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Ritorno alla normalità è diventato ormai un refrain entrato nel linguaggio comune in maniera preponderante, un disco rotto che ripete ossessivamente questo mantra. Si tratta di una parola d’ordine e di una prospettiva che accomuna sia le multiformi forze di governo sia le opposizioni. Insomma un obiettivo di buon senso, o meglio di senso comune, verso il quale tutti tentano di navigare.

In realtà, però, in questo navigare comune c’è un punto oscuro e anche pericoloso sul quale occorrerebbe soffermarsi. Infatti, se da una parte il ritorno alla normalità appare come una boccata di ossigeno, come la ripresa di una vita dinamica, produttiva e innovativa, dall’altro esso porta con sé una componente reazionaria e conservatrice. Ritorno alla normalità, ovvero normalizzazione, significa anche riportare le cose a come erano prima e quindi ritenere che quello che c’era prima andava bene, come se ci fosse un bel mondo antico e perduto da ritrovare, come se la situazione del lavoro e del suo sfruttamento prima non ci fosse, come se non ci fosse già prima del Covid un evidente aumento delle disuguaglianze, della povertà e, conseguentemente, del numero di persone sempre più emarginate e alienante nella nostra società.

Nell’elogio del “ritorno” c’è uno spirito di destra col quale si tenta di piegare il futuro verso un passato per diventare com’eravamo. Va da sé, perciò, che i cosiddetti sovranisti siano tra i primi sostenitori di questo spirito. Quello che invece delude è che anche la sinistra si accodi a questa visione senza comprenderne appieno il potenziale pericoloso. Infatti, il ritorno alla normalità ha una sua valenza ideologica e, sebbene urlato da fascisti cripto e post, esso in realtà fa il gioco del capitale, dell’impresa, che ha interesse a riportare i rapporti di forza a come erano prima dell’emergenza Covid, evitando che la situazione di rinascita possa portare a regole del lavoro diverse, a una sua maggior tutela, a una distribuzione più equilibrata dei profitti, a una tassazione più progressiva ed efficace.

Le forze che guardano al progresso, anche soltanto minimamente di sinistra, non dovrebbero ambire mai alla normalità. Al contrario, il loro compito è quello di porre la normalità a critica costante con l’obiettivo di trasformarla, migliorarla o addirittura rovesciarla. Invece tutto ciò non viene fatto e anzi, in virtù della miseria culturale tipica nella sinistra attuale, ci si sbraccia per essere i primi a poter dire “ho portato il mondo com’era prima, alla normalità”.

In questo quadro si avverte uno smarrimento dato dall’assenza di punti di riferimento sociali ed economici. Si dovrebbe invece partire proprio da questi ultimi, in particolare dal lavoro, per dar vita a un’azione politica orientata verso un orizzonte di lungo periodo. Senza punti di riferimento viene meno la capacità di individuare gli avversari e le cause che determinano le ingiustizie sociali e quindi manca la possibilità di una contrapposizione, del conflitto che è indispensabile sia per dar vita seriamente alla propria azione politica sia per plasmare la propria identità ormai perduta.

È evidente che la pandemia ha inasprito problemi già esistenti e ha approfondito le disuguaglianze sociali, eppure dai ceti particolarmente colpiti non è arrivata una forte protesta se non in maniera frammentata e isolata. È sembrato che la crisi, complice anche la grancassa mediatica, avesse colpito soltanto i piccoli imprenditori, i ristoratori e i commercianti che sono riusciti a esprimere la loro rabbia nichilista.

Ci sarebbe da interrogarsi sul perché in Italia il mondo del lavoro non riesca a esprimere un livello superiore di conflittualità. È come se i sindacati e i partiti di sinistra si fossero aggrovigliati in un circuito vizioso dal quale non riescono a venir fuori con un’idea di società che produca avanzamenti nel senso della giustizia sociale e dell’uguaglianza, e che prospetti anche un orizzonte ideale. Eppure le grandi questioni non mancano, solo che esse vengono ricondotte a una relazione industriale periferica che non si inserisce mai in una grande lotta nazionale, né in un insieme di rivendicazioni politiche coerenti che abbiano una progettualità.

Tutte le forze politiche e sociali di sinistra che appoggiano il governo Draghi, o che comunque non vi si oppongono in maniera netta, dovrebbero saper costruire proprio questa dinamica conflittuale in questo passaggio politico. Peraltro, grandi ambiti sui quali intende investire il Piano nazionale di ripresa e resilienza sono tutte aree che portano con sé questioni inevitabilmente conflittuali e sulle quali bisognerebbe insistere affinché abbiano uno sbocco il più possibile di sinistra.

Accanto a ciò, occorrerebbe dire con nettezza che la ripresa deve essere tale da valorizzare il più possibile il lavoro, aumentando salari e tutele e riducendo l’orario. Il rischio, infatti, se non si facesse ciò, è di avere una crescita economica in tempi brevi, come lascerebbero intuire recenti stime economiche, ma il ritorno a crisi future date dall’aumento delle disuguaglianze. Perché ciò non accada è opportuno, in primo luogo, realizzare una legislazione sul lavoro che ne difenda la dignità, eliminando gli errori compiuti in oltre un ventennio di controriforme, dal pacchetto Treu al Jobs Act. Si potrebbe poi anche immaginare di ridurre il carico fiscale sul lavoro a patto, però, che si combatta una volta per tutte l’evasione fiscale, si introduca una tassazione veramente progressiva (per poter redistribuire la ricchezza, non per dare una dote ai ragazzini!), si colpiscano i patrimoni, si riduca, con varie misure, l’utilizzo del denaro contante, si agisca a livello europeo per abolire il dumping fiscale.

Questa crisi, come tutte le altre in crisi, ha dimostrato che la mano invisibile in sé non crea ricchezza e che, come sempre, occorre l’intervento pubblico. Su questo tema bisognerebbe fare una battaglia culturale e politica al fine di evitare che il rischio di impresa sia dello Stato e il profitto del capitale. Bisogna cioè iniziare a dire che l’intervento pubblico in economia non può solo salvare le imprese ma le deve anche gestire. Sarebbe questo un ulteriore mezzo per la lotta alle disuguaglianze.

Nel racconto pubblico si celebra questa Italia in bianco che pare popolata da una società schizofrenica in preda a un raptus compulsivo della vacanza in Costa Smeralda, della cena al ristorante, del weekend al centro commerciale, dell’happy hour in centro. Come se spendere la propria esistenza nei non-luoghi della post-modernità fosse il senso della libertà ritrovata. Anche per questo occorre criticare e opporsi a questa “normalità”, promuovendo nuovi valori per ricomporre una società individualizzata e atomizzata, per valorizzare la persona ed emancipare il lavoro. Bisogna cioè fare una critica costante e intelligente che guardi al futuro prossimo non come a una dimensione da normalizzare, ma a una dimensione da trasformare e far progredire.

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