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Inaspettato, e inizialmente considerato addirittura una fake news, l’annuncio del 19 gennaio che la premier della Nuova Zelanda Jacinda Ardern si sarebbe dimessa. Facendo ricorso a una metafora automobilistica adatta ai connazionali attaccatissimi alle loro macchine, Jacinda spiega di non aver abbastanza benzina nel serbatoio, né in riserva, per finire il mandato e per ricandidarsi. Attribuisce la decisione al senso di responsabilità nei confronti dell’incarico e alla consapevolezza di non avere più l’energia necessaria per governare il paese. Si rivolge anche alla figlia, Neve, assicurandola che sarebbe stata presente al suo primo giorno di scuola, e poi al suo compagno, “Clarke, sposiamoci finalmente!”. Infine, esprime la speranza di aver dimostrato che è possibile governare essendo sia gentili che forti, sia empatici che decisi. Un discorso emotivo, che dice tutto della persona: umana, empatica, orientata alla cura. Un discorso in cui si sente l’eco delle parole Be kind, be strong, “Siate gentili, siate forti”, usate da Jacinda stessa a conclusione di innumerevoli discorsi, e che diventarono durante la pandemia il mantra del paese.

In casa e all’estero le dimissioni di Ardern vengono attribuite semplicemente a un burnout, termine ormai diffusissimo e riferito all’esaurimento dovuto a un tenore di vita troppo stressante. Ma che cosa c’è alla base del burnout della più giovane leader femminile della storia della Nuova Zelanda? La premier che ha dovuto affrontare una serie di eventi catastrofici come, per elencare solo i più eclatanti, la pandemia, l’attacco alla moschea di Christchurch e la tragedia di White Island finisce i suoi giorni da leader diventando bersaglio di atteggiamenti e comportamenti tutt’altro che kind, alla guida di un paese diviso e preda di misoginia e bullismo.

Sin dall’inizio del mandato le sue qualità sono stato direttamente o indirettamente contestate, e il suo essere donna, e donna giovane, è sempre stato alla base di critiche infondate. Lasciamo perdere i soliti commenti sessisti sulla sua apparenza fisica, tuttora purtroppo rivolti a troppe donne con un profilo pubblico, e quelli sulla sua presunta mancanza di esperienza, e passiamo direttamente all’accusa di essere una truffatriceper aver “nascosto” la gravidanza al pubblico durante la campagna elettorale del 2017. Volavano le dichiarazioni sull’incompatibilità tra una posizione di massimo potere e la maternità. Un’accusa senza fondamento. Jacinda ha dimostrato ripetutamente la sua capacità di governare con decisione, prontezza e trasparenza pur mettendo sempre in rilievo l’importanza di prendersi cura degli altri e dell’altro. All’estero ha trasmesso un’immagine della Nuova Zelanda come paese unito, dedito alla cura dei suoi cittadini. Nei primi mesi della pandemia appariva quotidianamente in televisione, dal parlamento di giorno e da casa di sera, usando metafore sportive – i neozelandesi amano lo sport – piuttosto che quelle belliche abusate di consueto per illustrare le strategie di contrasto al Covid. Invitava la sua “squadra di cinque milioni” – tanti sono gli abitanti della Nuova Zelanda – a rispettare le autorità mediche e a rinunciare a certe libertà per proteggere i più deboli, ovvero le popolazioni indigene e gli anziani. Il mercoledì sera appariva sulla pagina di Facebook Live in tuta, dopo aver dato la buona notte alla figlia, per rispondere alle domande dei connazionali in lockdown. Ogni tanto la chiacchierata veniva interrotta dalla figlia che invece di andare a letto si affacciava alla telecamera; la madre le parlava scherzando con il pubblico. Momenti intimi che mostravano tutt’altro che l’incompatibilità tra maternità e leadership.

