Interventi
Partiamo dalla cultura politica, il tema che sta al cuore della nostra sperimentazione editoriale, oltre che politica. DINAMO ritiene che molte delle categorie proprie della sinistra siano ormai ferri vecchi: le forme della rappresentanza, il modo di intendere il lavoro e i suoi diritti, il rapporto tra territorio e politica, la questione del welfare. Quali sono a tuo avviso gli elementi culturali e politici della sinistra che sopravvivono alle ultime disfatte elettorali?
La sinistra dovrebbe gridare sui tetti le proprie ragioni. Solo qualche anno fa sembrava normale che la superpotenza portasse la guerra nelle lande più desolate del mondo. Quanti apologeti ci hanno spiegato che era una cosa utile, etica e democratica! Oggi è sotto gli occhi di tutti il fallimento di quella volontà di potenza, anche se non sanno come uscirne.
La crisi economica mondiale ha intaccato l’armamentario ideologico costruito in un trentennio di egemonia liberista. Perfino alcuni esponenti della mitica scuola di Chigago ora ci spiegano che hanno preso un abbaglio. Fa impressione vedere l’inceppo della finanza. Chi l’avrebbe detto che il turbo-capitalismo si sarebbe arenato sul vecchio sogno piccolo borghese della casetta in proprietà. Chi l’avrebbe detto che le Partecipazioni Statali sarebbero rinate a Wall Street. Chi l’avrebbe detto che gli Usa vacillassero a causa di 5 milioni di americani insolventi perché impoveriti dalle stesse politiche liberiste.
E poi ancora, l’allarme sul futuro della terra; fino a qualche anno fa era argomento di minoranze e oggi è al primo punto dell’agenda nei vertici mondiali.
La sinistra ha avuto tante ragioni, anche se spesso non ci ha creduto. La destra ha avuto torto, ma riesce a capovolgerlo a suo favore, come si vede in tutta Europa.
Quali sono, piuttosto, gli elementi che invece non funzionano più?
La parola sinistra ha un significato instabile e relativo. Ha sempre bisogno di aggettivi per qualificarsi e infatti negli ultimi anni c’è stato un fiorire di definizioni: democratica, sociale, radicale, riformista, sommersa; ma sono tautologie, perché non si da una sinistra che, pur in diversa misura, non sia tutte queste cose. D’altro canto non si sono ancora trovati i sostantivi in grado di sostituire parole impegnative come comunismo e socialdemocrazia. Inoltre, storicamente la parola sinistra indica un posizionamento rispetto alla destra, addirittura nei banchi del Parlamento, e quindi può essere compresa solo per il ruolo che svolge in questa relazione.
La cultura di sinistra è intrappolata in un guscio moderno-borghese costituito da rappresentanza, diritti, crescita e welfare. Sono conquiste mirabili, frutto di un conflitto e poi di un compromesso tra il movimento operaio e la borghesia che percorre tutto il novecento. La sinistra ne è stata protagonista e oggi quindi non riesce a congedarsi da quel paradigma, né tanto meno a reinterpretarlo nel secolo appena cominciato. La destra, invece, è stata una forza di resistenza di quel compromesso e proprio per questo è più pronta a cogliere le dinamiche post moderne che ne mettono in discussione i pilastri: populismo contro costituzionalismo, rendita contro produzione, egoismo contro solidarietà, appropriazione privata contro beni collettivi. Negli anni Novanta la sinistra si è illusa di poter estendere il paradigma borghese-moderno nella globalizzazione. Gli anni Duemila, al contrario, hanno mostrato il lato oscuro della mondializzazione: la guerra preventiva, il rifiuto dei migranti, la crisi economica, la polverizzazione del sociale. Così è avvenuto il passaggio dall’Europa dei governi di sinistra al trionfo dei governi di destra. Ho l’impressione che il berlusconismo sia un’interpretazione più avanzata e non più arretrata di questa rottura. Ormai il Cavaliere ha segnato quasi un ventennio di storia nazionale. Per una vecchia abitudine azionista siamo portati a vederlo come un segno dell’arretratezza italiana, ma forse l’analogia con la storia nazionale è da rintracciare, al contrario, in una sorta di invenzione maligna, cioè una capacità di cogliere il nuovo tramite il suo lato oscuro. Come fu appunto il fascismo, un movimento di avanguardia che l’Italia seppe esportare nel mondo. L’analogia è molto più profonda di come la può rappresentare il dipietrismo o una certa invettiva di tipo giornalistico. Anche la estrema reattività che c’è in Europa verso Berlusconi dipende forse da un inconsapevole timore che quel modo di fare politica possa riguardare anche loro e che l’Italia possa di nuovo esportare un’invenzione maligna. In Francia c’è un dibattito sul Sarkoberlusconismo.
