Intervento presentato al primo panel dell’Assemblea annuale di ALI (Autonomie locali italiane), tenutosi il 21.03.2024 a Pesaro.
Il Patto dei sindaci europei per una costituzione democratica per gli Stati uniti d’Europa – sottoscritto dalle Autonomie locali italiane (ALI) unitamente al Movimento europeo – Italia – rappresenta una coraggiosa iniziativa per cercare di sbloccare l’attuale situazione di stallo istituzionale dell’UE che rischia di compromettere (e comunque di ridurne il significato in una prospettiva di intensificazione del legame tra “cittadini europei”) quei significativi passi in avanti che l’Unione ha saputo, soprattutto nella prima parte della legislatura, realizzare fronteggiando la sfida della pandemia con il coordinamento dei provvedimenti sanitari e dell’operazione vaccini. Successivamente con il piano di aiuti sociali SURE (che ha offerto un modello inedito di cassa integrazione europea a finalità formativa) e ancora con il Recovery plan e l’avvio di una condizionalità “buona” per il sostegno agli Stati membri (ben diversa da quella dell’austerity) legata alle tre strategie europee della digitalizzazione, della sostenibilità ambientale e di quella sociale. Infine, con il regolamento del 2020, sul rispetto dello Stato di diritto per ottenere risorse dell’Unione, che ha conferito un timbro garantista alle modalità di sostegno ai paesi più in difficoltà. Sull’onda di questi successi, legittimati su base emergenziale, l’Unione ha saputo anche risolvere (sulla base di una debole base giuridica) l’aggravarsi del problema energetico, ma è anche riuscita a investire il consenso raggiunto (si è parlato, non a caso, di un hamiltonian moment) per cercare di portare a compimento con una certa energia le politiche promesse dalla cosiddetta “maggioranza Ursula”. Il Digital Compass (imponente piano di regolazione del mondo digitale, integrato con l’AI, per liberare l’innovazione europea mettendola al contempo sotto il controllo umano nel rispetto dei diritti fondamentali previsti dalla Carta di Nizza); l’attuazione del Pilastro europeo dei diritti sociali (saldando così strettamente competenze nazionali e sovranazionali sotto la regia degli organi di Bruxelles) che ha portato a rivoluzionarie normative come la direttiva sul salario minimo (inconcepibile nell’immediato passato), svariate direttive sulla parità di genere e sulla trasparenza dei rapporti di lavoro, e infine ad introdurre un insieme di diritti universali, oltre la distinzione un po’ vetusta tra lavoro autonomo e dipendente, di controllo e negoziazione sulle decisioni algoritmiche delle piattaforme. Con il recentissimo accordo sulla due diligence si mira infine a salvaguardare i diritti umani anche nelle filiere produttive della sub-fornitura, grazie a nuovi doveri di controllo e sorveglianza per le grandi imprese. Anche sul fronte green (con qualche compromesso forse di troppo) sono stati varati provvedimenti importanti come quello sul cosiddetto ripristino della natura o sulle abitazioni sostenibili.
La Conferenza sul futuro dell’Unione (CoFoe) conclusasi nel Maggio del 2022 riteneva che questo capitale di credibilità dell’Unione potesse essere convertito in una serie di riforme istituzionali che rendessero permanenti le conquiste raggiunte e le completasse nella capacità strutturale, non più legata alle emergenze, di progettare il benessere e lo sviluppo della società paneuropea dotando le istituzioni di strumenti efficaci anche di ordine fiscale, per sostenere le sfide del millennio soprattutto legate alle tecniche digitali e all’AI (basterà pensare che, secondo l’ultimo report del World Economic Forum, l’ultima ondata dell’AI “generativa” distruggerà 89 milioni di posti di lavoro creandone appena 69 milioni).
Un completamento, ci pare, di un processo di osmosi tra ordinamenti avviato già oltre sessant’anni prima e giunto a momenti di realizzazione molto avanzati ma che, in alcuni settori, stenta a trovare soluzioni credibili, anche per difetto di competenza dell’Unione. Come tipicamente in quello dell’immigrazione, incancrenitosi nella gestione securitaria dei flussi migratori, e in quello della politica estera comune, che non è, anche dopo Lisbona,trasparente, non coinvolge istituzioni parlamentari europee e nazionali in uno sforzo comune, ha basi giuridiche nebulose e utilizza strumenti non idonei agli scopi dichiarati (come quello delle sanzioni economiche), si fonda ancora sull’unanimità che genera ricatti e rallentamenti dell’azione comune. Il dossier sull’allargamento, infine, non è razionalmente affrontabile senza un radicale restatement dei Trattati.
