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Differenziazione e diseguaglianze: il regionalismo asimmetrico nella Repubblica una e indivisibile

Pubblicato il 5 Luglio 2020
Studi e ricerche

Foto di Rebecca Matthews da Pixabay

Relazione introduttiva all’Incontro del Gruppo San Martino “Autonomie territoriali e garanzia dei diritti sociali: la differenziazione e i suoi limiti”, Università degli Studi di Perugia, 8 novembre 2019. Pubblicato sul numero 1/2020 di “Istituzioni del Federalismo“.

1. Alcuni assiomi del regionalismo italiano da ribadire

L’insostenibile mutevolezza che sin dalla sua costituzionalizzazione subisce il principio autonomistico impone di non smettere di richiamare alcuni capisaldi del regionalismo italiano, cominciando da quanto previsto dai principi fondamentali della Costituzione nella loro interconnessione1. Apparentemente superfluo è ricordare che il regionalismo rappresenta di per sé riconoscimento di differenze di fatto2 e promozione della differenziazione dell’indirizzo politico3 tra le diverse autonomie regionali che, con proprie leggi approvate dalle loro istituzioni rappresentative, adattano alle specifiche esigenze della comunità e del territorio i principi fondamentali delle materie posti dalla legislazione statale a tutela dell’unità e indivisibilità della Repubblica.

Il riparto di competenza legislativa di tipo concorrente tra Stato e Regioni rappresenta, infatti, il perno di un sistema delle autonomie che converge – nei pur fisiologici conflitti – con l’indirizzo politico statale al fine di consen-tire a tutti gli enti della Repubblica di concorrere all’individuazione dell’interesse nazionale. Proprio la competenza legislativa concorrente, con la sua peculiare sinergia tra i principi della materia posti dallo Stato e le norme di dettaglio di predisposizione regionale, costituisce l’emblema di un’idea di autonomia territoriale quale co-protagonista dell’individuazione dell’interesse nazionale, in un’ottica di coesione fondata sulla consapevolezza dell’interdipendenza, su vincoli reciproci: ciascun ente della Repubblica concorre al perseguimento dell’interesse pubblico, con la mediazione ma anche con il contenzioso davanti alla Corte costituzionale, nel nome della Nazione e dei suoi interessi nel suo insieme. La compartecipazione di tutti i legislatori alla disciplina di una data materia, infatti, esprime plasticamente l’idea della consapevolezza dell’interdipendenza tra gli enti nell’individua-zione dell’interesse nazionale, composto da norme uniformi nei suoi principi e da norme di adeguamento alle singole realtà sociali, politiche e territoriali. Si tratta di un’idea positiva di autonomia, di segno diverso da un’au-tonomia basata sulla pretesa di non intromissione da parte dello Stato4.

Questa è l’idea di autonomia della nostra Costituzione5 e infatti nel 2001, nonostante l’inversione del riparto competenziale tra Stato e Regioni, si mantiene intatta la centralità della competenza concorrente, quale baricentro dell’equilibrio tra autonomia e unità e indivisibilità della Repubblica.

In secondo luogo, la differenziazione prevista in Costituzione per riconoscere e promuovere le «esigenze dell’autonomia» ex art. 5 è strettamente connessa a tutti gli altri principi fondamentali con cui la Costituzione segna in modo irrevocabile la nostra Repubblica. Tra gli altri principi fondamentali è in particolare quello di uguaglianza ex art. 3 della Costituzione a indicare la direzione di senso dell’autonomismo ex art. 5: gli obiettivi ultimi del principio di eguaglianza sostanziale – il pieno sviluppo della personalità di ciascuno e l’effettiva partecipazione di tutti alla vita economica, politica e sociale del Paese – sono il collante che consente alla Repubblica di essere una e restare indivisibile, di rendere permanente il processo di unificazione nazionale tramite la lotta alle diseguaglianze tra persone, tra gruppi e tra territori. Il superamento delle diseguaglianze richiede differenziazione, infatti, in base alle diverse ca-pacità e ai particolari bisogni. Il regionalismo, dunque, è una forma di Stato ontologicamente basata sulla differenziazione, che costituisce un modo di essere della Repubblica una e indivisibile dal punto di vista sia formale sia sostanziale, perché concorre alla coesione sociale del popolo italiano6. Non a caso si parla di Stato sociale delle autonomie: in base al nostro art. 5 Cost., le autonomie sono lo strumento del perseguimento del principio di uguaglianza sostanziale, e non leve per la rottura del patto di solidarietà nazionale, così come viceversa la lotta alle disegua-glianze richiede interventi diseguali.

