Chi si aspettava dall’incontro del 17 dicembre fra Stellantis e il Governo una vera svolta, la può trovare solo nei titoli di qualche giornale compiacente. Si può certamente dire che l’occasione sia servita per togliere qualche ruggine accumulatasi nelle relazioni tra il Ministero del Made in Italy (una denominazione quanto mai insincera) e i manager dell’industria automobilistica, approfittando anche della dipartita di Tavares, ma nulla più di questo. D’altro canto le tradizioni non si smentiscono. Gianni Agnelli, parlando del gruppo Fiat, diceva “Noi siamo governativi per definizione”1. La Fiat non c’è più, ma quello che resta si aggrappa a una postura che in qualche modo vuole riattivare. Non stupisce perciò l’entusiasmo del ministro Adolfo Urso, che si è permesso persino di nascondere sotto il tappeto il definanziamento di 4,6 miliardi dal Fondo automotive operato dalla manovra economica e di sbandierare l’inserimento nella medesima, tramite emendamento alla Camera, di soli 400 milioni come un atto di generosa riparazione. Urso ha parlato anche di 1,6 miliardi di euro disponibili per la filiera auto. Ma a tale cifra si arriva sommando diverse voci, che riguardano una pluralità di settori, quindi non tutte facenti riferimento all’automotive, fra cui, oltre ai già citati milioni di euro tra nuovi e residui del Fondo specifico, vi sarebbero quelli per i contratti di sviluppo (500 milioni) già esistenti, perché stanziati dal PNRR e destinati a più filiere strategiche, di cui l’auto è solo una di queste. Sommando queste cifre più altre frattaglie, il Governo promette di giungere alla poco mirabile quota di 1,6 miliardi nel triennio, subito giudicata del tutto insufficiente da Anfia (l’Associazione nazionale della filiera industria automobilistica).

Tutto ciò in cambio di che? Il nuovo numero uno di Stellantis in Europa, Jean Philippe Imparato, ha chiarito che il target di un milione di veicoli prodotti in Italia, vagheggiato solo un anno e mezzo fa, resta un sogno – per usare un eufemismo – dal momento che il volume del prodotto si è ridotto rispetto al 2023 d quasi il 30% e che si prevede che tra veicoli industriali leggeri e vetture auto il bilancio del 2024 raggiungerà a stento le 500.000 unità. Per queste ultime la quota che al massimo verrà raggiunta nel 2025 – giudicato un anno duro, ma quale non lo è con queste premesse? – sarà di 350.000, vale a dire che si ritorna ai livelli del 1957, quando il “miracolo economico” era solo alle porte. Il manager francese di origini italiane non poteva in quella sede che promettere la continuazione, anzi persino l’incremento produttivo nel nostro paese. Ma in concreto si è visto bene poco. Vedremo cosa si inventerà il presidente di Stellantis, John Elkann, che dopo un primo rifiuto si è detto disponibile a una audizione in Parlamento. Non si può comunque considerare un vero piano industriale qualche annuncio, come l’installazione di una nuova piattaforma Stla-Small a Pomigliano e forse a Cassino nel 2028. Al massimo lo si può considerare un “piano di transizione”, come lo ha chiamato, non privo di generosità, il segretario generale della FIOM, Michele De Palma2.

