1. Un punto di vista indipendente

Il professor Kant, alla seconda edizione (1796) dell’ideale trattato internazionale per istituire la Pace perpetua che è la sua opera politica più coraggiosa, aggiunse un articolo segreto col seguente dispositivo:

“Le massime dei filosofi sulle condizioni di possibilità della pace pubblica devono essere consultate dagli Stati armati per la guerra” (AA, VIII, 368).

Da professore, Kant aveva sperimentato la censura quando aveva provato a scrivere di religione, cioè di ciò che fondava il diritto divino della monarchia assoluta al potere in Prussia e fresca di decapitazione altrove. La sua richiesta, in questo articolo segreto solo in senso ironico, che i “filosofi” siano consultati è un modo per prendersi, sotto la protezione di un espediente retorico, la libertà dell’uso pubblico della ragione sulla pace e sulla guerra.

Con questa libertà, in un momento in cui le guerre si giustificavano di nuovo con motivazioni ideologiche, in appoggio agli interessi statali, Kant si permette di affermare qualcosa che oggi torna a suonare scandaloso: per superare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali occorre riconoscere che, sebbene ci siano guerre che sono o paiono necessarie, non ci possono essere guerre giuste. I belligeranti possono accampare ottime ragioni ideologiche per mandare al massacro militari e civili, ma chi fa combattere una guerra presuntivamente giusta non si appella alle ragioni del diritto, che avrebbero bisogno di essere accertate da un giudice terzo non in conflitto di interessi e secondo una legge pubblicamente e universalmente riconosciuta, bensì a quelle della forza. Con un nemico ingiusto, infatti, non si può trattare la pace: lo dobbiamo sterminare, esponendoci al rischio che a vincere sia lui e che la sua vittoria nell’ordalia da noi stessi istituita provi che ad avere ragione sia lui invece che noi. La pace non si fa con la guerra, e tanto meno con guerre ammantate di ideali: si fa soltanto con una pace da intendersi non come, precaria, assenza di guerra, bensì come impegno a costruire un ordine internazionale in grado di sostituire il diritto alla forza.

Per “filosofi” Kant intendeva studiosi non solo di filosofia ma di tutte le discipline della ricerca di base, i quali, non professando saperi di Stato, non sono direttamente agli ordini del governo, e proprio per questo possono avere un punto di vista indipendente. Chi, da funzionario, o da studioso-funzionario, ha in mano la spada conferitagli dal potere altrui, è esposto alla tentazione di valersene per por fine alla discussione d’autorità; chi invece ne è privo è costretto a essere filosoficamente più convincente perché può usare soltanto le ragioni della ragione e non quelle della forza.

2. Il conflitto nelle facoltà: studiosi-funzionari o studiosi soltanto?

Nell’università in cui lavorava Kant la facoltà di Filosofia, come facoltà della ricerca di base, era una facoltà inferiore, propedeutica allo studio nelle facoltà superiori – teologia, giurisprudenza, medicina – direttamente al servizio della monarchia. La prima, si direbbe oggi, era “autoreferenziale” e non professionalizzante; le seconde invece servivano allo Stato ed erano a esso riferite. La prima, quella che non serviva, era vocata alla ricerca della verità; le seconde alla ricerca di “verità” nell’interesse del governo. La prima poteva criticare i governi e loro guerre perché la ricerca della verità ha bisogno della pace sia nel metodo, che è quello di una discussione libera e aperta, sia nel merito, perché quanto si scopre non può essere distorto o nascosto per interessi propagandistici. Le seconde, invece, trovando giustificazione nell’utile dello stato, erano più propense a ubbidire ai suoi ordini e a sottomettersi ai suoi progetti.

Si parla, oggi, di università neoliberale: un’università che è sempre meno simile a una repubblica di studiosi, ispirata da autonomia istituzionale e libertà accademica, e sempre più simile a un’azienda, organizzata secondo una gerarchia interna e permeabile agli interessi di attori esterni, che vanno dallo Stato ai finanziatori privati1. Ma questo sviluppo non è un fenomeno contemporaneo: è un fenomeno moderno, con cui Kant stesso dovette fare i conti nel Conflitto delle facoltà(1798) – che è il suo ultimo testo pubblicato, nato, appunto, dalla sua esperienza con la censura.

