Democrazia, Lavoro, Politica, Temi, Interventi

Ha ragione il professor Canfora: dobbiamo abbandonare la lettura della storia a cui siamo abituati, un processo lineare fatto di avanzamenti continui nella direzione giusta, quella del progresso dell’umanità. Chiaramente, non è così. Piuttosto, se osserviamo questo lungo cinquantennio di regressione rispetto all’età dell’oro (brevissima) del compromesso socialdemocratico o della democratizzazione tentata del capitalismo (come si preferisce) riscontriamo esattamente il contrario.

La sfida che abbiamo di fronte è enorme. I presupposti teorici su cui si è fondato il pensiero politico radicato nel lavoro e nei valori della Rivoluzione francese sono messi in discussione.

Non ci sono dubbi sul fatto che al governo ci siano gli eredi diretti del Movimento Sociale Italiano fondato da Almirante e da altri reduci del regime fascista. Del resto considerano l’antifascismo un principio e un valore da contrastare, e lo si comprende dai cavillosi distinguo che mettono in campo ogniqualvolta se ne presenti l’occasione nel dibattito pubblico. Il punto non è se siano o meno fascisti. La domanda che dobbiamo porci è come siano arrivati al governo e ora pronti a dare l’assalto finale alla Carta costituzionale già sotto assedio.

Si dibatte della perseguibilità o meno del saluto romano nell’ambito di una rievocazione “storica”, si inaspriscono le pene per quelli che vengono bollati come ecoterroristi, mentre ricorderemo il 2023 come un anno fresco. Si trasforma l’occupazione di un rettorato in un crimine contro la repubblica, si stigmatizza e si censura ogni forma di dissenso a partire dalla sacrosanta contestazione degli accordi tra le università e chi produce morte attraverso le armi, addirittura si invocano leggi speciali per gli atenei che dovessero proseguire con il boicottaggio della ricerca in campo militare. Si mette in discussione il diritto di sciopero in modo sempre più ostentato.

Ma ripeto la domanda: com’è stato possibile?

Mentre ci rincuora vedere la reazione di una parte del mondo della cultura alla oscena scelta di cancellare dal palinsesto Rai il monologo di Scurati, non possiamo fare a meno di constatare che ciò avviene mentre alle elezioni regionali della Basilicata vota meno del 50% degli aventi diritto, ultimo dato indicativo della disaffezione al voto di una lunga serie. Sembra abbastanza chiaro che l’offensiva ideologica iniziata già nella seconda metà degli anni Settanta come reazione all’espansione dei diritti sociali e civili del decennio 1964-1974, proseguita con l’affermazione delle ricette mainstream neoliberali ha preparato le condizioni per il collasso della democrazia costituzionale e il ritorno alla democrazia minima liberale il cui vero nemico è sempre stato il lavoro organizzato ovvero, ciò che il mercato decide è giusto di per sé. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: se la vera crisi della democrazia è la crisi della partecipazione, ciò dipende dalla progressiva perdita di valore del lavoro. Se non hai voce ascoltata nel lavoro, se i diritti diventano progressivamente privilegi, smetti di credere che dalla politica, poi dallo Stato e da ultimo dalla partecipazione democratica possano arrivare risposte.

Sappiamo bene quello che è accaduto. La gabbia democratica costruita intorno al capitalismo dopo la Seconda guerra mondiale è stata scardinata anno dopo anno, utilizzando ogni crisi come un pretesto, affermando un senso comune precostituzionale, ovvero, ciò che il mercato decide è giusto di per sé. Parola d’ordine: rimercificare ciò che si era demercificato, cioè il lavoro in quanto parte della vita umana. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: se la vera crisi della democrazia è la crisi della partecipazione, ciò dipende dalla progressiva perdita di valore del lavoro.

Ma una democrazia che spinge i cittadini a non credere nelle sue promesse, a ritirarsi dalla vita politica è una democrazia che è destinata a morire. Una democrazia antipartecipativa, nemica del dissenso, è l’opposto della democrazia costituzionale. Le radici di questo modello affondano nell’idea liberal conservatrice che già aveva fatto da anticamera del fascismo. L’idea liberal conservatrice della democrazia non è l’idea costituzionale di democrazia. Una democrazia che serve il mercato non è la democrazia dell’articolo 3 della Costituzione e non è quella dell’articolo 1 della Costituzione, una democrazia fondata sul lavoro. Perché Di Vittorio può argomentare nella Relazione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale presentata nella terza sottocommissione della Costituente che all’associazione dei lavoratori spettava un posto preminente? Perché gli scioperi del 1943 e del 1944 hanno reso il sindacato contraente del patto costituzionale, perché il diritto al conflitto e in particolare il diritto di sciopero diventavano essenziali per la costruzione della democrazia ogni giorno.

