Interventi
A che servono le primarie? A destrutturare i partiti per sostituirli con un rapporto diretto tra leader e popolo. Su questa risposta concordano sia i tifosi sia i detrattori dello strumento. I primi sono ispirati da spericolate invenzioni e i secondi da una nostalgia del bel tempo andato. Questi stereotipi rischiano di bloccare il dibattito del Pd e di frenare la ricerca di nuove strade. Dall’esterno Ida Dominijanni (Il Manifesto 13-10) vede il pericolo più lucidamente di tanti dirigenti del partito.
La forza di quella risposta viene dal precedente storico, descritto magistralmente in un libretto che consiglio a chi volesse saperne di più: Alle origini delle primarie. Democrazia e direttismo nell’America progressista (Ediesse). L’autore, Enrico Melchionda, è venuto a mancare precocemente, lasciando un incolmabile vuoto umano e intellettuale nel nostro centro studi, il Crs. Ha fatto a tempo a insegnarci le opportunità e le insidie nell’analisi dei fenomeni di americanizzazione della politica italiana.
Certo, le primarie nacquero a cavallo del secolo proprio per smantellare i partiti ottocenteschi americani, in uno stretto rapporto tra dinamiche di tipo destruens e construens. Ma è proprio questa sincronia a mancare nelle primarie italiane, le quali hanno ben poco da destrutturare, poiché i vecchi partiti italiani si sono spenti circa trent’anni fa. Le forme politiche successive hanno avuto una natura diversa, legata al ceto politico e priva di radicamento popolare. Però abbiamo continuato a chiamarle con il nome storico di partito, provocando fraintendimenti concettuali che dominano anche il congresso del Pd.
Furono non a caso due grandi sconfitti come Berlinguer e Moro ad avvertire più acutamente gli effetti sistemici della fine dei vecchi partiti. Altri preferirono fare finta che tutto procedesse come prima, finché la perdita di funzione non smascherò la finzione, facendo crollare il sistema politico nel batter d’ali di Tangentopoli. Negli anni Novanta la classe politica continuò a non vedere il problema, anzi a rimuoverlo in una sorta di transfert verso le istituzioni. Come a dire: non siamo noi il problema, ma lo Stato che non funziona. Da qui, l’accanimento terapeutico della Grande Riforma, che alla fine ci consegna un’Amministrazione più inefficiente e una democrazia mai così debole. Da ciò è venuto un feedback sulle già incerte forme politiche, portandole al completo annichilimento negli anni Duemila. Quelli che ci ostiniamo a chiamare partiti sono ormai macchine di consenso affidate alla parola di un leader – Berlusconi, Bossi, Casini, Di Pietro – e senza alcuna forma di vita democratica, ma dotate di una legge elettorale quanto mai partitocratrica. La transizione del trentennio si chiude quindi con il modello personale di partito.
L’unico soggetto che non riesce ad adeguarvisi, pur avendoci provato, è proprio il Pd, il quale anzi mostra una reattività quasi smodata verso il leader di turno, come un cavallo imbizzarrito che disarciona chi vuole mettergli le briglie. Ciò rende il Pd un caso singolare di studio e, per chi è interessato, anche di impegno. Si possono dire tante cose sulle buffe procedure congressuali, comunque mezzo milione di persone sono andate nei circoli e si prevede oltre due milioni andranno ai gazebo. E’ l’unico soggetto parlamentare che alimenta un processo democratico e rende contendibile la sua leadership, non è cosa da poco in un paese che vede restringersi ogni giorno gli spazi democratici.
