Se, come confidiamo, il prossimo gennaio la Corte costituzionale darà il via libera ai 6 referendum abrogativi per cui sono state raccolte le firme necessarie, la primavera 2025 sarà una primavera di referendum. Ricordiamo anzitutto che si tratta del referendum contro l’autonomia differenziata, di uno che riduce da 10 a 5 gli anni di residenza in Italia necessari agli stranieri per richiedere la cittadinanza italiana, e di altri tre che chiedono l’abrogazione di alcune norme del mercato del lavoro introdotte dal Jobs Act. Tra queste ultime norme, la possibilità per i datori di lavoro di stipulare contratti a termine della durata di un solo anno, la cancellazione del cosiddetto contratto di lavoro a tutele crescenti (che permette all’azienda che licenzia illegittimamente un lavoratore di “cavarsela” con un indennizzo economico basato sull’anzianità in azienda invece di obbligarla a reintegrarlo), l’eliminazione del tetto massimo per l’indennità di licenziamento. Infine c’è il referendum sulla sicurezza nei luoghi di lavoro che chiede la cancellazione della norma per cui, in caso di appalto o di subappalto, la responsabilità per gli infortuni sul lavoro ricade solo sulle aziende appaltatrici, e non sulle aziende committenti.
È già chiaro che la vera scommessa sarà raggiungere il quorum. Come noto, la votazione sarà valida se andranno alle urne – in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno 2025 – il 50% più uno dei cittadini iscritti alle liste elettorali. Infatti è già iniziata la “solita” campagna: invece di discutere nel merito le leggi e i quesiti sottoposti al voto, i contrari all’abrogazione – quindi, ad esempio, coloro che sono a favore di non modificare la legge sull’autonomia differenziata o il Jobs Act – hanno già iniziato a convincere gli italiani ad andare al mare, a funghi, ma non a votare.
Ma per fortuna ora c’è uno strumento che permette di contrastare il ricorso a questa tattica palesemente antidemocratica (prima ci si strappa le vesti per le bassi percentuali di partecipazione al voto, poi si incita a disertarlo): il voto delocalizzato, cioè la possibilità di votare in un seggio diverso da quello di iscrizione nelle liste elettorali nel Comune di residenza.
Questa possibilità esiste da sempre per varie categorie di elettori che possono trovarsi temporaneamente fuori sede: coloro che sono coinvolti a vario titolo nelle operazioni di voto, militari delle varie armi, le persone ricoverate. È stata estesa in via sperimentale (per effetto del decreto legge n. 7 del 29.01.2024) in occasione delle elezioni europee dell’8 e 9 giugno 2024 agli studenti domiciliati per un periodo di almeno tre mesi in un Comune fuori dalla propria regione di residenza, con modalità diverse se il Comune dove vivono temporaneamente appartiene o meno alla stessa circoscrizione elettorale del comune di residenza: una “complicazione” necessaria per garantire che ogni elettore voti nel suo collegio, che viene però meno nel caso dei referendum, dove i quesiti, e quindi le schede, sono le stesse in tutto il territorio nazionale. Per l’ammissione al voto fuori sede gli studenti interessati dovevano farne richiesta al Comune di residenza (anche per via telematica) entro 35 giorni dalla data delle elezioni.
È bene sottolineare che questa possibilità si avvale delle tecnologie digitali per una gestione più flessibile degli elenchi degli aventi diritto al voto, la cui unica criticità è garantire l’unicità del voto, evitando cioè che chi ha chiesto di votare fuori sede poi voti anche nel suo seggio di residenza (situazione improbabile, ma che non si può escludere). Si tratta in sostanza di cancellare l’elettore dagli elenchi elettorali della sezione di residenza e inserirlo negli elenchi di una sezione del Comune in cui l’elettore prevede di trovarsi il giorno del voto. Una procedura piuttosto semplice – l’ha utilizzata anche il PD in occasione delle primarie vinte da Elly Schlein – che non ha nulla a che fare con il voto elettronico o online, perché l’elettore deve comunque recarsi a un seggio elettorale fisico.
Adesso bisogna mobilitarsi per ottenere che questa “disciplina sperimentale” venga applicata al prossimo voto referendario. Va fatto non solo per depotenziare la prevedibile campagna “andate al mare”, ma anche per “assicurare [a tutti] il pieno esercizio dei diritti civili e politici in occasione delle consultazioni elettorali e referendarie”, proprio come recita la premessa del suddetto decreto. Infatti sono sempre più numerose le persone che vivono in comuni diversi da quello di residenza e che non possono sostenere i costi di tempo e denaro necessari per rientrarci per votare.
Si tratta di completare quell’innovazione che ha visto l’apertura, nel luglio 2024, della piattaforma del Ministero della Giustizia per la raccolta online di firme per referendum e leggi di iniziativa popolare. Un’innovazione, questa, che è stato il risultato di una denuncia presentata nel lontano 2015 da due attivisti radicali, Marco Staderini e Michele De Lucia, a fronte della quale, nel 2019 il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite condannò l’Italia perché violava il diritto dei cittadini a partecipare alla vita politica del paese attraverso i referendum e le leggi di iniziativa popolare, frapponendo ostacoli irragionevoli nelle procedure di raccolta delle firme. Ci sono voluti 5 anni, e un percorso tortuoso, perché la piattaforma fosse infine approntata, e si è subito visto quanto fosse importante per consentire ai cittadini di esercitare il proprio diritto di sottoscrivere dei referendum.
Ma se non si ottiene ora la complementare delocalizzazione del voto, quel successo potrebbe venire vanificato. Chi si è mobilitato per raccogliere le firme, deve oggi mobilitarsi per pretendere dal Governo il voto delocalizzato esteso a tutti. E non c’è tempo da perdere.
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