L’università – scrive Kant all’inizio del Conflitto delle facoltà – è organizzata come una fabbrica con una divisione del lavoro che ripartisce il complesso del sapere raggruppando i professori in facoltà. La comunità universitaria è però autonoma, perché solo uno studioso può giudicare altri studiosi. Chi, più di due secoli dopo, lavora nell’università, esposto a retoriche ora aziendali ora comunitarie, vive ancora la duplicità di questa idea – per Kant “estemporanea ma non cattiva” (AA VII, 017) – che riunisce due concetti storicamente e istituzionalmente distinti:

  1. l’università comunitaria medioevale, autonoma in quanto parte di un sistema giuridicamente pluralista che faceva capo alle autorità universali ma remote della chiesa e dell’impero;
  2. l’università burocratica moderna, il cui regime politico-economico è controllato dallo Stato2.

L’università medioevale – l’Universitas Magistrorum et Scholarium – era una corporazione di docenti e di studenti investita del monopolio dell’insegnamento superiore (studium), autonoma amministrativamente e giurisdizionalmente. Lo storico William Clark la rappresenta come un ordinamento legittimato da un’autorità tradizionale, propenso a pratiche che in altre epoche sarebbero sembrate nepotismo e corruzione,3 quali lo scambio di doni o la cooptazione basata su parentela o anzianità. E però quell’università corporativa e poco incline alla ricerca, ancorché sovranazionale e connessa con l’universale, era collettivamente autonoma e permetteva, in una società di ceti in cui la libertà era un privilegio, di sperimentare rapporti fra pari anche a chi Pari non era: “sugli studiosi come tali solo studiosi possono giudicare” (AA VII, 017)4.

L’università moderna in cui operava Kant stava invece diventando, “come una fabbrica”, un’organizzazione burocratica di professionisti, sotto il controllo di uno Stato cameralista che riconosceva ai professori qualche libertà esclusivamente allo scopo di renderli più produttivi5. Quando Weber, nel secondo decennio del secolo scorso, descriveva la razionalizzazione che stava trasformando l’università tedesca in un’impresa di capitalismo di Stato, popolata da ricercatori proletarizzati privi del controllo dei mezzi di produzione, non stava riferendo dell’inizio di un nuovo processo, bensì di una stazione di una lunga marcia.

Un decennio dopo il Conflitto delle facoltà la riforma di Wilhelm von Humboldt trasformò l’università prussiana “in uno dei poteri dello Stato, dotato di una sua specifica posizione e di un’autonomia protetta, come la magistratura, all’interno del sistema politico complessivo”6. Ma mentre Kant scriveva, il progetto che Humboldt attuò solo parzialmente7 e precariamente8 non era ancora stato pensato: il conflitto non era solo delle facoltà, ma nelle facoltà. Come può un professore che è un funzionario stipendiato dallo Stato fare ricerca in scienza e coscienza? Viceversa, collettivamente, perché mai lo Stato dovrebbe finanziare studiosi che istituzionalmente ricerchino in scienza e coscienza, anche contro il suo utile e i suoi scopi? O, distributivamente, perché mai un dipendente stipendiato dovrebbe godere di una libertà speciale, detta “accademica”?

Queste domande trascendono il contrasto fra la memoria dell’autonomia medioevale e l’eteronomia dell’università moderna: si possono estendere a qualsiasi istituzione, anche privata, che organizzi la “produzione” del sapere in modo simile a una fabbrica, sotto l’amministrazione di colleghi professori o di funzionari nominati dalla proprietà o dallo Stato, non importa se democratico9, non democratico o post-democratico.