Si oppongono, però, a questa svolta un numero piuttosto importante di governi ostili (secondo alcuni ormai la maggioranza) a cedere ulteriore sovranità e a riprogettare le proprie politiche come contributo a un progetto di benessere, sicurezza e sostenibilità sociale collettiva. Il salto sarebbe nelle cose, è reso maturo proprio dai conflitti globali in cui manca una forza di mediazione e di compromesso, essendosi frantumato il potere persuasivo dell’ONU, non sostituito da potenze continentali che cercano il dialogo come fu l’Europa di Helsinki. La svolta è resa bene (nel Patto che discutiamo oggi) nel richiamo alla formula ancora mobilitante degli Stati uniti d‘Europa, che richiama la prima, storica, rivoluzione costituzionale della libertà (così come quella francese lo è stata della fraternità e dell’uguaglianza) ma che seppe coniugarla con l’invenzione del federalismo (in senso democratico e moderno) ponendo fine alla sovranità assoluta degli Stati i cui ordinamenti furono composti in un originale sistema di regole di natura costituzionale più ampia. Si tratterebbe, come dice il Patto, di formare “un governo dell’Unione dotato di compiti limitati ma reali di fronte al Parlamento europeo a cui riconoscere la pienezza dei poteri politici, economici e legislativi, di bilancio e fiscali che lo finanzino, il superamento del potere di veto nel Consiglio, l’indirizzo fondamentale della politica estera e l’organizzazione di un sistema di sicurezza e difesa comune trasparente ed incentrato sulla difesa attiva della pace”. Se vogliamo inquadrare questa prospettiva come costituzionalizzazione dell’Unione (che è già un ordinamento sui generis sovranazionale) si può certamente farlo, integrando le migliori scuole del costituzionalismo continentale che, seguendo le indicazioni del più insigne tra i filosofi viventi Jürgen Habermas, sono già arrivate a mettere in discussione il legame nazionale fondato su elementi escludenti come sangue, suolo, ma anche lingua, come idoneo e pertinente per gli ordinamenti democratici contemporanei (nell’elaborazione dell’immagine di una “solidarietà tra estranei”), posto che non si può negare che gli europei vantino comunque profonde radici comuni in termine di culture e valori.
Per vincere l’opposizione ostinata dei governi, o anche la scelta di differire la svolta in un processo interminabile di piccoli avanzamenti e di continui compromessi, che fanno perdere all’opinione pubblica il senso stesso del processo, occorre però battersi ancora e in modo creativo; trovare luoghi ove radicare e sviluppare questa tensione trasformativa, altrimenti i meccanismi previsti nei Trattati prevarranno strangolando ogni progetto, che miri ad assicurare a un governo europeo la capacità di direzione della società nelle forche caudine delle conferenze intergovernative. C’è un passo particolarmente brillante nel Patto, dove si dice che “un ethos comune e una koinè culturale si sono sviluppate intorno alla comunità di diritto. La koinè politica si è sviluppata limitatamente alle elezioni europee e all’embrione dei partiti politici europei. Non ha pervaso le società, in una fase di arretramento delle visioni e di sopravvento degli egoismi nazionali, di crescita delle disuguaglianze, di crisi ambientali e di chiusure rispetto a fenomeni quali le migrazioni. Non ha superato barriere, quali quelle linguistiche, che meritano la più grande attenzione educativa e inclusiva”. Come ex magistrato devo rimarcare che l’Europa dei diritti è una carta vincente ed è fondata su basi solidissime di una rete di 27 giurisdizioni nazionali che applicano, secondo comuni principi e metodi, il diritto dell’Unione sotto la guida della Corte di giustizia e l’ispirazione della Carta di Nizza. Un ordine che duplica, senza generare alla fine ostacoli insormontabili per il cosiddetto dialogo tra Corti, quello che corre tra i giudici ordinari e la Corte costituzionale sulla base della Costituzione. È quindi nel suo campo un modello di profonda armonizzazione che è già collegato, tramite la Convenzione europea, all’Europa in grande del Consiglio d’Europa.
Per replicarlo abbiamo però bisogno di trovare un terreno diverso da quello dei tribunali; un confronto allargato che abbia radici istituzionali e sociali. Il Parlamento europeo come organo a mandato universale in alleanza strutturale con la rete di città e i parlamenti nazionali, che coinvolga l’opinione pubblica continentale, dai sindacati alle ONG sino alle associazioni produttive e dell’impresa per sviluppare in una tensione costituente un progetto comune, anche istituzionale, nel suo combinarsi con esempi virtuosi di policies avanzate o garantiste in molti settori per costruire finalmente l’Europa del futuro. Il Patto individua bene questa risorsa essenziale per il cambiamento: “la rilevanza delle autonomie locali non soltanto sul piano funzionale-amministrativo ma anche su quello istituzionale, costitutivo e legittimante dell’architettura democratica dei poteri pubblici europei quale raccordo fondamentale con tutte le comunità e tutti i cittadini, con una previsione nei Trattati di una specifica competenza normativa dell’Unione in materia che possa delineare un sistema di garanzie per i comuni e gli altri poteri locali, verso un necessario aggiornamento della ‘Carta Europea delle Autonomie Locali’”. Come recita l’introduzione di un recente volume collettivo sul ruolo dei Comuni, entro e oltre lo Stato, “le città intese come soggetto istituzionale di mediazioni e trasformazioni urbane, spazio di autogoverno locale e di promozione sociale, nell’evoluzione degli stati costituzionali, tra dimensione sovra-statuale, processi federali e neo-municipalismo”1.
Se riusciremo a compiere insieme questo percorso, allargato ai Comuni continentali (che in genere, anche nella drammatiche prove referendarie, non hanno abbandonato il progetto federativo), di rigenerazione del progetto concepito a Ventotene, davvero l’Europa orizzontale, reticolare, partecipativa, refrattaria alla rivalità tra nazioni, vorrei dire cosmopolita e solidale, potrebbe mettere in gravi difficoltà l’ottusità verticale delle Cancellerie.
Nota
1 G. Allegri, La città come istituzione entro e oltre lo Stato. Una prefazione tra tradizioni costituzionali e innovazioni tecno-sociali, in G. Allegri, L. Frosina, A. Guerra, A. Longo (a cura di), La città come istituzione, entro e oltre lo Stato, Sapienza Università Editrice, Roma, 2023, p. 9.
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