto a capotavola: gli Inuit, innanzitutto. Specie evolvendo il loro governo autonomo “ad un certo punto” verso la totale autonomia. Con, sullo sfondo, una Danimarca conscia da tempo che sarà così, e interessata a rimanere non il colonizzatore, ma il primo amico degli Inuit di Groenlandia.

Un commento a “Una vittoria del socialismo artico”

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