In un momento felicemente catastrofico, Humboldt poté tentare una riforma universitaria per ravvivare l’istituzione moderna d’una fragile autonomia e di un carisma provvisorio. Kant, invece, doveva misurarsi con un’università in via di burocratizzazione e subordinata allo Stato. Poco più di due secoli dopo, non è difficile rendersi conto che la valutazione amministrativa delle prestazioni accademiche, basata su elementi quantitativi quali il conteggio delle citazioni e l’ammontare dei finanziamenti ottenuti, sterilizza il professore come docente e intellettuale pubblico, inducendolo a rivolgersi soltanto all’élite di colleghi in grado di influenzare il suo punteggio bibliometrico e monetario. Sembrerebbe un effetto – indesiderato? – della recente mercificazione dell’università e della ricerca10. Ma era anche il problema di Kant: perché mai lo Stato dovrebbe rispettare e addirittura stipendiare studiosi che prendano la parola contro i suoi interessi, anziché sottomettersi ai suoi criteri e parametri?

3. La libertà accademica come questione politica

Se quello che interessa è l’utilità, individualmente o istituzionalmente determinata, un’università che pretenda libertà nella ricerca, nell’insegnamento e nell’uso pubblico della ragione in generale è ingiustificabile. Il sapere delle facoltà dei funzionari – che si pongono al servizio dell’utile – serve per esercitare un controllo; quello della facoltà degli studiosi o non serve, o può diventare pericoloso, quando l’interesse alla verità, che è di tutti, entra in contrasto con quello all’utilità, che può essere, e per lo più è, soltanto di qualcuno.

Kant non aveva a che fare con uno Stato democratico, ma con una monarchia assoluta: gli era dunque preclusa la risposta politicamente facile ma filosoficamente eteronoma per la quale un’educazione liberale è indispensabile per formare il senso critico di un cittadino democratico. La sua risposta, dunque, dovette essere più radicale: le organizzazioni collettive che, in nome dell’utilità, non sanno rispettare la libertà della ricerca e della sua condivisione delegittimano se stesse e distruggono la scienza.

Chi mira soltanto all’utilità chiede agli studiosi alle sue dipendenze risposte operative ai suoi problemi. Non gli interessa sapere se sono solide e su che cosa si fondino, ma solo che funzionino – esattamente come chi va da maghi e taumaturghi è solo interessato a divinazioni e guarigioni e non alla presunta magia che c’è dietro. La sua sembra una posizione forte: può permettersi di chiedere agli scienziati applicati di risolvere questioni che egli stesso pone, può evitare, in quanto finanziatore e committente, di ricevere critiche, e può fare a meno di studiare per conto proprio, delegandone la fatica ai problem solver al suo servizio. Ma la sua passività cognitiva – osserva Kant – lo rende teoreticamente superstizioso e praticamente minorenne: superstizioso perché si affida a un sapere a cui crede e ai cui professori può dar ordini ma che non è in grado di comprendere e dimostrare, e minorenne perché rifiuta di ragionare da sé.

Quando minorità e superstizione non affliggono soltanto i singoli che si fanno clienti di taumaturghi e maghi, ma le organizzazione collettive, la legittimazione stessa del loro potere e del sapere da esse determinato è a repentaglio (AA VII 031-32): se è tutta questione di utilità, o, meglio, dell’utilità che di volta in volta il più forte fa valere, perché dovremmo credere ai fattucchieri al servizio del potere? E se il potere mira solo al proprio utile, perché gli dovremmo ubbidienza, se non per la forza, finché è in grado di esercitarla?

Tutto ciò, scrive Kant, sarebbe inevitabile se l’università fosse composta solo da funzionari e non ospitasse studiosi al servizio esclusivo dell’interesse per la verità, e con il permesso di contrastare pubblicamente i problem solver sottomessi, invece, ai loro datori di lavoro (AA VII 030): per questo, qualsiasi regime che aspiri ad avere una legittimità non fondata, esclusivamente e precariamente, sulla forza, deve riconoscere e proteggere la libertà di studiosi che, in più di un senso, non servono.

Il Conflitto delle facoltà – che mette in campo un confronto fra un’università di funzionari e una di studiosi – è scritto in modo che le critiche della facoltà di filosofia appaiano innocue e perfino utili alla monarchia assoluta prussiana, ma il suo intento è più politico di quanto appaia.

La classe delle facoltà superiori (in quanto destra del parlamento degli studi) difende gli statuti del governo; ma in una costituzione libera come deve essere quella in cui si tratta della verità deve esserci anche un’opposizione (la sinistra), che è il banco della facoltà di filosofia, perché il governo, senza il suo esame severo e le sue obiezioni, non sarebbe informato a sufficienza su quanto potrebbe essergli utile o dannoso (AA VII, 035).