L’idea costituzionale è l’idea di una democrazia diffusa, di una democrazia  dell’autogoverno dal basso, è l’idea che nasce nel secondo biennio rosso che come un fiume carsico segnerà la storia del Novecento, riemergendo nella grande stagione della costituzionalizzazione reale, quella del decennio 1964-1974: quella che era riuscita a demercificare il lavoro attraverso le lotte e ad affermare allo stesso tempo i diritti civili. Ma è esattamente questa idea di democrazia che cercano di cancellare.

Naturalmente gli scenari di guerra rafforzano una certa idea di Stato: emergenziale, a-democratico, cesarista, a guardia – militare – dell’unica giustizia accettata, quella del mercato appunto. Adesso l’obiettivo è ciò che rimane della democrazia parlamentare, anche in questa attuale forma già svuotata di prerogative reali a colpi di decretazione d’urgenza, leggi di bilancio a colpi di fiducia da almeno trent’anni. Quindi una democrazia minima e cesaristica.

La combinazione tra autonomia differenziata e premierato (ma già l’elezione diretta dei presidenti delle regioni andava in quella direzione con le patologie conseguenti sempre più chiare da sud a nord) dentro un meccanismo di stabilità finanziaria imposta dalle rinnovate regole austeritarie della governance economica dell’Unione europea alimenta questa deriva. L’unica politica economica espansiva rischia in questo scenario di essere quella militare, quindi le uniche spese pubbliche possono e debbono andare all’industria bellica.

Ma la storia non è scritta, è ancora da scrivere collettivamente.

Tuttavia è solo nella ripresa di una diffusa partecipazione democratica che ciò sarà possibile. Ma questo nella storia è accaduto e può di nuovo accadere. Quindi è proprio quella partecipazione che andrebbe promossa con tutte le forme possibili all’interno di una nuova pedagogia democratica fondata sulla speranza. Questo è ciò che facciamo, questo ciò che faremo.

Ecco perché la CGIL, dopo un importante dibattito interno, ha deciso di lanciare una straordinaria sfida democratica dal basso, raccogliere le firme per ridare voce e valore politici al lavoro, che non è merce tra le merci ma parte della vita umana che come tale non è fatta per essere venduta. Sono quattro i quesiti, che puntano a riscrivere i capisaldi dei rapporti di forza fra datori di lavoro e lavoratori. Lo slogan dell’iniziativa è “Per il lavoro stabile, dignitoso, tutelato e sicuro ci metto la firma”.

Pare dunque chiaro lo sforzo della CGIL di riproporre attraverso i referendum al centro della riflessione pubblica la condizione del lavoro, precario e enormemente insicuro, povero e discriminatorio (il gender gap nel frattempo si è enormemente allargato, come denunciato da tante agenzie internazionali, così come è sceso pericolosamente il tasso di occupazione, soprattutto giovanile e femminile, nelle regioni del Mezzogiorno). Insomma, anche attraverso lo strumento del referendum, l’ordine apparentemente naturale in cui siamo immersi (quello che viene imposto dalla dottrina capitalistica neoliberista) deve essere messo radicalmente in discussione.

Del resto l’idea cardine intorno a cui ruotano tutte le politiche sul lavoro in particolare degli ultimi trent’anni, culminate nel Jobs Act ha essenzialmente una matrice ideologica. La ritroviamo nel Rapporto OCSE del 1994 – vera e propria bibbia del pensiero liberista sul lavoro – successivamente acquisito dal Fondo monetario internazionale e poi dalla Bce. Tra i punti centrali figura, in particolare, la necessità di modificare i regimi di protezione dell’impiego in quanto, secondo la ricetta mainstream “solo un mercato del lavoro perfettamente flessibile, in un contesto neutrale di politiche macroeconomiche potrebbe aumentare l’occupazione”. Il solito mantra che l’eccessiva rigidità del mercato del lavoro (in particolare italiano di cui la tutela in materia di licenziamenti sarebbe la massima espressione) scoraggerebbe gli investimenti esteri oltre a rappresentare la causa principale della precarietà e della disoccupazione producendo il cosiddetto dualismo insiders vs outsiders.