Questa forma politica si misura con le pulsioni più profonde dell’uomo globalizzato: il rancore e il desiderio. Può non piacerci, ma la destra risponde a modo suo con messaggi rozzi e talvolta inquietanti ma connessi allo spirito del tempo: la xenofobia, la rivolta fiscale, un certo sovversivismo populista, il perbenismo religioso e nel contempo l’edonismo televisivo, la promessa velinara alla nuove generazioni.
Al contrario, proprio la condizione esistenziale dell’uomo postmoderno sfugge alla sinistra, al suo linguaggio ormai disincarnato, al suo ripiegamento metodologico, alla sua astrattezza kelseniana, al suo universalismo esangue. E’ un mondo culturale che io considero, bada bene, una base minima essenziale, ma anche un armamentario incapace da solo di battere la destra.
Lo stendardo borghese-moderno è diventato un blasone decadente di fronte alla ruvidità del postmoderno. La sinistra si trova nella stessa condizione della vecchia cultura degli aristocratici romani ormai travolta dall’ascesa del cristianesimo. Mario Tronti ci ricorda una bella citazione dal De Reditu di Rutilio Namaziano: “gli uomini di fede sono feroci e gli uomini del dubbio sono stanchi”.
Eppure la sinistra avrebbe qualcosa di meglio da dire sul rancore e sul desiderio. Potrebbe dare risposte più pregnanti di quelle offerte dalla destra. In fondo quei sentimenti interpellano un mestiere antico e ormai dimenticato della sinistra, cioè la capacità di dare un orizzonte allo spaesamento e di cogliere la domanda di libertà che promana dalla trasformazione sociale. Da qui passa la possibilità di abbandonare gli aggettivi e di tornare ai sostantivi, per dirla ancora al modo di Tronti.
In che modo, attraverso quali strumenti, ricostruire una cultura politica all’altezza delle sfide del presente? Ancora, quale rapporto tra politica istituzionale e movimenti sociali?
Scusa.. ecco, mi sono ripreso.. ero caduto a terra per la difficoltà della tua domanda. Dunque, cerchiamo almeno di confinarla per renderla più abbordabile. Provo a rispondere limitando l’argomento alla questione urbana, che è sempre una limitazione creativa per il pensiero politico.
Le sue categorie nascono dall’idea stessa di città. La cultura democratica ricongiunge la politica alla polis e quindi alla sua rappresentazione architettonica che è l’agorà. Tutto ciò discende da una poderosa tradizione intellettuale che ha elaborato un’interpretazione romantica della grecità. Ma la cultura antica aveva una visione molto più problematica del nesso polis-politeia, meno rotonda e più spigolosa, meno univoca e più controversa, meno pacificata e più conflittuale.
Il mito fondante del politico non è solo la piazza della polis periclea, ma è il dramma tra nomos e ghenos che si svolge ai piedi delle mura di Tebe quando Antigone esce dalla polis per seppellire il corpo di Polinice, ubbidendo alla legge di natura contro il decreto di Creonte. E ancora più esplicitamente le mura si contrappongono all’agorà come simbolo del politico in un potente frammento eracliteo: “il popolo deve combattere per il nomos come per le mura della città”.
Bisogna attingere a questa grecità del polemos, liberarsi dall’idealizzazione liberale dell’antico, se vogliamo elaborare i paradigmi politici adatti al nostro tempo. Oggi serve a poco la piazza per capire le metropoli globalizzate, e infatti usiamo spesso un ossimoro parlando di agorà telematica. È molto più penetrante l’immagine delle mura, proprio perché non esistono più come elemento fisico, se non come spettro che l’archeologia preserva nella nostra vita quotidiana. Eppure, proprio in virtù di tale smaterializzazione le mura diventano una forza immanente nelle relazioni sociali e culturali. Sono le mura invisibili della città contemporanea: da un lato il confine si allunga nei grandi spazi mondiali; d’altro canto il confine diventa interno al tessuto urbano e denota le differenze tra le etnie, i ceti sociali, le generazioni, i gruppi di interesse. La destra ha capito con istinto animalesco la centralità delle mura – la contraddizione in termini è significativa – e la declina nell’ossessione securitaria, che porta a costruire recinti in ogni dove, di condominio, di quartiere, di periferie, di nuove baraccopoli. La sinistra ha il terrore di fare i conti con la figura delle mura e si salva l’anima con l’abuso della parola integrazione, un lessico emblematico del linguaggio astratto che la fa sentire estranea.
D’altro canto, consentimi caro Francesco, anche voi dei centri sociali per cercare una significatività di sinistra pagate il prezzo di una radicale riduzione all’interno di un confine, seppure di una comunità elettiva, come dite con bella espressione, anch’essa però esposta ad un’idealizzazione.