L’11 settembre 1789 l’assemblea costituente francese si era divisa fra sinistra e destra quando, deliberando sul diritto di veto del re sul potere legislativo, i monarchici, favorevoli a un veto proibitivo, si disposero spontaneamente alla destra del presidente, mentre i fautori di un veto solo sospensivo si spostarono a sinistra. La posta in gioco era il potere del governo contro quello dei rappresentanti del popolo. Avendo in mente questo episodio, il lettore contemporaneo poteva ben intendere quanto Kant voleva dire: un’università libera è strutturalmente contro il governo e, in un regime repubblicano, deve avere lo stesso rango e le stesse tutele dell’opposizione parlamentare.

4. Il dilemma di Humboldt

Sarebbe facile cedere alla tentazione di interpretare il progetto di riforma di Wilhelm von Humboldt – e le sue avventure e disavventure – come un’istituzionalizzazione delle idee di Kant. E però lo stesso Humboldt, che era liberale e non neoliberale, era consapevole che la sua idea di trasformare l’università in un potere dello Stato dotato, come la magistratura, di sue specifiche garanzie e autonomie, era affetta da un’ambiguità profonda – vale a dire il contrasto fra l’apertura della ricerca e le modalità di intervento dello Stato.

“È caratteristica degli istituti scientifici superiori” – scriveva Humboldt11 poco più di dieci anni dopo l’uscita del Conflitto delle facoltà – “continuare a trattare la scienza come un problema ancora non del tutto risolto e perciò rimanere sempre alla ricerca”. Questa caratteristica li rende ostili alle verità governative professate dalle facoltà di funzionari di cui parlava Kant; e però, per sussistere, hanno bisogno del sostegno e della garanzia della loro autonomia istituzionale da parte di uno Stato i cui strumenti e interessi sono assai più adeguati a chiudere la ricerca piuttosto che a tenerla aperta. Lo Stato, infatti, opera con sanzioni e premi, incentivi e disincentivi, che governano il comportamento degli esseri umani “in masse uniformi e obbligate12. Allo Stato è molto più facile – e talvolta molto più producente – sovraintendere su professori-funzionari e studenti-clienti, che su studiosi vocati all’uso pubblico della ragione.

Per ridurre questo rischio il riformatore prussiano progettò una regolazione pluralista e minimalista, con una divisione dei poteri per la quale le università conferivano, distributivamente, l’abilitazione all’insegnamento (venia legendi) e la possibilità di insegnare, ma non il ruolo di professore, assegnato dal Governo esclusivamente fra quanti godevano della venia legendi, e la persistenza di accademie in cui si entrava per cooptazione che davano un accesso alternativo all’insegnamento universitario. In questo modo gli studenti avrebbero potuto confrontarsi con una pluralità di studiosi: accademici cooptati dai colleghi, liberi docenti che avevano ottenuto la venia legendi da qualche università, e infine, fra questi, con professori assunti dallo Stato – cioè, in termini politici, rispettivamente, con gli esiti del potere scientifico dei colleghi, accentrato per l’accademia e decentrato per la venia legendi, e del potere amministrativo dello Stato.

Humboldt sperava che in una società resa critica e colta da un’istruzione universale finalizzata alla formazione e non all’addestramento i difetti del suo progetto, che, a causa della Restaurazione, fu attuato solo parzialmente, si sarebbero compensati a vicenda. Qualche università – è vero – avrebbe potuto riconoscere la venia legendi per fini localistici; lo Stato, fra quanti avessero ricevuto l’idoneità all’insegnamento da parte delle università e fossero stati proposti dalle facoltà per la cattedra, avrebbe potuto conferirla ai meno pericolosi o più vicini ai suoi interessi, e le accademie avrebbero potuto cooptare gli studiosi più affini ai loro membri o più abili nell’autopromozione. E però in generale un potere plurale e non concentrato, esposto a un’opinione pubblica attenta, rende più difficile che tutti sbaglino allo stesso tempo e nello stesso modo.

