Le ultime elezioni amministrative hanno visto una flessione dei Tories, che hanno perso alcuni seggi storici come quello di Westminster, ma più che un forte recupero del Labour, c’è stato un ritorno dei LibDem e un progressivo affermarsi dei Verdi. Che effetto può avere questo sulle rispettive leadership, già in difficoltà, di Starmer e Johnson?

Paradossalmente in questa fase rischia più Starmer di Johnson, nonostante la cocente sconfitta elettorale, infatti, il Primo ministro non ha nessuno in grado di sfidarlo nel partito. Rishi Sunak, il Cancelliere dello Scacchiere, è stato travolto dalla crisi economica e da una serie di scandali personali che ne hanno minato la popolarità. Era in rampa di lancio per sfidare Johnson e prendersi la leadership subito dopo le elezioni amministrative mentre invece adesso la sua carriera sembra essersi impantanata, lasciando senza leader l’opposizione interna a Johnson.

La situazione del Leader laburista è invece molto più precaria. Il Labour non sfonda nonostante vari disastri combinati da Johnson e dai Tories e, proprio a scrutini in corso, Starmer è stato raggiunto da una sorta di avviso di garanzia da parte della polizia di Durham per una presunta violazione delle regole del lockdown nell’aprile del 2021. Questo lo ha costretto ad annunciare che se dovesse essere raggiunto da un provvedimento da parte della polizia si dimetterà da Leader dell’Opposizione. A parte questo, ho l’impressione che Starmer abbia esaurito il suo ruolo di “decorbynizzatore” del partito, un lavoro che ha svolto quasi scientificamente sia a livello programmatico che di persone coinvolte nella gestione del partito, e che a questo punto, da un momento all’altro, verrà scaricato dalla maggioranza blairiana, che tenterà di riprendersi la leadership per sanare la ferita, mai veramente rimarginata, della sconfitta di David Miliband da parte del fratello Ed.

La più importante novità di questa tornata è però senza dubbio stato il successo dello Sinn Féin nelle elezioni parlamentari dell’Irlanda del Nord. Il partito indipendentista, pur non aumentando di molto i suoi voti, per la prima volta dalla nascita del paese nel 1921, ha superato come prima forza politica del paese in un’elezione parlamentare un partito unionista, segnatamente il DUP – Democratic Unionist Party, che ha guidato la scena politica nordilrandese negli ultimi anni e che si è invece dimostrato in flessione. Da cosa deriva questo successo e quanto ha a che vedere con la Brexit, in particolare con la questione del confine irlandese?

Diciamo che più che un successo del Sinn Féin (che aumenta di poco i voti e di neanche un’unità i parlamentari) si è trattato di un tracollo del DUP. Un tracollo che però non deve illudere troppo: l’ascesa del TUV (un partito ancora più reazionario e unionista del DUP) non deve dare illusioni su una possibile svolta dell’elettorato nordirlandese. Unica speranza in tal senso è invece l’ascesa di Alliance, un partito moderato e “neutralista”. Certamente la Brexit ha avuto un ruolo cruciale, ma soprattutto è stato decisivo il “tradimento” di Boris Johnson che ha disatteso tutte le promesse fatte al DUP circa la situazione post Brexit dell’Irlanda del Nord, firmando l’ormai famoso protocollo che ha di fatto lasciato Belfast nell’UE e creato un confine con il resto del Regno Unito.

Secondo i principi della consociational democracy, sancita dagli Accordi del Venerdì Santo, il Governo deve essere eletto con il sostegno della maggioranza di indipendentisti e unionisti1, e il vice-primo ministro deve essere il leader del secondo partito. Il DUP sta però boicottando le sedute parlamentari e quindi sia l’elezione dello speaker che dell’Esecutivo. Se, nonostante il supporto del Governo britannico, non si dovesse giungere a un superamento dell’impasse dopo 6 mesi Westminster dovrebbe scegliere se far ripetere le elezioni o ricorrere alla direct rule (“governo diretto”) del territorio (come già accaduto più volte, in particolare durante il periodo 1972-1998, all’apice dello scontro violento all’interno del Paese). Si arriverà a questo? E che conseguenze potrebbero avere le rispettive soluzioni all’interno del delicato equilibrio istituzionale nordirlandese, o finanche in quello britannico?