Le mura sono essenziali per una cultura politica all’altezza delle sfide del presente. Qui si annodano tante questioni, le mura ci ricordano anche un altro carattere originario della città come macchina spazio-temporale, come luogo che limita lo spazio per rendere commensurabili le relazioni temporali tra le persone. Ho l’impressione che anche questo carattere sia oggi fonte di molte contraddizioni. Le due dimensioni tendono a separarsi e a irrigidirsi reciprocamente. Da un lato il tempo si accelera nelle reti lunghe della conoscenza e della comunicazione globalizzata, il mondo a portata di mano non solo in internet, ma negli stili di vita, nella finanziarizzazione dell’economia, nell’azione criminale, nella sensibilità artistica, perfino nei sapori. D’altro canto, lo spazio si confina e risucchia la sfera morale, riportando l’etica al significato originario di ethos, che è appunto nicchia, perfino tana. Da qui la forza irrefrenabile dei tanti leghismi che picchettano la superficie liscia della globalizzazione.
Si formano così due grandi famiglie di conflitti, quelli temporali e quelli spaziali. I primi seguono il verso del globale e i secondi agiscono come suo contrasto; i primi liberano energie e i secondi le trattengono; i primi sono escatologici e i secondi katechontici. Potremmo dire che la globalizzazione ottimistica degli anni novanta era di tipo escatologico-temporale, quella ruvida degli anni duemila è stata kathecontico-spaziale. Le diverse forme e gradazioni che assume questa scissione spazio-temporale modellano l’organizzazione sociale, i rapporti tra gli individui e la stessa condizione esistenziale delle persone. Alle estremità si trovano da un lato le élite sovranazionali che vivono quotidianamente con la testa nel mondo e dall’altro i poveri cristi sempre più attaccati al suolo come ad una zattera spersa nell’oceano. Il territorio sembra diventare un cleavage più importante del vecchio conflitto di classe. Ma quella scissione arriva perfino a risuonare nell’animo delle persone, producendo esiti a volte anche contrapposti, dal malessere dello spaesamento alla creatività dello spirito glocal.
Questa scissione spazio-temporale offre molte opportunità al sorgere di movimenti di vario tipo, di destra e di sinistra, ma rende molto più difficile la loro stabilizzazione. Anche per la politica riformistica è difficile muoversi in quel crepaccio. Qui c’è una difficoltà tutta contemporanea. In fondo la città industriale è stata fonte di grandi conflitti, ma anche di una loro composizione. E questo è stato vero per i movimenti, pensa alle grandi lotte popolari, non di classe, per la casa e per i servizi sociali. Ma è stato vero anche per il riformismo; il welfare è nato nelle politiche statali ma si è concretizzato essenzialmente nell’urbano, con le politiche sociali volte a conciliare la produzione con la riproduzione. Ecco la novità, oggi la metropoli non riesce a comporre i conflitti, è un luogo di scissione a partire dal suo carattere originario spazio-temporale, è lacerata tra escathon e katechon, produce glamour per l’élite sovranazionale e disperazione nei suoi servitori, è il nodo della rete del capitalismo cognitivo e la nicchia della rendita immobiliare, è la fabbrica del lavoro creativo e il mercato delle braccia senza diritti, è lo stile di vita aperto al mondo e il muro di contenimento dello straniero.
Questa scissione è appunto una difficoltà sia per i movimenti sociali sia per le politiche istituzionali e soprattutto per il rapporto tra questi due momenti. Questa è la domanda che mi facevi e ti ho saputo rispondere solo sull’incognita del problema. Aggiungo però che ho sempre avvertito l’urbano anche come una potente riduzione di complessità. In fondo, i problemi di cui stiamo parlando sono generali e riguardano l’epoca, però se li osserviamo nell’urbano assumono una certa concretezza. La città è fatta di pietre e di persone, porta con sé una materialità e una corporeità che fa scendere in terra il pensiero. La politica urbana è quindi un buon esercizio per la cultura di sinistra, serve a curare la malattia che ne ha sfigurato il volto lasciando piaghe profonde: le idee disincarnate e le politiche sradicate.
Dovremmo fare sempre un esercizio di pensiero nel cercare un riferimento urbano alle analisi della società, anche quando si tratta di fenomeni immateriali. Se penso ad esempio alla mutazione dei modi di vita degli italiani nell’ultimo trentennio, due caratteri vengono subito in evidenza: l’immaginario televisivo e la forma delle città. Noi le chiamiamo ancora con i nomi storici – Roma, Milano, Napoli – ma ad essi corrispondono oggetti geografici molto diversi dal passato. Intorno ai nuclei antichi che portano il nome sono cresciute le galassie urbane, più o meno dense, di insediamenti discontinui e disordinati, distese anonime di villette e capannoni, non più campagna e non ancora città. E’ lo sprawl italiano che mutua dal modello americano una forma insediativa del tutto estranea alla storia nazionale. Se la tana dell’animale dice molto sulla forma di vita, tutto ciò denota forse un cambiamento antropologico dell’homo italianus. Questo territorio per frammenti che si ripetono tutti uguali, pur con impercettibili differenze, mi fa sempre pensare alla serialità televisiva, ai racconti senza fine che fecero la fortuna della televisione commerciale trent’anni fa. La città infinita si disperde in tanti episodi, proprio come la fiction televisiva. Così, nella profonda periferia la massaia con il televisore sempre acceso trova nell’ultimo puntata di Beautiful un’inconsapevole traccia simbolica del luogo seriale in cui si trova a vivere.