Tuttavia università almeno parzialmente strutturate secondo lo schema di Humboldt hanno mostrato, nel XX secolo, tutta la loro debolezza, non solo, comprensibilmente, sotto i regimi totalitari della sua prima metà, ma anche, meno comprensibilmente, quando i regimi burocratici della parte terminale della sua seconda metà hanno sottratto loro il potere di valutare la propria ricerca, per consegnarla, come in Italia, a agenzie nominate dal Governo e sotto il suo controllo, o a multinazionali private che fanno commercio di dati citazionali13, e, ancor meno comprensibilmente, quando hanno scelto di affidare i loro testi, i loro dati e le loro stesse interazioni alle piattaforme del capitalismo della sorveglianza. Al punto che Karen Maex, da rettrice dell’Università di Amsterdam e presidente della LERU, ha invocato un Digital University Act per indurle a rispettare il loro ruolo di custodi del sapere, e che c’è stato bisogno di un’apposita dichiarazione per ribadire che i dati della ricerca devono essere pubblici e pubblicamente disponibili invece che privati.

Lo scopo della riforma di Humboldt era rendere l’università libera, sia nel senso della libertà negativa, sia nel senso della libertà positiva. Per lui, negativamente, l’università doveva essere solitaria, cioè al riparo dall’interferenza di interessi esterni, che potrebbero distogliere dalla ricerca della verità, o lasciarla ai ritagli di tempo, con lusinghe, quali i corposi finanziamenti privati di Google, o minacce esplicite o implicite, quali quelle esperite dagli ormai numerosissimi ricercatori precari. E, positivamente, l’università doveva essere libera, nel senso che chi fa ricerca deve poter scegliere la sua agenda, anche se di poco impatto perché fuori moda, o in dissenso dal paradigma dominante. In una situazione in cui lo Stato moderno, sia con la forza della monarchia assoluta sia con la foga della rivoluzione francese, aveva spazzato via i corpi intermedi, probabilmente non c’erano soluzioni alternative a quella di cercare, e temperare, l’abbraccio dello Stato, nella speranza che, invece di ritrasformare gli studiosi in funzionari, agisse da incubatore di una società libera capace di riconoscere e proteggere le sue università

5. L’istruzione superiore come bene pubblico

A differenza di Humboldt, noi non siamo sudditi di una monarchia assoluta e viviamo in regimi forse post-democratici, ma ancora formalmente democratici. Pensare all’istruzione superiore come a un bene comune, e alla sua libertà come componente essenziale di una società libera, non dovrebbe essere impossibile. Così, per esempio, scrive Kathleen Fitzpatrick in Generous Thinking. The University and the Public Good (2018):

“Che cosa potrebbe diventare possibile se riuscissimo a decidere che a essere davvero in competizione non sono le istituzioni di istruzione superiore bensì la visione dell’istruzione superiore come bene pubblico e la sua riduzione a responsabilità privata? E quali nuove mete potremmo prefiggerci se, alla ricerca di una fondazione comune in un rinnovato impegno per l’istruzione superiore come bene pubblico, riuscissimo a riconoscere che le nostre istituzioni hanno bisogno di collaborare, di costruire collettivamente i sistemi e le competenze a tutte necessarie per far progredire il loro intero settore molto più di quanto ne abbiano di differenziarsi reciprocamente, arrampicandosi l’una sull’altra in una qualche messinscena accademica di The Hunger Games?”14.

A dispetto dell’articolo 33 della Costituzione, la domanda di Kathleen Fitzpatrick è, almeno istituzionalmente, quasi improponibile in Italia, i cui rettori, con un mandato non rinnovabile lungo sei anni, cessano di rispondere alla comunità che li ha eletti appena si sono chiuse le urne, i docenti sono impiegati, gli studenti clienti15 e nessuno di loro cittadino. Anche per questo, quando alcuni studiosi – non importa se professori o studenti – fanno scelte difformi da quelle del Governo, oppure gli manifestano contro, si levano scandalizzati stupori. E però questi studiosi sono studiosi che si ricordano che, come era già chiaro a Kant, nell’università ci sono due istituzioni e non una: la prima è quella degli “addetti alla ricerca”, agli ordini del Governo, e la seconda è l’universitas di coloro che studiano, che vale la pena mantenere in vita perché la sua stessa presenza e autonomia legittima sia l’eventuale scienza degli “addetti alla ricerca”, sia l’autorità del Governo, se ce l’ha. Le ultime e penultime riforme dell’università, in Italia, sono state pensate per mantenerne la forma e demolirne la sostanza, ma quel nome nudo ha una potenza che non si presta a farsi confinare nelle retoriche cerimoniali e ogni tanto si riaffaccia. Riusciremo, almeno questa volta, ad ascoltarla?