Ne discende un ulteriore corollario: il processo di continua integrazione nazionale tramite il livellamento delle diseguaglianze presuppone l’adempimento dei «doveri inderogabili di solidarietà economica, politica e sociale» previsti dall’art. 2 della Costituzione e, dunque, soltanto un regionalismo con veste solidaristica può operare da forte collante dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica. L’unità nazionale, intrinsecamente «poliedrica e molteplice»7, non può essere data una volta per tutte perché richiede un permanente processo di unificazione della società basato sulla solidarietà8. La sostanza della consapevolezza dell’interdipendenza, dunque, impone esercizio permanente di solidarietà.

Qualunque approfondimento in senso competitivo del nostro regionalismo, invece, mortificherebbe la sua dimensione solidale producendo una violazione della Costituzione9. Questo perché l’ultimo assioma che caratterizza il tipo di regionalismo ammesso dalla nostra Costituzione consiste nella prevalenza orientativa10 nell’interpretazione, con particolare riferimento al Titolo V11, della lettura congiunta dei richiamati artt. 2, 3 e 5 Cost.

Quel che progressivamente sta emergendo, invece, è il grave travisa-mento dell’idea costituzionale di autonomia, confusa con e sovrapposta all’indipendenza, alla separatezza, all’autosufficienza dal resto della Nazione, invece di venire correttamente intesa come autogoverno nella consapevolezza dell’interdipendenza tra gli enti della Repubblica nel suo insieme. A favorire la trasfigurazione del concetto stesso di autonomia sta intervenendo un dibattito pubblico dedicato alla “autonomia” per alludere alle «ulteriori forme e condizioni particolari» di autonomia consentite dal terzo comma dell’art. 116 Cost., che sembrerebbe corrispondere a un’accezione meramente negativa di autonomia12.

2. Dalla differenziazione alle asimmetrie

Il citato terzo comma dell’art. 116 è una disposizione introdotta con la legge di revisione costituzionale n. 3 del 2001 che prefigura la possibilità di un regionalismo “asimmetrico” nelle fisiologiche differenziazioni13: mentre fino al 2001 il regionalismo consentiva la differenziazione tra Regioni dotate di identiche competenze, da allora tale differenziazione può essere asimmetrica perché tale disposizione consente che il quadro posto dallo Stato non sia più unitario, ma differisca in relazione a sin-gole Regioni14 per le venti materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni e altre tre materie che la Costituzione affida a titolo esclusivo allo Stato all’art. 117 Cost. Il terzo comma dell’art. 116, dunque, contempla ben ventitré materie devolvibili a titolo esclusivo alle Regioni mentre, ai sensi del secondo comma dell’art. 117, lo Stato resterebbe titolare, una volta sottratte le tre citate, di quattordici materie esclusive.

La devoluzione in massa di tutte le materie15 cui rinvia il terzo comma dell’art. 116 e, per di più, nella loro (indefinibile peraltro) interezza significherebbe per singole Regioni sopprimere la competenza concorrente e configurare una Regione che legifera e amministra “a titolo esclusivo”16 un numero di materie maggiore di quelle che, sempre a titolo esclusivo, spettano allo Stato. Tale ipotesi restituisce chiaramente l’idea del rifiuto di ogni forma d’interdipendenza, di collaborazione e sinergia tra Regione e Stato, dal momento che l’esercizio esclusivo delle materie presuppone una netta separatezza tra Stato e Regione ed esprime una pretesa di autosufficienza della Regione che ripudia l’esercizio continuo di interdipendenza richiesto dalla competenza concorrente con lo Stato. Se la competenza legislativa concorrente rispecchia relazioni istituzionali di convergenza verso l’unità e l’integrazione, quella esclusiva è in qualche modo autoreferenziale e spinge nel lungo periodo nella direzione della separazione degli interessi, sordi alle esigenze dell’interesse nazionale. Peraltro l’interesse nazionale si nutre di politiche pubbliche complesse difficilmente scomponibili in singole materie, attribuite a un ente o all’altro. Ciò è ben deducibile dalla stessa giurisprudenza costituzionale che, infatti, per risolvere i casi di “intreccio di materie” ha escogitato il principio della materia prevalente, in base all’obiettivo che la politica pubblica intende perseguire.