C’è un tratto comune in questa bulimia televisiva e urbanistica? E’ una sorta di incontinenza italiana, è la difficoltà di contenere in un racconto la trasformazione fisica e sociale. Di nuovo, una difficoltà a trattenere. Tra i due movimenti fondamentali di cui abbiamo parlato prima, quello più critico oggi è il katechontico, la capacità cioè di custodire in un ordine la potenza postmoderna. Quando si realizza tale capacità è sempre un momento mirabile in cui si manifesta una certa sacralità della vita associata. Ma proprio qui è invece la penuria dei nostri tempi.
Per la mia generazione l’ordine sacro era attuare la Costituzione, come forma sociale e democratica di custodia dell’escathon repubblicano nato nella Resistenza. Oggi tutto ciò è uno stendardo che innalziamo per fermare le orde barbariche. Qui è la forza della destra postmoderna italiana, corrodere qualsiasi deposito dell’ordine sacro e sostituirlo con l’ordine profano, o addirittura pagano nella versione leghista, della doppia morale tra edonismo televisivo e ideologia del Dio, Patria e Famiglia. Al contrario, per la sinistra l’ordine si è cristallizzato in un normativismo che la porta a scansare sia il sacro sia il profano.
Contro la serialità della politica e della città mi sembra utile il proposito della vostra rivista, indicato nell’editoriale di Franco Piperno, di un linguaggio più teatrale che cartaceo-televisivo. In fondo nell’azione teatrale ci sono in embrione le soluzioni a questi problemi: una rappresentazione che custodisce la storia in una scena, il tempo trattenuto in un racconto e soprattutto gli attori che diventano protagonisti. Dovremmo ripensare al teatro politico di Erwin Piscator, da dove provengono sia Döblin con il primo romanzo metropolitano tedesco (Berlin Alexanderplatz) sia Gropius con la Siedlung, l’ultimo tentativo del modernismo di trattenere i nuovi insediamenti in città, prima che vincesse l’esplosione nello sprawl.
Mi fermo qui, le provo tutte, ma non riesco a rispondere compiutamente alla tua domanda, se non per frammenti, anch’essi seriali.
Arriviamo a Roma. Per molti anni sei stato una figura decisiva dell’amministrazione della città, con le giunte Rutelli e Veltroni. Come leggi la debacle elettorale della primavera del 2008? Come si è esaurito a tuo avviso un ciclo di governo così lungo e potente?
Noi nel 93 abbiamo fatto una rivoluzione. Tu sei giovane e forse non ricordi la tristezza della Roma della fine degli anni ottanta che di quel decennio controverso aveva preso il peggio, l’affarismo romanesco dell’ultima Dc di Sbardella senza la modernità postindustriale della Milano craxiana. Noi abbiamo “rimesso al mondo” Roma, nel doppio senso, da un lato di benessere metropolitano di cultura e sviluppo e dall’altro di apertura alle mutazioni della società della conoscenza e della globalizzazione che proprio in quegli anni andavano affermandosi.
Ho ancora un ricordo emozionante di quell’inizio. Tangentopoli era stata come un bombardamento selettivo, la città era la stessa di prima, ma erano scomparse come d’incanto tutte le lobbies, i poteri più o meno trasparenti, le sanguisughe dell’assistenzialismo pubblico. Ci trovammo davvero in una situazione magica di governo civico con un rapporto diretto tra amministrazione e cittadini, come non era mai accaduto prima e come non accadrà più. Fu un periodo molto breve, non più di due anni, poi gradualmente i poteri reali si ripresero dallo sbandamento e ricominciarono a tessere la tela soffocante intorno al governo municipale. Quando ci ripenso provo anche un dolore per le occasioni perdute e gli errori commessi in quel breve momento in cui era concesso alla politica di scrivere il progetto come in un foglio bianco.