Note

1 Ivar Bleiklie, «New Public Management or Neoliberalism, Higher Education», in Encyclopedia of International Higher Education Systems and Institutions (Dordrecht: Springer, 2018), Doi: 10.1007/978-94-017-9553-1_308-1.

2 Paolo Prodi, Università e città nella storia europea, Il Mulino. Bologna, 2013, §1.

3 William Clark, Academic Charisma and the Origins of the Research University, Chicago: The University of Chicago Press, 2006, pp. 7, 36.

4 Jacques Le Goff, “Les universités et les pouvoirs publics au Moyen Age et à la Renaissance” in Pour un autre Moyen Âge: Temps, travail et culture en Occident : 18 essais, Paris: Gallimard, 1991.

5 Clark, op. cit., 12 ss.

6 P. Prodi, op. cit., § IV.

7 Robert David Anderson, European Universities from the Enlightenment to 1914, Oxford: Oxford University Press, 2004, ch. 4.

8 Fritz K. Ringer, The Decline of German Mandarins, Cambridge Mass.: Harvard U.P., 1969.

9 In una democrazia, nel 1950, E. Kantorowicz si trovò in contrasto con i Regents of the University of California sull’imposizione di un giuramento anticomunista (Ernst H. Kantorowicz, The Fundamental Issue: Documents and Marginal Notes on the University of California Loyalty Oath, 1950).

10 Hans Radder, Alfred Nordmann, and Gregor Schiemann, eds. Science Transformed? Debating Claims of an Epochal Break. Pittsburgh: University of Pittsburgh Press, 2011, p. 86.

11 Wilhelm von Humboldt, Über die innere und äussere Organisation der höheren wissenschaftlichen Anstalten in Berlin (1809-1810); trad. it. di M.C. Pievatolo, L’organizzazione interna ed esterna degli istituti scientifici superiori a Berlino, 2017. Si tratta di un frammento incompiuto riscoperto in un archivio dello storico Bruno Gebhardt alla fine del XIX secolo.

12 W. von Humboldt, Ideen zu einem Versuch, die Gränzen der Wirksamkeit des Staats zu bestimmen (1792) in Wilhelm von Humboldts Gesammelte Schriften 1. Abteilung, hrsg.v. Albert Leitzmann. Königlich-Preussische Akademie der Wissenschaften, Bd. I. Berlin, Behr, 1903, p. 101 (trad. it. in W. von Humboldt, Scritti filosofici, a cura di Giovanni Moretto e Fulvio Tessitore. Torino, UTET, 2007, p. 114).

13 In Italia, per esempio, la determinazione della scientificità e dell’eccellenza è affidata a un’agenzia amministrativa nominata dal Governo, e i professori si sottomettono ai suoi verdetti anche quando statuiscono che un mezzo di pubblicazione elettronico non è scientifico perché non esce in fascicoli.

14 La traduzione del passo citato e una recensione del libro sono visibili in M.C. Pievatolo, “Se l’università può essere liberale”, Bollettino telematico di filosofia politica, 2020, §2.

15 Si potrebbe pensare che la situazione italiana non sia diversa da quella degli USA, ove si scrivono articoli e lettere aperte ad amministrazioni di università a favore della libertà di espressione degli studenti (V. Mazza, “Jhumpa Lahiri: «Ci sono tanti ebrei nelle tende. Le università hanno reagito male per paura di perdere fondi», Corriere della Sera, 24/4/2024), ma c’è una differenza: in Italia il controllo amministrativo è centralizzato nelle mani del Governo e dell’agenzia di valutazione della ricerca di sua nomina.

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2 commenti a “Conflitto nelle università: studenti, professori e guerre”

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