La capacità di Jacinda di essere empatica e forte allo stesso tempo è stata riconosciuta in tutto il mondo dopo la sua pronta risposta alla strage del 2019 nella moschea di Christchurch, dove furono uccisi 52 musulmani in preghiera. Jacinda ha agito subito, condannando il suprematismo bianco, e ricordando in un discorso rimasto famoso che non c’era distinzione tra le vittime musulmane e “noi”: “Erano neozelandesi, sono noi. E poiché loro sono noi, noi, come nazione, li piangiamo”. La sua risposta pronta, le sue parole inclusive, la visita ai familiari delle vittime con l’hijab indossato come segno di rispetto verso i musulmani, e pochi giorno dopo la riforma sull’uso delle armi furono emblematiche dello stile di leadership di Jacinda: Be kind, be strong.

Le parole di Jacinda diffondevano tra i connazionali e nel pubblico globale l’immagine di un paese unito da valori di inclusività e di gentilezza. Eppure quello che ha decisamente contribuito alle sue dimissioni non è sicuramente un popolo “kind” privo di tendenze estremista e misogine. Mentre nel 2020 Jacinda aveva vinto le elezioni con un vantaggio schiacciante e senza precedenti, gli ultimi anni hanno registrato un aumento significativo di materiale offensivo e minaccioso nei suoi confronti da parte dell’estremismo online. Secondo la polizia neozelandese negli ultimi tre anni le minacce contro la premier sono triplicate. Un’indagine svolta da un centro di ricerca che controlla le attività estremiste nei social rivela che la misoginia e la violenza verso Jacinda sono non solo aumentate ma anche diventate più pericolose. Il linguaggio e le immagini usate per riferirsi a lei si sono fatte più violente, più volgari e più ricorrenti. La parola più usata sui social estremisti per descriverla è la volgarissima c***, e l’immagine quella della strega. Forse l’aspetto più perturbante è che le critiche e gli insulti non provengono soltanto da elementi estremisti ma da siti mainstream come LinkedIn. Secondo la ex-Premier Helen Clark, Jacinda ha subito un livello di odio al vetriolo senza precedenti in Nuova Zelanda. Be kind, be strong?

Jacinda non ha dato le dimissioni (solo) perché voleva accompagnare la figlia a scuola e sposare Clarke. Se è riuscita a organizzarsi per portare la piccola Neve all’Assemblea generale delle Nazioni Unite sarebbe riuscita ad organizzarsi anche per accompagnarla a scuola, e quanto a Clarke l’avrebbe già sposato se non fosse stato per la pandemia. Il serbatoio di Jacinda non si è svuotato per la strada lunga e le salite ripide percorse; gliel’ha bucato e poi svuotato un elemento del paese tutt’altro che “kind” e “strong”. Nessuno toglie a Jacinda la decisione di scegliere se e quando terminare il mandato e il diritto di farlo per motivi personali o politici. Quello che non è accettabile è che sia stata costretta a interromperlo per via di comportamenti violenti e misogini che rappresentano tutt’altro dai valori di “diversità, gentilezza e compassione” che Jacinda dichiarò inamovibili in una conferenza stampa dopo la strage di Christchurch. Purtroppo quello che Jacinda ha subito in questi anni suggerisce che invece quei valori sono stati smossi, e che, per citare Shakespeare, “c’è del marcio” nel paradiso terrestre neozelandese che si vanta di essere uno dei paesi più progressisti del mondo in materia di diritti delle donne. Il primo paese a introdurre il diritto di voto alle donne, il paese che negli ultimi 25 anni ha eletto tre donne premier, il paese che negli anni 90 per primo elesse una transgender al parlamento in un distretto conservatore che apprezzava l’atteggiamento empatico e sincero di Georgina Beyer. Poco dopo le elezioni del 2017, Jacinda accennò in un suo discorso all’importanza per le ragazze di modelli femminili: “Possiamo tutte fare il nome di una donna che ha fatto strada. Ma non possiamo dare per scontato che quella strada non sarà piena di impedimenti, né che da ora in poi tutto diventi più facile per chi viene dopo”. Speriamo che in questi tempi in cui nulla si può più dare per scontato le giovani generazioni femminili neozelandesi (e non solo) non si lascino scoraggiare dalla violenza subita da una leader kind and strong. Arrivederci Jacinda, kia kaha.

*Bernadette Luciano è docente presso l’Università di Auckland

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