L’ingenuità e la passione portano sempre i giacobini – sì, noi lo eravamo – verso quei fallimenti che vengono strumentalizzati dal Termidoro per stabilizzare il potere rivoluzionario. Il trionfo giubilare alla fine degli anni novanta segna l’affermarsi di una classe dirigente che ha già perso la furia innovatrice. Poi questo processo prevede sempre l’avvento di Napoleone che trasforma la rivoluzione mediante un racconto popolare della modernizzazione. E proprio il rapporto stretto tra narrazione e governo negli anni duemila ha portato il centrosinistra al punto più alto del successo. Lì nasce però quell’irresistibile senso di imbattibilità che di solito precede Sant’Elena e il ritorno della Santa Alleanza. Così i mediocri sovrani dell’Ancien Regime vengono rimessi sui troni, senza alcun merito. La Restaurazione si riprende il potere ma non riesce mai a fermare la diffusione degli ideali rivoluzionari, per questo molte idee del nostro quindicennio torneranno in campo nei prossimi anni.
Quando rifletto a volo d’uccello su questo ciclo penso che in fondo siamo caduti su un problema classico: come si trattiene una rivoluzione in un nuovo ordine. Di nuovo, ci ha fatto difetto il katechon.
Le amministrazioni di Centro-sinistra, in particolare la giunta Veltroni, in alcune fasi, hanno dichiarato di investire sulla partecipazione dei cittadini e delle realtà sociali alle decisioni politiche, soprattutto in materia urbanistica. Sembrava quasi che Roma potesse essere un laboratorio avanzato nell’apertura delle istituzioni ai cittadini e ai movimenti. Invece, alla fine del ciclo, ha prevalso il legame con i poteri forti della città e i cittadini e i movimenti si sono sentiti beffati. Il centro-sinistra dovrebbe fare autocritica sotto questo profilo?
Col passare del tempo il giudizio su Veltroni troverà una misura. È stato troppo osannato negli anni del successo e troppo svalutato nel tempo della sconfitta. Proprio perché non ho mai partecipato a questi eccessi credo di poter dire che è stato non solo un grande sindaco, ma l’unico esponente del centrosinistra che nel quindicennio ha cercato di sfidare Berlusconi nel suo punto di massima forza ovvero nell’elaborazione dell’immaginario collettivo. Ha cercato un luogo del comune dopo la frantumazione sociale, lo ha cercato in una sorta di forza morale contro l’egoismo, dal Colosseo illuminato contro la pena di morte, ai viaggi della memoria ad Auschwitz con gli studenti, fino alle piccole storie di civismo del quartiere. Su questo ha costruito una narrazione che sosteneva i singoli atti amministrativi e nel contempo rendeva più esigente la domanda di beni comuni.
Ma Roma non poteva essere una repubblica autonoma, anzi nel frattempo nel suo corpo sociale si accentuavano le lacerazioni prodotte dalle tendenze generali, in particolare l’impoverimento del ceto medio, la precarizzazione del lavoro e il primato delle rendite. A causa di tutto ciò tra le domande della città e le risposte dell’amministrazione si è acuito uno scarto sempre meno colmabile dalla narrazione civica. Tuttavia Veltroni ha ottenuto ampio consenso perfino nelle elezioni del 2008. La sua vera sconfitta si è consumata quando non è riuscito a trasformare la narrazione civica in un racconto sull’Italia.
Non ci è riuscito, ma ha provato a fare popolo, a unire istanze diverse intorno ad un’immagine comprensiva del bene comune, in contrasto di contenuti – sebbene non di forma – col populismo berlusconiano. Però noi di sinistra spesso ci laviamo la coscienza nel dileggio del populismo e passiamo oltre, come se il problema del popolo non riguardasse anche noi.
Il popolo non esiste in natura, è sempre una costruzione politica composta di idee, di azioni, di messaggi e di forme organizzative. Finché la sinistra non saprà fare popolo a modo suo continuerà a essere subalterna al populismo della destra. Il veltronismo è stato la ricerca di una forma politica postnovecentesca della sinistra. Merita almeno di essere menzionato come insuccesso. D’altronde molte conquiste novecentesche sono state frutto di sconfitte metabolizzate.
Se mi consentite un paragone azzardato, anche la vostra ricerca parte dall’assunto che le categorie della sinistra sono ormai ferri vecchi, come mi dicevi nella prima domanda. E allora se devo cercare una eco del vostro ragionamento nel campo riformista lo trovo più in Veltroni che in altri leader del centrosinistra. Questo era il senso di una battuta che Tronti fece a un vostro convegno qualificandovi come una forma di veltronismo antagonista. Era una critica affettuosa, per me era anche un complimento.
