Quando il re vacilla Dio lo soccorre. È un’antichissima regola della politica occidentale, non smentita ma anzi riconfermata dal lungo processo della secolarizzazione moderna. Si chiama supplemento teologico, e in tutte le democrazie occidentali ha ripreso piede via via che la sovranità statual-nazionale ha perso vigore sotto i colpi della globalizzazione e di flussi e agenti sovranazionali. Per fare un esempio, negli Stati Uniti – dove peraltro la benedizione di Dio viene tradizionalmente invocata alla fine di qualunque discorso politico ufficiale – ne fece largo uso George W. Bush dopo l’11 settembre, dando statuto di missione divina alle guerre americane che dovevano servire a contrastare il fondamentalismo religioso islamico.
A Donald Trump, secolarissimo tycoon che tutto deve al dio denaro con la d minuscola ma molto anche a una fetta di solido e fanatico consenso evangelico, quel supplemento finora mancava. Adesso ce l’ha, servito sul piatto d’argento dall’attentato di Butler. Come dubitarne? Se un candidato presidente sfugge per pochi millimetri a un colpo mortale, è un segno evidente della volontà di Dio di incoronarlo. Un altro unto dal Signore, in Italia conosciamo l’articolo.
Salvato e benedetto da Dio, Trump può così accettare “con fede e devozione” la nomination di una convention bulgara che adotta al volo il nuovo distintivo dell’orecchio fasciato. Risorto da una morte scampata e redento dal suo passato di peccatore, l’ex presidente è pronto per una nuova narrativa, di sé stesso e del suo paese. Gli USA non sono più “il carnaio” di otto anni fa ma un paese diviso da guarire, e lui ne sarà il guaritore. Lui non si presenta più come il capo divisivo di una parte ma come “il presidente di tutti”, salvo gli immigrati per i quali promette una squisitamente neonazista “deportazione di massa”. Le guerre in corso sono creature dei Dem, che “hanno ereditato un pianeta in pace e l’hanno trasformato in un pianeta in guerra”, ma ci penserà lui a farle cessare appoggiandosi in Europa a Orbán, “uomo molto potente e duro”, e sostenendo a oltranza Netanyahu in Medio Oriente. L’impero non è in declino bensì “all’apice di una nuova età dell’oro”, nella quale “andremo avanti e insieme vinceremo, vinceremo, vinceremo” (ricorda qualcuno?). Con l’aiuto del neo-delfino J.D. Vance, che (come Bill Clinton, ma questo Trump non lo dice) “ha conosciuto sua moglie a Yale”: anche il supplemento Ivy League al tycoon mancava, e anche questo ora ce l’ha.
Il passato golpista di Trump è cancellato, e il New York Times pubblica sotto il titolo “Il Trump che non dovresti dimenticare” una sintesi per immagini del suo primo mandato, augurandosi che funzioni “come avvertimento”. Ma com’è stata possibile questa cancellazione, nel volgere di pochissimi giorni? Conviene riavvolgere il nastro, e ripercorrere il modo in cui l’attentato di Butler è stato documentato, coreografato e interpretato: quando si dice il potere delle immagini, o di una immagine.
Tre scatti
Sono tre, non uno, gli scatti che immortalano l’attentato; lo ha notato subito, con la sua consueta acutezza, Paolo Giordano sul Corriere della Sera. Il primo, di Doug Mills, cattura il proiettile di Thomas Matthew Crooks in volo, grazie all’incredibile qualità tecnologica di uno scatto di un ottomillesimo di secondo. Il secondo, di Anna Moneymaker, coglie Trump caduto dopo il colpo, atterrito e fragile; è la fotografia della vulnerabilità del potere. Il terzo, quello ormai stranoto di Evan Vucci, immortala Trump rialzato, il viso insanguinato a favore di camera, il pugno alzato divincolato dalla stretta della scorta, la bocca che incita il suo popolo a “combattere, combattere, combattere”, la bandiera a stelle e strisce che sventola alle sue spalle sullo sfondo del cielo blu; è la fotografia del potere che non molla e raddoppia. Perché la terza, non la seconda, sia diventata l’immagine-simbolo dell’evento è tutt’altro che una domanda banale, e dice già molto del fatto, del contesto e degli spettatori.
La risposta rimbalza da giorni sempre uguale da un medium all’altro e da un commento all’altro: è in quella immagine che Trump mostra la sua stoffa di capo e di combattente, trasformando nel giro di pochi secondi lo scacco dell’attentato nell’annuncio di una vittoria ormai certa, tanto più certa in quanto la sua ostentazione di forza contrasta implacabilmente con le recenti immagini di un Joe Biden invecchiato, claudicante e disorientato. Ma siamo sicuri? E se pure ne siamo sicuri, come mai tanto entusiasmo bipartisan per quell’immagine di rivalsa e per quell’urlo di guerra?