Imparato si è difeso dicendo che “per produrre un milione di vetture ci vogliono tre condizioni: prodotto, motori, mercato”, quest’ultimo in chiave europea. Le prime due cose ci sarebbero, ma sulla terza, cioè la risposta del mercato, non intende fare “promesse non mantenute”. Naturalmente non è passato neppure per la testa, né a lui né ai suoi dirimpettai del Governo italiano, che per avere mercato bisogna anche che si innalzi la capacità d’acquisto dei cittadini, la quale non può essere garantita solo con una politica di incentivi governativi che l’esperienza ha dimostrato non essere affatto risolutiva, specialmente nel caso italiano, ove le recenti rilevazioni dell’Istat hanno certificato una perdita di reddito e un aumento della povertà record nella stessa Europa, che pure bene non sta. Il quadro dell’auto è il peggiore di tutti, ma non è isolato. È tutta la produzione industriale a essere in crisi, particolarmente nel nostro paese, dove è evidente – non solo per colpa del Governo attualmente in carica – l’assenza di una qualunque politica industriale, per non parlare di uno straccio di programmazione. L’ultimo aumento della produzione industriale nel nostro paese risale all’inizio di febbraio del 2023. Da allora è stato un seguirsi di segni meno, mese per mese, trimestre per trimestre. Anche il settore delle macchine utensili, un punto di eccellenza italiano soprattutto nelle esportazioni – che infatti tengono meglio del mercato interno – conosce una profonda crisi che l’UCIMU (l’associazione degli industriali del settore) certifica prevedendo per il 2024 una caduta di 35 punti della domanda interna di questi macchinari. Intanto nel 2023 Carlos Tavares ha guadagnato 23,5 milioni di euro, mentre la paga mensile media di un operaio della Stellantis non ha superato i 2.100 euro lordi, che nei periodi di cassa integrazione si sono ridotti a 1.200. E, tanto per sfatare una vulgata a uso padronale, il Centro studi della FIOM nazionale ha rilevato che “il valore aggiunto per ora lavorata in Italia in quasi tutti i settori metalmeccanici è superiore alla media dell’Unione europea, un segnale importante della produttività del lavoro”3.

Il fatto che l’auto in Europa attraversi una crisi strutturale di fondo è un’aggravante per Stellantis e il Governo italiano, non una scusante. Indica che il problema va affrontato almeno a quel livello, non solo entro i nostri confini, e certamente non scegliendo di premere in sede UE per modificare e ritardare le tempistiche e le regole della conversione dei motori endotermici. Sarebbe questo il terreno del riconquistato amoreggiamento tra il nostro governo e Stellantis, nonché con gli esponenti di punta del capitalismo nostrano. In una fluviale intervista al giornale della Confindustria, Marco Tronchetti Provera ha attribuito la crisi dell’automotive al fatto che “in Europa sono state fatte scelte estreme in modo ideologico e non realistico”4. Si conferma ancora una volta esatta la spiritosa osservazione del filosofo e critico letterario inglese Terry Eagleton secondo cui “l’ideologia, come l’alitosi, è qualcosa che appartiene sempre agli altri”.

Dal canto suo, la premier Meloni, l’altro giorno alla Camera, non ha perso l’occasione per affermare che “un modello di decarbonizzazione basato unicamente sull’elettrico, se fosse confermato, rischierebbe di portare al collasso l’intera industria automobilistica”, mentre invece bisognerebbe “riaprire il capitolo della neutralità tecnologica”, quindi via libera ai biocarburanti e sospensione delle multe per le aziende costruttrici (la severità è solo riservata al dissenso, come chiarisce l’orrido ddl sulla “sicurezza”) che non raggiungeranno nel 2025 gli obiettivi internazionali di riduzione della CO2. Come è stato da più parti osservato, l’Italia e l’Europa sono invece in ritardo rispetto alla necessità di passare all’elettrico, e l’esperienza della Norvegia, che nel 2025 venderà solo auto elettriche, sta a dimostrare che quegli obiettivi non erano impossibili da perseguire o quantomeno da avvicinare. Dilatare i tempi della conversione vuole dire decretare la resa di fronte all’alterazione climatica, senza neppure avere il coraggio di sostenere apertamente la linea cosiddetta dell’ecoadattamento, come, ahimè, suggerisce Lucio Caracciolo nell’ultimo numero di Limes5.