La tua domanda però riguardava anche la questione urbanistica e non voglio sottrarmi, anzi la ritengo la nota dolente del nostro quindicennio. Non siamo riusciti a scalfire la logica espansiva che ha segnato per quasi un secolo la trasformazione di Roma. Con il linguaggio nuovo del policentrismo si è continuata la vecchia disseminazione di quartieri isolati nell’agro, senza effetto città. Non a caso proprio nelle zone extra-gra il centrosinistra ha pagato un pesante prezzo elettorale scendendo a percentuali del 30-40% di tipo meridionale. Sarebbe stata necessaria una discussione critica e a promuoverla dovevamo essere proprio noi che abbiamo avuto responsabilità di governo, ma purtroppo non c’è stata questa disponibilità. E’ il sintomo di una mancata elaborazione del lutto da parte della nostra classe dirigente. Per parte mia ho condotto un’analisi severa della politica urbanistica dell’intero quindicennio in un libro (Avanti c’è posto, Donzelli, 2008) scritto insieme con un maestro della nostra generazione come Italo Insolera. Da giovani, leggendo il suo Roma moderna imparammo a conoscere la forza della rendita nel modellare gli assetti fisici, sociali e politici della capitale. Eppure i protagonisti di quelle speculazioni erano personaggi di mezza tacca, i palazzinari furbi e arroganti immortalati dalla frase “A Fra che te serve”.
Oggi il fenomeno assume ben altra portata. Nel turbocapitalismo la rendita immobiliare diventa parte integrante della valorizzazione finanziaria costituendo un’unità organica, la così detta economia di carta e di mattone. L’immobiliare diventa la prosecuzione della finanza con altri mezzi e questo ne fa un catalizzatore del processo economico, non più un fattore di arretratezza come era ritenuto, ancora nella fase industriale, perfino dai sinceri liberali. E tutto ciò fa impallidire il vecchio sogno riformistico del patto tra produttori basato sull’illusione di poter separare la rendita dal profitto. Ormai il mattone partecipa da protagonista al più generale primato della rendita nello sviluppo capitalistico.
Infatti, con l’ascesa della finanza la rendita ha sopravanzato il profitto e lo ha intrappolato nella propria logica. Il profitto è tale in quanto entra in un prodotto finanziario. E questa subordinazione diventa ancora più forte per il lavoro. Nella ripartizione della ricchezza l’aumento più forte è andato a favore della rendita, poi del profitto e il tutto a discapito dei redditi da lavoro. Nella regolazione dei processi e nell’allocazione delle risorse la componente finanziaria è diventata il dominus rispetto all’economia reale.
D’altronde, come spesso accade, il nuovo contiene una rielaborazione dell’antico. Infatti, la novità della finanziarizzazione consiste nel ritrovare un collegamento con l’atto originario dell’appropriazione capitalistica, a lungo dissimulato dall’economia classica e consumato non a caso nel campo della proprietà immobiliare. L’accumulazione originaria nasce infatti nel momento in cui si recintano i terreni liberi formando così la rendita assoluta; in seguito si afferma il mercato che cerca di far dimenticare nell’equilibrio concorrenziale quella prepotenza iniziale. Oggi, con il dominio della rendita finanziaria e immobiliare il capitalismo torna al primato del possesso sulla produzione. Le transazioni finanziarie sono molto più eteree e sofisticate dell’atto di recintare un terreno, ma l’atteggiamento è il medesimo.
Il recintare è un atto fondativo non solo per l’economia ma anche per la politica. Il nomos viene da nemein che significa appunto dividere un pascolo, e da qui discende, secondo la classica lettura schmittiana, una categoria fondamentale del politico. Più semplicemente, basta aver visto un film western per sapere che quando si recinta un terreno si forma una rendita e allo stesso tempo si crea un nemico.
Il capitalismo finanziario risveglia questi fenomeni primordiali e rilancia il momento dell’appropriazione come terreno comune tra l’economia e la politica. Il primato della rendita porta con sé un potere costituente. Per questo la forma capitalistica contemporanea è accompagnata da una formidabile verticalizzazione del potere in tutti i campi, nello Stato, nella società e perfino nell’impresa.
Ecco di questo mi interessa discutere con voi, caro Francesco. Per studiare questi fenomeni, infatti, mi sono risultate molto utili le analisi di Uninomade condotte da economisti critici come Vercellone e Marrazzi, di casa nei vostri dibattiti. Non voglio sminuire le responsabilità soggettive, ma non possiamo neppure limitare l’analisi alla solita figura del tradimento da parte dello stato maggiore. Ci sfuggirebbe la forza impressionante che la rendita immobiliare va assumendo nella vita urbana.
Cosa sta cambiando con la giunta Alemanno? Quale modello di governance ritieni si stia affermando?
Alemanno è un piccolo sindaco, molto al di sotto delle capacità che pure aveva mostrato come dirigente politico nazionale. Si vede che non ha passione per il ruolo che svolge. Si vede che non era preparato a vincere. Finisce per dare ragione all’ultimo che parla, asseconda tutte le richieste delle mille corporazioni romane, ripete stancamente i riti del vecchio governo sbardelliano, a volte richiamando in servizio perfino gli stessi politicanti e lo stesso ceto professionale. E’ un modo di governare che la vecchia classe dirigente conosce molto bene, ha il sapore antico dei bei tempi andati, è il luogo naturale della governance romana. Rispetto a questo modello Rutelli e Veltroni hanno operato in discontinuità, sempre con un progetto in testa; nonostante le critiche che si possono fare questa differenza è forte e sarà sempre più evidente nei prossimi anni.