Il criterio della prevalenza della materia, accanto alla “chiamata in sussidiarietà” a favore dello Stato e all’elaborazione della trasversalità di materie di competenza esclusiva statale e financo della concorrente mate-ria del “coordinamento finanziario”, rientra tra i meccanismi di effettivo riaccentramento della generosa attribuzione di materie alla competenza regionale avvenuta nel 2001. Si tratta di meccanismi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale a fronte dell’esercizio espansivo delle competenze statali, che testimonia come, a prescindere dalle maggioranze politiche al Governo, lo Stato abbia complessivamente agito per contenere gli spazi di autonomia regionale. Se la restrittiva interpretazione, finora prevalente, del riparto costituzionale delle competenze legislative può animare le richieste di autonomia simmetrica17, è pur vero che l’esperienza storica appena richiamata potrebbe far prefigurare una nuova stagione di conflittualità tra Stato e “Regione asimmetrica” per contenere quanto eventualmente riconosciuto con le intese. Questa ipotesi, che non appare affatto inverosimile, vanificherebbe gli sforzi compiuti per diminuire, dopo quasi vent’anni, i giudizi in via diretta tra Stato e Regioni18.

Per tali ragioni di fondo è da escludersi che sia legittima la devoluzione in blocco delle materie a una singola Regione19, così come la devoluzione di qualunque materia senza una motivazione specifica e sottoponibile a verifica di razionalità20, come anche la devoluzione di alcune materie intrinsecamente non affidabili per intero a una Regione21. Appare difficile, ad esempio, capire che tipo di «coordinamento finanziario» – materia di competenza concorrente finora intesa dalla stessa giurisprudenza costituzionale come materia quasi esclusiva statale perché capace di “attraversare” ogni competenza regionale – possa disciplinare e organizzare la singola Regione. In base, dunque, a una lettura sistematica è doveroso delimitare non solo il numero ma anche la dimensione, con operazioni di ritaglio, delle materie indicate tramite mero rinvio dall’art. 116, comma 3. È stato dimostrato, infatti, che anche nel caso dell’Emilia-Romagna, che richiede meno materie, la devoluzione di attribuzioni sarebbe comunque imponente e destabilizzante22.

Sotto questo profilo si rende necessario un approfondimento, se non un chiaro e netto revirement, della stessa giurisprudenza costituzionale sul tema, che al momento si limita alla sentenza n. 118 del 2015 con la quale la Corte costituzionale ha ritenuto legittimo il quesito referendario con cui la Regione Veneto ha chiesto agli elettori, imitata dalla Lombardia, se fossero d’accordo a richiedere «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia». Sebbene mancasse «qualsiasi precisazione in merito agli ambiti di ampliamento dell’autonomia regionale su cui si intende interrogare gli elettori», la Corte costituzionale si limitò a constatare che tali ambiti «possano riguardare solo [corsivo nostro]» le materie di competenza legislativa concorrente, di cui all’articolo 117, terzo comma, della Costituzione nonché 
le materie di potestà legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma) organizzazione della giustizia di pace (lett. l)), norme generali sull’istruzione (lett. n)), tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (lett. s)): secondo la Corte, «così interpretato, il quesito referendario non prelude a sviluppi dell’autonomia eccedenti i limiti costituzionalmente previsti [corsivo nostro]»(sent. n. 118 del 2015).

Dopo lo svolgimento del referendum, in un contesto in cui neanche l’ordinario riparto costituzionale delle competenze è pienamente rispettato – in particolare tramite i meccanismi di riaccentramento delle competenze, già citati, avallati dalla Corte costituzionale – il Veneto ha richiesto di assumere a titolo esclusivo tutte e ventitré le materie, la Lombardia poco meno e sedici l’Emilia-Romagna.

La Corte costituzionale, dunque, deve essere sollecitata a precisare che quel “solo” riferito alle materie cui rinvia il terzo comma dell’art. 116 intendeva semplicemente delimitare il novero delle materie entro le quali è possibile richiedere – e soltanto con specifiche e singole argomentazioni fondate sull’interesse dell’intero sistema delle autonomie – forme ulteriori di autonomia. Più in generale la giurisprudenza costituzionale dovrebbe chiarire che l’autonomia, per quanto asimmetrica, non può configurarsi come forma dissimulata di quell’indipendenza che, peraltro, la Regione Veneto non escludeva affatto. Nella citata sentenza del 2015, infatti, la Corte ha dichiarato illegittima la legge regionale che prevedeva «un referendum consultivo per conoscere la volontà degli elettori del Veneto sul seguente quesito: “Vuoi che il Veneto diventi una Repubblica indi-pendente e sovrana? Sì o No?”». A giudizio della giurisprudenza costituzionale tale quesito suggeriva «sovvertimenti istituzionali radicalmente incompatibili con i fondamentali principi di unità e indivisibilità della Repubblica, di cui all’art. 5 Cost.» perché «il pluralismo sociale e istituziona-le e l’autonomia territoriale (…) non possono essere estremizzati fino alla frammentazione dell’ordinamento [corsivo nostro]».