La crisi dell’auto in Germania influisce immediatamente sul quadro produttivo e occupazionale italiano, sull’indotto dell’auto, vista l’integrazione delle nostre aziende con il sistema produttivo allargato tedesco. La mitica Volkswagen vuole chiudere tre stabilimenti in Germania sollevando la dura opposizione del principale sindacato tedesco, quello dell’auto appunto. Audi e Mercedes prevedono e tracciano percorsi drammatici. Mentre in Francia si crede di risolvere qualcosa spostando linee produttive in Marocco e in Turchia. La quota di mercato cinese dei produttori tedeschi è crollata negli ultimi anni. Certamente la guerra russo-ucraina e le conseguenti decisioni e sanzioni degli USA e della UE non hanno favorito – anche qui per usare un eufemismo – i rapporti economici tra ovest ed est. I pesanti dazi annunciati da Trump per difendere le produzioni statunitensi rendono l’immediato futuro ancora più cupo.

Ma fermarsi a considerare gli effetti non desiderati del clima di guerra scientemente perseguito non sarebbe sufficiente a spiegare la situazione. Si è creato, non da oggi, e si sta ulteriormente allargando, un divide tecnologico tra la produzione automobilistica cinese e asiatica e quella europea. I tempi in cui l’industria automobilistica europea, in particolare quella tedesca, potevano primeggiare grazie alla perfezione e alla ricercatezza della struttura tecnico-meccanica delle sue autovetture, sono trascorsi da tempo. La competizione – che tanto piace ai cantori delle virtù del capitalismo – si è spostata sul software, sulle batterie e da ultimo sulla guida autonoma, ovvero senza intervento umano. E qui, in Europa – per gli States la situazione è diversa – si è aperta una voragine senza limiti per la competitività, come viene puntualmente registrato anche negli articoli del Financial Times. Non va dimenticato che la vettura elettrica richiede un numero di componenti sensibilmente inferiore rispetto a quello necessario per fare funzionare un’automobile a combustione termica. Il che comporta un appesantimento ulteriore, sia ora che ancor più in prospettiva, per quanto riguarda la componentistica, in termini di prodotto e di occupati. Come è noto il nostro paese occupava a livello internazionale una posizione di tutto rispetto in questo campo.

Oggi la Cina produce e vende circa un terzo delle auto a livello mondiale, pressappoco quanto Europa e Stati Uniti messi assieme6. Anche sul piano delle qualità non c’è partita. Almeno per quanto riguarda la UE, stante le attuali scelte politiche ed economiche. Dicevo che la situazione negli USA presenta caratteri diversi, essenzialmente dovuti alla presenza di Tesla, la cui competitività ai livelli alti della innovazione tecnologica è fuori di dubbio, basti considerare la produzione di auto a guida autonoma. Il mercato cinese è il secondo più grande per Tesla dopo gli USA. La gigafactory di Shangai, inaugurata nel 2019, è rapidamente diventata il centro di produzione maggiore dell’impresa. Questo ha comportato una competizione crescente e sempre più aspra fra Tesla e Byd, grande azienda automobilistica cinese. Elon Musk si è recato in Cina, avendo incontri al massimo livello, per governare questo processo. Il punto su cui si gioca la partita è dare vita pratica e pienamente affidabile al sistema Fsd (Full Self Driving), ovvero l’auto interamente robotizzata guidata senza intervento umano, già sperimentata per le strade di New York7. “L’obiettivo finale di Musk per Tesla (progetto per lui comunque in certo modo ancillare rispetto a SpaceX) – osserva Alessandro Aresu – è che venga riconosciuta, anche per ragioni di valutazione, come un’azienda basata sull’intelligenza artificiale applicata alla robotica e alla manifattura su vasta scala, più che semplicemente sulla produzione di veicoli elettrici. […] Proprio questo apre un problema cinese per Musk tutt’altro che irrilevante: come farà Tesla a chiedere al Partito comunista un pieno accesso al mercato cinese, compresa la possibilità di prendere dati e metterli in uno dei suoi megacluster statunitensi, nello stesso mondo in cui gli Stati Uniti chiudono il loro mercato al software automobilistico cinese, a ogni variante di computer su ruote cinesi che è ‘minaccia alla sicurezza nazionale’ per il provvedimento dell’amministrazione Biden del 23 settembre 2024?”8 e che – aggiungo – stando alle intenzioni proclamate, Trump sembra volere inasprire con l’innalzamento dei dazi?