Ma la questione che mi brucia di più è l’insediamento che la destra ha saputo costruire nella periferia romana. È un processo iniziato quasi trenta anni fa, ma solo negli ultimi anni si è consolidato e ciò ha conferito un carattere più strategico alla nostra sconfitta. Una volta c’era la cintura rossa della periferia, oggi le nostre roccaforti sono nei quartieri della borghesia colta come Monteverde. Il gradiente elettorale è ormai un’illustrazione geografica del ragionamento che facevo all’inizio sull’intrappolamento della sinistra nel paradigma borghese-moderno.
Mi ha colpito una frase di Walter Siti, sottile conoscitore dei quartieri più duri, rappresentati con particolare crudezza nel suo romanzo neopasoliniano Il contagio: “non riesco a immaginare un borgataro riformista”. Quando ho letto questa frase ho avuto un moto di ripulsa, ma poi mi sono abituato e ne ho compreso il senso. C’è una barriera di linguaggio, di argomenti, di stili di vita che impediscono alla politica riformista di parlare al disagio della periferia. Tema complesso che non saprei sviluppare andando oltre il titolo. C’è però un aspetto parziale che mi incuriosisce. E ormai diventato un luogo comune dire che la destra ha vinto sulla sicurezza. E’ vero, ma dice poco. Non coglie una contraddizione clamorosa; che cos’è questa domanda d’ordine che viene da quartieri cresciuti senza alcun ordine? Per come conosco la periferia romana non saprei immaginare un altro luogo tanto segnato da comportamenti anarchici e irregolari. Non dimentichiamo che, ad esempio, circa 800 mila romani vivono in abitazioni costruite illegalmente, è la più grande conurbazione abusiva d’Europa.
Tutta l’organizzazione civile è basata sull’assenza di regole e perfino lo stile di vita nelle situazioni più estreme raccontate da Siti presenta un’impronta amorale. La destra segue come un guanto le pieghe di questa contraddizione, assecondando ogni forma di comportamento irregolare e nel contempo offrendo una falsa coscienza del bisogno d’ordine tramite l’ideologia securitaria e apertamente xenofoba. Allo straniero si chiede di rispettare tutte le regole che non sono mai state rispettate dagli autoctoni. Al contrario, la sinistra prende in faccia come una sberla entrambi i lati di quella contraddizione, apparendo debole di fronte all’immigrazione e petulante nel rispetto delle regole dell’organizzazione civile. I politici di sinistra vanno in borgata a parlare di buoni sentimenti, di regolamenti amministrativi e quando volano alto affrontano addirittura le riforme istituzionali. L’universalismo esangue e il formalismo giuridico impediscono di capire e tanto meno di agire sulla forma di vita della borgata. Di nuovo, incontriamo il problema dell’ordine, del katechon. La destra sembra capace di trattenere lo spaesamento della borgata globalizzata; la sinistra offre una mera custodia amministrativa a quel malessere.
Ritieni che il tema del welfare locale, dalla formazione al reddito, dal diritto all’abitare alla mobilità, possa essere il terreno sul quale ricostruire un’opzione politica di opposizione in grado di ribaltare il dato elettorale del 2008?
Con il quindicennio non solo si è chiuso un ciclo politico ma si esaurita anche l’ambigua modernizzazione romana. Abbiamo celebrato con orgoglio la crescita del Pil senza capirne i processi fondamentali. E’ reale, ad esempio, la crescita di una galassia di piccole imprese nei servizi innovativi, ma nella maggior parte dei casi sono nate dalle commesse dei ministeri, degli enti locali, delle strutture sanitarie e soprattutto delle grandi aziende pubbliche, le quali, pur affrontando le privatizzazioni, hanno mantenuto ampi margini di monopolio; pensiamo al ruolo di Telecom, Alitalia, Rai, Capitalia, Enel, Finmeccanica, Fs, Eni. La competizione mondiale ha costretto questi gruppi a esternalizzare molti servizi e da questo grande outsourcing sono nate le imprese del terziario avanzato.
Lo sviluppo di Roma nel quindicennio è stato una sorta di Minotauro, metà new-economy e metà old-economy. La nuova economia romana è un fenomeno reale, ma la sorgente del processo è collocata nella vecchia economia dei monopoli e del mattone.
