Il progetto del governo Meloni e di tutti i governi che l’hanno preceduto, a partire soprattutto dal governo Gentiloni che ha dato il via operativamente all’attuazione, si configura come vera e propria eversione costituzionale, abrogando, di fatto, gli articoli 2, 3, 5 della Costituzione. Si rischia la edificazione di una formazione sociale fondata sullo “ius domicilii”, come lo definisce Giovanni Moro. La “secessione dei ricchi”, come l’ha chiamata l’economista Gianfranco Viesti, sottolineando il divario, ancora più drammatico, tra Nord e Sud, tra zone interne e metropoli, tra classi sociali. È un aspetto rilevante della nuova “Questione meridionale”. Con l’approvazione dell’autonomia differenziata muterebbero le modalità di attuazione delle politiche pubbliche dello Stato sociale universale. Dovremo organizzare una campagna di massa di informazione e di controinformazione, per contrastare con un’ampia base democratica comune questo progetto eversivo. Anche, ovviamente, sul piano parlamentare. Ma non sarà sufficiente un’opposizione di maniera. Occorre un impegno straordinario inedito, anche sul piano propositivo. Saranno in grado di attuarlo le opposizioni parlamentari, dopo anni di rimozioni, errori, falsi ideologismi? Noi daremo una mano, anche organizzando un osservatorio di elaborazione, di suggerimenti, di apporto, di competenze. Anche perché il Governo, in grande difficoltà anche per lo scetticismo sul progetto Calderoli di parte della maggioranza, tenterà meschine mediazioni, basate sull’approvazione dei cosiddetti Livelli Essenziali di Prestazioni. Che attendiamo, invano, da 22 anni. Ed è una pessima foglia di fico, perché rappresenterebbe l’istituzionalizzazione delle diseguaglianze. Le prestazioni non devono, infatti, essere livellate in basso, ma essere “uniformi” per tutte e tutti. In realtà non ne faranno nulla, anche perché occorrerebbero, secondo lo Svimez, 100 miliardi di fondo perequativo, tra regioni ricche e povere. Queste risorse non sono in bilancio. Si attuerà quindi, ancora una volta, la “spesa storica”, cioè la sperequazione nell’erogazione delle risorse che ha generato tutte le diseguaglianze. Beffarda suona, poi, la proposta normativa dello stesso Calderoli, che pretende, di fatto, che sia lo stesso ministro a determinare le “risorse finanziarie e umane necessarie all’esercizio delle funzioni”.
Credo che su questo tema fondamentale dovremo tentare una operazione culturale e sociale che parta dai territori in maniera capillare, con una inchiesta sociale, simile alle campagne che i movimenti agirono per sperimentare i bilanci partecipativi. Ricordo allo smemorato ministro Calderoli i principi generali sul finanziamento di Regioni ed Enti locali stabiliti nella legge 42 del 2009 che prescrive, in ossequio all’articolo 117 della Costituzione, di definire i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Del resto, l’art. 119 della Cost. è chiarissimo: “La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. La Costituzione è chiara: al decentramento delle funzioni non deve corrispondere una discriminazione tra i cittadini.
Gli errori del centrosinistra sul tema partono da lontano. A partire dalla riforma sbagliata del Titolo quinto della Costituzione del 2001 all’accelerazione data dal governo Gentiloni, per finire con il ruolo confuso e ambiguo assunto da alcuni importanti presidenti di Regione del centrosinistra. Penso al ruolo trainante assunto da Bonaccini. L’illusione di bloccare la spinta secessionista delle regioni trainanti del Nord ha reso muto il PD strategicamente sul rapporto normativo Stato/Regioni su tutte le materie che riguardano l’architettura dello Stato sociale. Da parte delle destre, intanto, veniva avanti l’errore speculare, anch’esso incostituzionale in base all’articolo cinque, con la proposta di legge di riforma costituzionale della Meloni nella quale proponeva, drasticamente, l’abolizione dell’art. 116 per sopprimere “ogni forma di specialità regionale”. Quale coerenza con la proposta attuale del Governo? Il punto più grave mi sembra il seguente: in un paese frantumato in venti Stati, ognuno dei quali coltiva il proprio egoismo territoriale, con accentuata competitività, con lo Stato sociale completamente privatizzato, per l’abbattimento della concezione stessa del “pubblico”, l’autonomia differenziata procede insieme a una pessima svolta presidenzialista autoritaria, impressa dalla Meloni. Il risultato è una decisa verticalizzazione del potere, la delega all'”uomo” forte che, autarchicamente, tiene insieme un paese sventrato, che ha perso l’orizzonte della legalità costituzionale. A questa verticalizzazione, ovviamente, corrisponde l’inerzia e l’assoluta evanescenza di un Parlamento che diventa una istituzione meramente ornamentale. In base a queste considerazioni ritengo che la via maestra sia l’abrogazione del terzo comma dell’art. 116 della Cost. riparando l’errore fatto con la riforma del Titolo quinto del 2001. L’autonomia. differenziata, infatti, è in netto contrasto con l’art. 5 della Cost., in cui l’autonomia è articolazione della Repubblica “una e indivisibile”. Dobbiamo rispondere ai secessionisti riprendendo, dopo decenni di rimozione, una elaborazione seria sulla “democrazia di prossimità”. Come si articola oggi? Come riaffermiamo il ruolo centrale dei Comuni rispetto all’autarchia, sempre più accentuata, di un regionalismo predatorio e oppressore, spazio di egemonismo dei “cacicchi” regionali? È importantissima l’iniziativa, anche istituzionale, che stanno svolgendo centinaia di Comuni contro l’accentramento regionale e statale. Noi non siamo conservatori e statalisti. Siamo attenti a declinare un rapporto più vivo e costante tra le rappresentanze istituzionali decentrate e l’autorganizzazione, la partecipazione popolare organizzata. È fondamentale contrapporre all’egoismo territoriale il rapporto tra i “nostri” territori e i “territori” non solo italiani ma euromediterranei, meticci, come potenza sociale contemporanea. L’autonomia indicata dall’art. 5 Cost, in definitiva, allude a spazi condivisi, solidali, plurali. A un paese articolato ma unito, dal Nord al Sud e dal Sud al Nord. Anche il popolo del Nord, infatti, sarebbe vittima predestinata dell’autonomia differenziata, un provvedimento classista, fondato sulla privatizzazione dei pubblici servizi, subalterno e funzionale alla ricostruzione mitteleuropea delle catene del valore dell’accumulazione del capitale. È questa, infatti, la ragione strutturale dell’autonomia differenziata una protesi istituzionale dei processi di valorizzazione del capitale.
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