Come si vede anche per gli USA, ingaggiare uno scontro senza limiti con la Cina appare una strada che porta alla distruzione dei contendenti. Infatti, come hanno sostenuto, con dovizia di esempi e argomentazioni, Matthew C. Klein e Michael Pettis, il primo scrivendo dall’America, il secondo dalla Cina – unendo i loro lavori in un unico volume – “le guerre commerciali sono guerre di classe” e che quindi “i problemi degli ultimi decenni non derivano dal conflitto geopolitico o dall’incompatibilità fra i diversi caratteri nazionali; piuttosto, sono stati causati dagli enormi trasferimenti di reddito ai ricchi e alle aziende di cui hanno il controllo”9. Non c’è America first né UE ultrafiloatlantica che tenga. La superiorità cinese in campo automobilistico – cosa impensabile fino a non molti anni fa – è parte di quel complesso e contrastato processo di transizione egemonica mondiale da ovest verso est, che solo una guerra globale – inevitabilmente nucleare – può fermare, perché distruggerebbe gran parte della vita umana e non umana sul pianeta.

Non vi è altra strada, quindi, per l’Europa che scrollarsi di dosso la sudditanza nei confronti degli USA in ogni campo e aprire relazioni positive e accordi di collaborazione fra produttori con la Cina, l’Asia e l’alleanza dei BRICS, cioè con il Global south, pur sapendo delle contraddizioni e delle differenze che si agitano anche in questi “mondi”. Anche in campo automobilistico una politica preveggente deve e può tenere conto della necessità di ridurre le emissioni di CO2 nei tempi previsti e quindi di subordinare le scelte produttive a questo scopo. Solo questa prospettiva permette di salvare l’occupazione sottraendola allo stillicidio delle varie forme di cassa integrazione o di contratti di solidarietà difensivi, scegliendo con decisione la via di una riduzione stabile dell’orario lavorativo. In questo quadro la capacità di lavoro italiana può essere reindirizzata verso programmi e piani industriali credibili proprio perché innovativi, visto che battere le pezze del passato non porta vantaggi, e può venire retribuita per il suo giusto valore, elevando così i livelli retributivi e le capacità d’acquisto. Più di una ricerca ha messo recentemente in luce un certo distacco delle giovani generazioni dall’oggetto auto nelle società mature. Un fenomeno, se confermato, in realtà positivo, perché può favorire, con il vantaggio di un consenso popolare, un impegno finanziario e produttivo verso i mezzi di trasporto pubblici, ma anche un utilizzo della vettura a guida autonoma che integri il trasporto pubblico e collettivo, attraverso un sistema più evoluto di car sharing decongestionando i territori urbani.

Note

1 L’affermazione venne fatta da Gianni Agnelli al giornalista Giancarlo Galli ed è riportata in Luca Piana, “Politica e industria inaugurano la stagione della conflittualità”, Affari&Finanza, 15.06.2020.

2 Vedi Massimo Franchi, “La Fiom attacca: ‘Stellantis e le altre: utili ancora in aumento, salari in calo’”, il manifesto, 19.12.2024.

3 Riportato in Massimo Franchi cit.

4 Marigia Mangano, “Auto in crisi per scelte ideologiche, l’unica cura gli investimenti tech”, Il Sole 24 Ore, 19.12.2024.

5 Vedi Lucio Caracciolo “Climi e tribù”, Limes, novembre 2024.

6 Vedi Vincenzo Comito, “Tavares, crisi dell’auto, crisi dell’Europa”,Sbilanciamoci!, 03.12.2024.

7 “A New York, dove è legale, siamo saliti a bordo per provare la nuova funzione Full Self Driving della vettura di Elon Musk”, Wired, 03.07.2024.

8 Alessandro Aresu, “The Fast and the Furious. Byd, Tesla e l’industria delle industrie”, Limes, ottobre 2024.

9 Matthew C.Klein, Michael Pettis, Le guerre commerciali sono guerre di classe. Come la crescente disugaglianza corrompe l’economia globale e minaccia la pace internazionale, Einaudi, Torino 2021, pag. XI.

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