Il vero cambiamento, però, non ha riguardato il lato della produzione, ma quello del consumo. E’ sorta sul Gra ad opera di investitori stranieri una corona di grandi centri commerciali, uno tra i più potenti sistemi della grande distribuzione italiana. La vecchia rete dei piccoli negozi ha reagito con la specializzazione merceologica e l’innalzamento di qualità. Non a caso la Camera di Commercio è stato il soggetto più dinamico. Ma non è stato solo un fenomeno economico, ha riguardato gli stili di vita e il senso comune dei cittadini. Pensiamo all’abitudine ormai consolidata in tante famiglie romane di passare l’week-end nei grandi centri commerciali non solo per fare shopping, ma per adagiarsi sulle tendenze del momento, scoprire nuovi sapori, vedere un film, sentire musica e partecipare a nuove forme di socialità. I romani hanno dimostrato di essere consumatori scaltri di fronte alle offerte innovative del mercato. Basti pensare al successo di Ikea che in pochi anni ha dovuto raddoppiare gli spazi espositivi. Di questa vivacità si è accorto il marketing e non a caso il dialetto romano è entrato proprio in questi anni di prepotenza nelle grandi campagne pubblicitarie, da Bonolis, a Proietti, Amendola, fino a Totti. La cadenza romana, per tanto tempo considerata volgare, è diventata invece uno stile della comunicazione nazionale della postmodernità.
Alla rivoluzione dei consumi hanno contribuito fortemente la cultura e lo spettacolo e questa componente è stata intercettata alla grande dalla politica comunale. Il punto più alto di quell’esperienza è stato certamente l’Auditorium, divenuto in poco tempo il migliore esempio italiano e in una certa misura europeo di organizzazione culturale.
I grandi cicli storici dello sviluppo urbano hanno sempre realizzato architetture capaci di cogliere lo spirito del tempo: dalla cattedrale gotica del basso medioevo al boulevard ottocentesco, a volte anche in negativo, come le borgate del fascismo o i palazzi della Magliana della speculazione del dopoguerra. Anche il quindicennio del centrosinistra è stato un formidabile ciclo si sviluppo della città. Quali sono state le sue cattedrali gotiche? Certo l’Auditorium di Renzo Piano; però anche gli ipermercati a forma di scatolone hanno lo stesso diritto di rappresentare il nostro tempo. Con una differenza fondamentale, la sinistra conosce bene il popolo che frequenta l’Auditorium, sa leggere in anticipo le sue tendenze, ma sa ben poco degli umori del popolo degli ipermercati.
Ora piove sul bagnato, all’esaurimento di quel ciclo economico si aggiunge la crisi mondiale; a pagare il prezzo è sopratutto la periferia, non solo quella territoriale, ma anche quella sociale cresciuta con le tante forme di precarizzazione del lavoro. La destra è appagata dalla presa del potere, non si occupa della crisi e ha ormai dimenticato le tante promesse elettorali. Sarebbe il momento che entrasse in campo un ampio e radicato movimento di opposizione alla giunta Alemanno. Per la sinistra romana è l’occasione buona per riguadagnare terreno in periferia, cominciando ad intaccare il blocco elettorale della destra. Ma la lotta non basterà, serve anche un nuovo progetto di sviluppo per la città, non solo per riconquistare la credibilità come forza di governo ma anche per incontrare gruppi sociali interessati al cambiamento.
L’ambigua modernizzazione lascia sul campo anche una massa di lavoratori di buona qualificazione, con attitudini creative e già esperti di servizi innovativi; sono sopratutto giovani che hanno lavorato con contratti aleatori, spesso in condizioni quasi servili, o si sono cimentati in forme nuove di lavoro autonomo. Sono i primi a pagare la crisi con l’espulsione dal ciclo produttivo. E invece bisogna rimettere a lavoro proprio queste figure se davvero si vuole rimettere in moto l’economia e quindi ottenere un beneficio per tutte le altre figure sociali. Non c’è sviluppo ormai per Roma se non punta sui settori innovativi. Proprio qui però si tocca con mano la difficoltà. Spenti i motori dell’ambigua modernizzazione, sia l’outsourcing dei monopoli pubblici sia la trasformazione dei consumi, oggi viene a mancare proprio la domanda di innovazione. Questa parola campeggia nella convegnistica della capitale ma è assente nella sua struttura economica, non viene spontaneamente dal tessuto produttivo. Occorre quindi creare tramite le politiche pubbliche la domanda di innovazione e questo si può fare solo mettendo al centro la cura dei beni comuni, il ripensamento del welfare la qualità dei grandi servizi comuni. Come dici tu la politica della mobilità, della casa, dell’ambiente e della formazione possono cogliere contestualmente due obiettivi: mettere a frutto le risorse e le competenze delle nuove generazioni e nel contempo innalzare la qualità della vita associata. Ciò richiede l’elaborazione di un progetto di governo per la capitale e nel contempo l’attivazione di esperienze sociali e l’invenzione di nuove politiche adatte a tali compiti: ma di tutto ciò avremo altre occasioni per parlarne. Bisogna uscire da vecchi paradigmi, appunto come dice il vostro nome, premere il tasto Esc.

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