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“L’Italia non parteciperà alla COP27 di Sharm el-Sheikh”. Un titolo roboante per annunciare una decisione coraggiosa, una decisione applaudita dai tanti stufi dell’ipocrisia e dell’inanità di questi esercizi verbali. È successo davvero? Purtroppo no. Greta Thunberg aveva dichiarato: “Non andrò alla Conferenza sul clima, e per molte ragioni”. Sono le stesse ragioni che avrebbero dovuto motivare il Governo italiano a seguire il suo esempio. Vediamo in breve quali.

1. Anzitutto grava su di noi un pesante debito verso la sua generazione, che nel 1992 non era ancora nata… Eppure sarà la sua generazione a pagare per le colpe della nostra. Nel 1992 si era tenuto a Rio de Janeiro un Vertice della Terra (il primo della storia umana). Tante promesse, per approvare alla fine una semplice convenzione-quadro: imbelle, priva di obiettivi vincolanti capaci di ridurre davvero le emissioni di gas-serra. A Rio l’Italia fu uno dei rari Paesi a presentare una proposta seria, come riconosciuto anche dai media internazionali: si trattava di una carbon/energy tax progressiva e flessibile, quindi praticabile senza grandi sacrifici per l’economia. Se l’avessimo adottata all’epoca, oggi la Terra (e di conseguenza l’economia) starebbe molto meglio. Ma in un consesso a livello di capi di Stato o di Governo – c’erano tutti, da Bush senior a Fidel Castro – l’Italia era guidata solo da Ruffolo, eccellente ministro dell’Ambiente ma non un capo di Stato. A un certo punto si affacciò anche il ministro degli Esteri, De Michelis, ma per pochi giorni: il tempo sufficiente a visitare qualche night-club e incontrare molto privatamente il presidente del Kazakistan, Nazarbayev, per discutere il maxi-contratto del gas con Eni e BP (Honi soit qui mal y pense).

2. Da allora ci portiamo addosso il peccato originale di Rio. Tant’è vero che le Conferenze delle Parti previste dalla Convenzione (27 finora) non hanno fatto che aumentare le emissioni di gas-serra, provocate dai viaggi di migliaia di delegati a ogni sessione (è una boutade, ma rende l’idea). Per dirla più seriamente: nel 1990 la concentrazione di CO2 nell’atmosfera era di 275 ppm (parti per milione), oggi abbiamo superato la paurosa soglia di 400 ppm. Chi ha seguito da vicino le Conferenze precedenti ha concluso che dai governi non si ottiene nessun impegno serio, neppure se ci si mette a piangere come stava per fare Ségolène Royal alla COP del 2015 a Parigi. Il motivo è noto: i governi si occupano unicamente di “parer au plus pressé”, per dirla in termine marinaro. Infatti, quasi nessun governo ha adottato una seria carbon/energy tax come quella proposta dall’Italia trent’anni fa. Gli unici interessati davvero ai cambi climatici sono altri: i privati (per motivi di mercato), le centinaia di città del mondo in alleanza tra loro, le combattive ong ambientaliste (salvo quelle che fanno infuriare gli automobilisti bloccando il GRA).

3. La COP27 non porterà ad alcun progresso. Anzitutto per motivi procedurali: perché i capi di Governo – gli unici con poteri decisionali – hanno fatto passerella i primi due giorni per poi andarsene, lasciando la manovalanza a negoziare invano per il resto del tempo (generalmente si dovrebbe procede all’inverso). Inoltre, l’agenda della COP27 contiene il tema più spinoso di tutti: la questione del “loss and damage”, ossia le compensazioni in denaro che i Paesi ricchi dovrebbero versare a quelli più poveri per i danni subiti (alluvioni, siccità e altri fenomeni estremi) a causa dei cambi climatici… E i cambi climatici sono stati provocati dall’eccesso di gas-serra emessi dai Paesi più industrializzati e consumisti. Tuttora i Paesi benestanti devono sborsare i 100 miliardi di dollari l’anno promessi alla COP21 a Parigi: che in fondo sono una bazzecola rispetto ai miliardi spesi ogni anno in armamenti. A finalizzare un accordo serio a Sharm el-Sheikh non basterà neppure l’allarme sardonico lanciato dal povero Antonio Guterres, disarmato Segretario generale dell’Onu: “Siamo sulla buona strada per un caos climatico irreversibile”.

4. Non è chiaro perché il generale al-Sisi abbia ottenuto il privilegio di ospitare la COP27. Se si voleva (giustamente) offrire un’occasione al continente più martoriato dai cambi climatici, l’Africa, c’era ampia possibilità di scelta: non tutti i cinquanta e più Stati africani sono in mano a tiranni sanguinari. Come non capire che il dittatore egiziano avrebbe sfruttato l’evento mediatico per legittimare un regime basato sulla reclusione, la tortura e l’assassinio di migliaia di suoi concittadini (più un giovane studente italiano)? Era prevedibile che le ong ambientaliste sarebbero state confinate in un corral nel deserto, mentre le delegazioni governative sarebbero state lussuosamente “sequestrate” sulle rive del Mar Rosso.

5. In conclusione, la presenza a Sharm el-Sheikh del Governo italiano in carica, notoriamente privo di qualsiasi idea innovativa in materia ambientale, non darà alcun contributo alla lotta contro i cambi climatici. Peggio, la presenza stessa del premier Meloni ha sancito la legittimazione di un regime tra i più sanguinari del mondo. Il presidente Draghi – se fosse rimasto in carica più a lungo – si sarebbe rifiutato di partecipare. Avrebbe seguito l’esempio di Ripa di Meana, commissario europeo all’Ambiente nel 1992: appena si rese conto che il Vertice di Rio de Janeiro sarebbe finito nel quasi nulla, fece in tempo a disdire il viaggio e a protestare contro chi riteneva massimo responsabile della crisi climatica: gli Stati Uniti. Scandalo a Bruxelles. Ma a lungo andare la sua assenza provocatoria giovò al buon nome della Commissione europea, diventata un faro di civiltà ecologica. Nel frattempo il presidente Bush chiedeva a Bill Reilly, suo “ministro” dell’Ambiente, chi era quell’esponente europeo dal curioso cognome doppio nome che aveva osato tanto (questo me lo raccontò Bill Reilly, a cui credo ciecamente).

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