Da noi sono state applicate le ricette mainstream che l’ecclesia militans neoliberale predica in tutti i contesti politici e sociali da anni. Non è una novità. Il pensiero neoconservatore alla base delle azioni di governo di Ronald Reagan e Margaret Thatcher partiva anch’esso dallo stesso presupposto: riduzione dell’intervento pubblico diretto in economia, tagli allo stato sociale, contenimento della dinamica salariale, libertà di licenziamento. L’obiettivo neanche tanto mascherato è sempre stato colpire il lavoro organizzato. Ovviamente la compressione dei salari che ne è conseguita ha delle specificità che variano da paese a paese, noi ad esempio vantiamo oggi un primato. I salari italiani sono rimasti sostanzialmente fermi al 1993, anzi siamo l’unico paese che nel trentennio 1990-2020 ha registrato una perdita del 2,9% mentre in tutti gli altri paesi si è assistito a un aumento: nell’area OCSE è stato del 18,4% mentre nell’area euro del 22,6%. Costringendoci ad un bilancio impietoso di trent’anni di relazioni industriali, quanto meno.

Occorre quindi restituire al lavoro la sua dignità e quindi la sua dimensione politica, la sua voce ma la chiave è quella della democrazia: democratizzare il lavoro per democratizzare la società. E il referendum è uno dei modi possibili.

Una iniziativa che si unisce a quella di rilanciare l’applicazione dell’articolo 39 della Costituzione come asse portante di una rinnovata strategia partecipativa delle lavoratrici e dei lavoratori. Una iniziativa che si intreccia alle vertenze per i rinnovi contrattuali, e alle proposte di legge di iniziative popolare che presenteremo nelle prossime settimane. Senza dimenticare che il salario minimo e il reddito di cittadinanza devono essere anch’essi parte di una proposta adeguata alla sfida del tempo presente.

Una iniziativa che si accompagna al nostro protagonismo nel percorso della Via Maestra che tornerà in piazza a Napoli il 25 maggio.

La demercificazione del lavoro è andata insieme alla democratizzazione della società. Il lavoro libero e dignitoso è il lavoro che ha voce e che può esprimersi.

Su questo si basa l’identità del sindacato, le strategie della trasformazione sociale, le vie dell’emancipazione e della liberazione della persona che lavora, incrociando temi e questioni centrali per la nostra storia e cultura politica, come appunto quelle di autonomia, autogoverno, democrazia radicale. Un investimento straordinario nella partecipazione diretta dentro e fuori i luoghi di lavoro.

Si tratta di parole-chiave e idee-forza che rimandano a una visione della democrazia che non si esaurisce nella delega, ma che ha nella partecipazione attiva e nell’autodeterminazione dei soggetti la propria linfa vitale. La democrazia continua della nostra Carta costituzionale che non a caso ha previsto all’articolo 39 un modello sindacale ispirato anche a questi principi. Una democrazia che è opposta al modello dello Stato fascista ma distante anche dallo Stato liberale. Una democrazia fondata appunto sul lavoro e sull’allargamento degli spazi di partecipazione.

Solo se si riparte dal lavoro e dalla sua rappresentanza democratica potremo imprimere un cambiamento profondo nel nostro modello sociale ormai insostenibile. Se non si riparte dal lavoro questo non avverrà, e le elezioni politiche stanno qui a dimostrarcelo. Siamo ormai subissati da analisi dettagliatissime dei flussi elettorali ma il dato più importante, il dato più grave è quello dei 16 milioni di italiani che non sono andati a votare nel 2022, 10 milioni in più del 1992, quando avevamo una platea elettorale di un milione e mezzo di aventi diritto più alta di oggi. 18 milioni se si considerano le schede bianche e nulle. Prima della vittoria delle destre spicca un’altra sconfitta, quella della partecipazione democratica.