Il significato di una fotografia, si sa, è il risultato di un doppio sguardo: lo sguardo di chi la scatta e lo sguardo di chi la riceve. Non so se è per puro caso che sia stata una donna, Moneymaker, a cogliere nel Trump caduto la vulnerabilità del leader, e un uomo, Vucci, a immortalare nel Trump rialzato la rivincita rabbiosa ed eroica del capo. Ma so per certo che il senso delle due foto cambia a seconda che a guardarle sia un occhio sedotto o un occhio distante dal virilismo duro e puro che lo scatto di Vucci immortala e santifica. Su una come me, per dire, quello scatto non esercita alcuna seduzione né fascinazione: piuttosto quell’orgoglio ferito, quell’ostensione del sangue, quel pugno alzato che promette e comanda di combattere mi allarmano e mi spaventano. Perché sintetizzano e rilanciano la (ri)costruzione di una virilità superomista e muscolare che oggi rispunta da ogni dove, in un mondo che riscopre la guerra e il riarmo come uniche bussole e nel quale troppe donne si lasciano cooptare senza marcare alcuna differenza dalle misure maschili. C’è in quella foto di Vucci un dettaglio trascurato ma non irrilevante, quello della poliziotta in primo piano che non riesce a contenere l’esuberanza reattiva del candidato ferito: immagine anch’essa iconica di una parità di genere che per le donne è omologante e perdente, quando si risolve in mero adeguamento – o peggio, arruolamento – alle regole maschili.
Il vulnus rimosso
Ancora. Una foto parla, anche questo si sa, per quello che mostra, ma anche per quello che non mostra; per quello che lo scatto include, ma anche per quello che esclude. Nella foto di Vucci il corpo ferito, redento e sacralizzato di Trump si staglia sullo sfondo di un cielo azzurro che cancella l’evento e il contesto: non c’è il colpo, non c’è il palco né la folla, non ci sono la sorpresa, la paura, la confusione, le urla, non ci sono le due vittime, non c’è il dramma né del prim’attore né degli spettatori. Tutto è trasceso nell’icona della reazione coraggiosa e risoluta del capo: il significato della foto, diffusa in tutto il mondo in tempo reale, satura il significato dell’evento, “without a moment to think”, senza un attimo per pensare, come ha scritto in un’ottima analisi Philip Kennicott sul Washington Post.
Impensato, e rimosso, resta così quello che invece lo scatto di Moneymaker coglie e mette a fuoco: il vulnus inferto al corpo del Capo, e per suo tramite al corpo politico impegnato nel rito elettorale. E per estensione dunque la vulnerabilità della democrazia stessa, che non serve consegnare a un leader “maschio e duro”, come Trump definisce Orbán parlando anche di sé, perché sia salva: al contrario, è così che la si condanna a una maggiore vulnerabilità, derivante da un di più di violenza legittimata dall’alto. Almeno a far data da quella eclatante scoperta della propria vulnerabilità che furono gli attentati dell’11 settembre, la democrazia americana ripete questa nevrotica alternanza fra la percezione della propria vulnerabilità e la sua saturazione con l’invito a “combattere, combattere, combattere”: ora all’esterno dei suoi confini, con lo “scontro di civiltà” contro fondamentalisti, tiranni e autocrati, ora all’interno, con la creazione voluta ed esacerbata di fronti contrapposti.
La nebbia della post-verità
Quest’ultima è stata precisamente il nucleo della strategia retorica e politica di Donald Trump, prima da presidente in carica e poi da ex presidente pronto a tutto pur di riconquistare lo scettro perduto. Un intero apparato politico e mediatico sovranazionale, particolarmente solerte in Italia, si è mobilitato nei giorni scorsi per attribuire la responsabilità dell’attentato di Butler alla “criminalizzazione” di Trump nella retorica dei Democratici, alla polarizzazione politica, ai giornali progressisti, ai movimenti di contestazione della sinistra americana, capitalizzando così immediatamente l’effetto-Vucci di sublimazione del personaggio politico reale nella vittima sacrificale e nel simbolo del coraggio insanguinato e protetto da Dio e dalla bandiera. Ma bisogna essere ciechi per non vedere che se – se – responsabilità indiretta di quel colpo c’è, essa va ricercata in primo luogo nel contesto retorico e politico creato, autorizzato e legittimato precisamente da Trump. Non solo con l’indimenticabile assalto a Capitol Hill, che resta l’attacco più violento mai sferrato contro le istituzioni di una democrazia dal suo interno. Ma già prima, e poi ancora dopo, con i commenti acquiescenti sul raduno neonazista di Charlottenville, con le sparate sul sangue puro degli americani e impuro degli immigrati, sui Democratici traditori e su Biden usurpatore, sull’antiamericanismo woke, per tacere delle sue battute sull’aggressione subita dal marito di Nancy Pelosi o dei variegati ingredienti che compongono la miscela caotica e esplosiva della post-verità di era trumpiana.
Nella quale anche i fatti più incontrovertibili restano avvolti da una nebbia inquietante. Alla fine, delle tre foto che abbiamo menzionato la più misteriosa rimane quella apparentemente più evidente, lo scatto di Mills della traiettoria del proiettile di Crooks. Del quale mai sapremo perché sia stato sparato e perché non sia stato impedito. Non lo si potrebbe dire meglio che con le parole di Bruno Cartosio su il manifesto del 18 luglio: “Tre sono i fatti incontestabili: Crooks non ha mirato all’orecchio destro di Trump, Trump è stato colpito nella parte del corpo meno debilitante in assoluto, polizia e servizi segreti hanno ucciso l’attentatore, ma solo dopo non avere protetto il bersaglio dell’attentato. Troppe imperfezioni perché sia una cospirazione, perché non si tratti di realtà vera”. Vera, ma non per questo – ed è la tragedia della politica oggi – attendibile.
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