Chiaramente il fatto che la prima volta che il Sinn Féin abbia il diritto di nominare il First Minister gli unionisti si rifiutino di far partire l’esecutivo non è certamente una cosa positiva per l’equilibrio degli accordi del Venerdì Santo. La cosa era tuttavia nell’aria, tanto che la Costituzione è stata leggermente cambiata per permettere all’assemblea legislativa di operare per sei mesi anche in assenza di esecutivo. Questo permette di avere un periodo “cuscinetto” per provare a trovare una soluzione. In Irlanda del Nord fasi di stallo come questa in realtà sono abbastanza comuni, è spesso capitato che Londra dovesse intervenire per “aiutare” il processo di formazione dell’esecutivo o addirittura quello legislativo, come capitò nel 2019 con la legislazione a tutela del diritto d’aborto. Il problema questa volta è che il DUP chiede come contropartita per partecipare alla formazione del governo qualcosa che non è nelle disponibilità di Londra: il cambiamento unilaterale del protocollo post-Brexit. Negli ultimi giorni il ministro degli Esteri Liz Truss ha addirittura ribadito, supportata dallo stesso Johnson, la volontà fattiva di un modifica unilaterale del Regno Unito di alcune parti del protocollo, provocando preoccupazioni e rimostranze da parte dell’Ue. Si tratterà ora di capire in che modo riusciranno a uscirne nei prossimi sei mesi, trascorsi i quali è più probabile che vengano indette nuove elezioni, a mio parere, che istituita una direct rule.

Michelle O’Neill, leader del Sinn Féin nordirlandese, in campagna elettorale non ha insistito sull’opportunità di richiedere a breve un referendum sull’unificazione con la Repubblica d’Irlanda, secondo le modalità previste dagli Accordi del Venerdì Santo. Lo ha fatto per non spaventare l’elettorato, perché la considera un’ipotesi da costruire in un arco di tempo più lungo, oppure perché non è più una prerogativa del suo programma politico?

Quel referendum non è una bandiera da sventolare con leggerezza, sarà una svolta epocale e non potrà certo essere invocato a cuor leggero. Al momento peraltro non ci sarebbero i numeri per sperare in un buon risultato per l’unificazione con la Repubblica: il Sinn Féin con il suo 29% sarebbe l’unico partito a sostenerlo al momento insieme probabilmente al SDLP che ha preso solo il 9%. L’unificazione a medio/lungo termine è un fatto quasi inevitabile dal punto di vista demografico (i cattolici sono sempre di più in proporzione alla popolazione e i protestanti sempre meno), ma non credo che il referendum sia imminente a meno che la situazione istituzionale non si blocchi senza possibilità di soluzione e si debba ristrutturare del tutto la società irlandese e nordirlandese.

Certamente un ruolo importante nel medio periodo potrebbe averlo l’amministrazione americana: Biden non ha mai nascosto le sue simpatie per l’Irlanda e la sua attenzione quasi morbosa per la pace in Irlanda del Nord. È ormai famosa la sua foto con Gerry Adams già leader del Sinn Féin e da molti (soprattutto nel Regno Unito) considerato un ex membro dell’IRA. Biden in questi anni è sempre intervenuto pesantemente contro il Governo britannico quando ha ritenuto che l’atteggiamento di Londra potesse mettere a rischio gli accordi del Venerdì Santo e non ha esitato a far sentire la sua voce immediatamente dopo le elezioni del 5 maggio e dopo l’annuncio del Governo britannico di voler stralciare unilateralmente parti del protocollo sull’Irlanda del Nord. Questo occhio di riguardo dell’amministrazione Biden potrebbe dunque favorire soluzioni a favore dell’unificazione se la situazione, per le ragioni di cui abbiamo già parlato, dovesse precipitare nei rapporti interni all’Irlanda del Nord, e soprattutto tra Regno Unito e Unione Europea.

Note

1 Maggioranza dell’assemblea con maggioranza in ambo gli schieramenti votanti, nazionalisti e unionisti, – e della weighted majority – consenso del 60% dei votanti con il 40% in ognuno dei due schieramenti, secondo il principio della cross-community.

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