E’ l’unico a non aver concluso la transizione. Ciò lo rende fragile e instabile, ma ancora aperto a esiti diversi. Non bisogna interpretarlo come un partito, ma come un ammasso di materiali disomogenei che si sono depositati, lungo l’incompiuta transizione, proprio nello spazio un tempo occupato dai vecchi partiti. Si possono distinguere almeno quattro materiali: 1) i notabili di marchio Ds e Margherita che gestiscono il potere locale; 2) i leader televisivi che instaurano una relazione diretta con i sostenitori; 3) gli elettori che si mobilitano autonomamente nella società e dentro l’organizzazione, anche in polemica con l’inadeguatezza dei leader; 4) gli eredi delle vecchie culture politiche – militanti, associazioni, ceti professionali e intellettuali – che si sono seriamente impegnati nell’elaborazione di una coscienza politica di tipo democratico. Come è del tutto evidente, questi processi riguardano contemporaneamente iscritti ed elettori. Il confine tra interno ed esterno è saltato da tanto tempo ed è impossibile riportare il dentifricio nel tubetto. Tutto dipende, invece, da come si amalgamano e si rielaborano quei quattro materiali. L’inizio del Pd ha cercato la soluzione peggiore, puntando sui primi due: da un lato, il leader mediatico da contrapporre a Berlusconi nell’illusione di un impossibile bipartitismo e, dall’altro, campo libero ai notabili sul territorio. Il primo ha portato alla sconfitta politica e il secondo ha intaccato la credibilità del progetto.
Paradossalmente sono stati trascurati i materiali più reattivi, le tracce seppure incerte di rielaborazione dell’identità culturale e l’attivismo degli elettori che si era espresso nelle primarie.
Da questi deve partire Bersani per tentare una soluzione basata sul rilancio della democrazia parlamentare e del soggetto che ne è protagonista, il partito a forte radicamento popolare. Solo così si può affrontare la questione aperta trent’anni fa. Ma non c’è quasi niente dell’armamentario dei partiti storici che possa servirci oggi, tanto meno la linea d’ombra tra partito ed elettorato. Le primarie, al di la dei problemi procedurali, hanno fatto emergere una partecipazione politica che è l’unica materia prima disponibile per ricostruire una forza popolare dei tempi moderni. La diffidenza che c’è a sinistra è ingiustificata e anche ingenerosa. La più bella vittoria della sinistra radicale in Italia è stata ottenuta proprio nelle primarie pugliesi di Vendola, non a caso oggi scelto come leader. Le primarie italiane sono l’unica esperienza politica che ha incuriosito qualcuno in Europa: i socialdemocratici sentono la crisi del vecchio modello di partito solo adesso, trent’anni dopo di noi, e cominciano a guardare alla nostra invenzione.
Certo, lo strumento è anche frutto della spoliticizzazione ed è quindi esposto ai rischi plebiscitari. Per evitarli bisogna lavorare col quarto materiale, la cultura politica, quello più trascurato e abbandonato a se stesso. Una vaga idealità democratica è cresciuta spontaneamente nell’elettorato, senza un impegno diretto dei leader del Pd, che si sono limitati a usare le figurine dei padri fondatori o gli stereotipi dell’incontro tra i diversi riformismi. C’è invece un campo enorme di elaborazione di una cultura popolare democratica che agisca sul senso comune degli italiani. Si è lasciato fare alla destra che ha saputo costruire un apparato ideologico basato sulla doppia morale, da un lato “Dio, Patria e Famiglia” e dall’altra il sesso come immagine del potere, da un lato il perbenismo cattolico e dall’altro il rancore come vettore sociale.
Tutto ciò lo chiamiamo populismo, ma appena pronunciata questa parola passiamo oltre, come se il popolo non fosse anche un problema della sinistra, non solo della sua capacità di ascolto, ma soprattutto della sua facoltà di parola. Il popolo non esiste in natura, è sempre una costruzione politica. Un partito vince se riesce a fare popolo, cioè a elaborare un progetto culturale capace di legare debolmente istanze molto diverse, tramite un’interpretazione degli interessi in gioco, una narrazione che tiene insieme passato e futuro, una definizione del campo di alleanze e dei conflitti. La forza connettiva oggi non può più venire da un contenitore di vecchio stampo, può scaturire solo da una forte cultura politica. Non basta una saliera, serve il sale. Passa da qui la possibilità di ripensare nell’Italia di oggi un grande partito, potendo finalmente dare un senso a questa parola.

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