La politica ha cancellato il lavoro dalla sua agenda da molti anni assecondando la deriva di un modello sociale plasmato sull’idea che tutto può essere ridotto a merce, a partire dalla vita che si esprime nel lavoro, passando per l’istruzione, la salute e l’ambiente. In questo, la sinistra politica ha una responsabilità specifica, avendo scelto di allontanarsi dalle vicende del lavoro salariato da molto tempo, quando prevalse l’idea che il vero obiettivo risiedesse nella conquista del governo a prescindere dai programmi. Ciò che nelle prime pagine di quella che è l’apice della sua raffinata riflessione politica, La città del lavoro, Trentin aveva definito come il trasformismo della sinistra. Ma da quel libro sono passati 30 anni.

Il vantaggio di confrontarci con la storia è che da essa apprendiamo che è però imprevedibile.

Certamente se osserviamo il processo di costituzionalizzazione del nostro Paese o meglio dell’adeguamento progressivo di istituzioni e strutture sociali ad alcuni dei principi della Carta del 1948 vedremo come questo compromesso rappresenti quanto di più avanzato si potesse sperare dal punto di vista delle persone che per vivere devono lavorare. Ma le stesse lotte sociali del decennio 1964-1974 non erano prevedibili.

Il fatto che l’uomo non sia più il costruttore della storia unico e onnipotente non significa che debba subirne leggi imperscrutabili.

La profonda accelerazione tecnologica, l’interconnessione istantanea, la capacità di elaborare quantità di dati impressionanti hanno già avuto e sempre più avranno conseguenze enormi sul lavoro. Così come i cicli economici e gli equilibri geopolitici.

Oggi siamo molto più vicini agli anni Cinquanta che alla stagione della costituzionalizzazione del lavoro. Questo non lo considero un avanzamento, tutt’altro. Ma non c’è nulla di determinato.

Ricostruire la partecipazione democratica dentro e fuori i luoghi di lavoro per restituire al lavoro la piena cittadinanza politica diventa quindi centrale. Un lavoro che deve necessariamente fare i conti con il salto epocale che stiamo vivendo. In questa idea lineare della storia, tipicamente occidentale si colloca anche quella di un progresso che ci permetterà di continuare a vivere, produrre e consumare grazie all’avanzamento della ricerca scientifica e tecnologica. Così eviteremo la catastrofe climatica. Un tentativo in malafede e disperato di rinviare la messa in discussione definitiva di un modello di produzione e consumo insostenibili, rilegittimato e rilanciato dalla guerra e dal conseguente processo di militarizzazione a cui stiamo assistendo.

Oggi sul clima e sulla guerra si gioca la vera partita tra autoritarismo e democrazia. Solo quest’ultima, rinnovata, radicalizzata, radicata nuovamente nei territori e nei luoghi di lavoro e di studio può salvarci. Le decisioni dall’alto producono effetti solo se si legano alle mobilitazioni dal basso. Anzi è dal basso ora che vengono le uniche soluzioni.

Pensiamo al caso straordinario di Civitavecchia, dove in maniera chiara è emersa dal basso e con il contributo della CGIL la cosiddetta “giusta transizione” nella vicenda della Centrale elettrica di Torrevaldaliga Nord.

La storia del movimento sindacale si è fondata, nella sua cultura maggioritaria per lungo tempo sull’idea di un progresso lineare che le forze del lavoro sapranno e dovranno portare avanti più e meglio dei padroni, il progresso inteso come crescita e redistribuzione.

Oggi non è più quel tempo. Oggi il cambiamento climatico, cioè l’aumento esponenziale delle temperature, con effetti devastanti a partire dalla desertificazione di zone sempre più ampie del pianeta, avrà effetti crescenti sul lavoro.

Allora cosa bisogna fare? Non crescere più ma redistribuire? Certo. Ma soprattutto bisogna allargare la sfera dei beni comuni, che vanno sottratti alla compravendita e al mercato. Riportando il valore delle cose al valore d’uso.

La cultura, i beni ambientali, la salute ma dico anche il lavoro vanno redistribuiti e demercificati riportandoli a ciò che sono: parte della vita umana, e del mondo della vita di ognuno, che non è fatta appunto per essere venduta ma senza partecipazione democratica questo non accadrà.

*Francesco Sinopoli è il presidente della Fondazione Di Vittorio.

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Un commento a “Democratizzare il lavoro per democratizzare la società”

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