Questa illegittima pretesa si cela in qualche modo nelle forme concre-te che sta assumendo la diretta applicazione del regionalismo asimmetrico? Tale domanda risulta legittima davanti a richieste così radicali ed estreme, calandosi nello specifico contesto istituzionale nel quale si è dato avvio alla configurazione asimmetrica del regionalismo.

3. Un contesto già scomposto: anzianità di residenza sul territorio per escludere il resto della Nazione che dal Sud si sposta al ricco Nord che, però, soffre guardando al benessere delle Regioni speciali

Se in seguito alla riforma del Titolo V lo Stato ha tentato di riaccentrare le competenze legislative costituzionalmente attribuite alle Regioni, non ha però esercitato i propri compiti principali: da un lato, definire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali; dall’altro, stabilire le forme di «perequazione senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante» (art. 119, comma 3) e le «risorse aggiuntive» e gli «interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni» per «promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei di-ritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale eserci-zio delle loro funzioni» (art. 119, comma 5).

L’assenza di ogni opera e azione di redistribuzione è avvenuta in un contesto in cui, soprattutto in seguito alla crisi cominciata nel 2008, lo Stato ha operato tagli di spesa con drammatiche ricadute sulla capacità degli enti territoriali di erogare i servizi e le prestazioni di cui sono responsabili. Si sono in tal modo messi a repentaglio diritti quali i servizi sociali, l’abitazione, l’assistenza sanitaria, l’istruzione, la formazione e l’inserimento al lavoro, che rendono la «cittadinanza regionale» protagonista della dimensione «sostanziale» della cittadinanza23.

Proprio il ridimensionamento dell’autonomia di spesa delle Regioni è una delle cause della diffusa tendenza a ridurre la platea dei beneficiari delle prestazioni in base alla c.d. residenza di lungo periodo sul territorio della Regione: con tale criterio si sono introdotte discriminazioni nel godimento dei diritti fondamentali ai danni di tutti coloro che non fossero “corregionali di lungo corso”. Queste politiche di esclusione dei cittadini (e ancor di più dei non-cittadini) che non siano originari della singola Regione esprimono chiaramente una forma di separatezza e isolamento dal resto della Nazione24: in tal modo si trasfigura l’articolazione del popolo in sua frammentazione25. Lo ha ben colto la Corte costituzionale che, a proposito del criterio dell’anzianità di residenza per l’accesso alle prestazioni sociali, ha dichiarato che «le norme che introducono tale requisito (…) implicano il rischio di privare certi soggetti dell’accesso alle prestazioni pubbliche solo per il fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare Regione di residenza» ex art. 120 Cost. (sent. n. 107 del 2018).

Questa scomposizione della comunità nazionale perseguita da molte Regioni, soprattutto del Settentrione, tramite il criterio della residenza di lungo periodo nel territorio regionale per l’accesso alle prestazioni sociali, si inserisce peraltro in una dinamica delle migrazioni interne interamente orientata dallo spostamento di popolazione dal Sud verso il Nord dell’Italia26. Questa ripresa dell’abbandono del Meridione a favore del Nord è determinata dall’aggravamento del divario territoriale del Paese27 dovuta, non solo all’assenza di politiche di perequazione territoriale, ma addirittu-ra ad un malinteso federalismo fiscale che ha consentito una spesa pubblica di vantaggio e privilegio per chi risiede al Centro-Nord28.

Eppure le Regioni del Nord toccano con mano il ben più significativo privilegio goduto dai loro vicini: le Regioni a Statuto speciale non insulari con cui confinano29. La differenza di qualità della vita, ben più di squisite questioni culturali, sembrerebbe essere alla base del fenomeno delle «migrazioni»30 di loro Comuni verso le confinanti specialità31. Si tratta di microsecessioni mosse dal desiderio di godere della notevole percentuale di compartecipazione al gettito erariale in quelle Regioni garantita32.

A ciò devono aggiungersi i censurabili – e, infatti, censurati – «atteggiamenti dilatori, pretestuosi, ambigui, incongrui o insufficientemente motivati» (sent. n. 103 del 2018) attribuiti alle Regioni speciali per contenere il loro contributo al processo di necessario risanamento dei conti pubblici33. Questo contenzioso peraltro dimostra quanto la garanzia dell’accordo bilaterale di cui godono le specialità possa essere abusata, mettendo in guardia rispetto a un’applicazione diretta del regionalismo dif-ferenziato basato sull’intesa con la singola Regione.

4. Quando rivendicare asimmetria significa pretendere diseguaglianze

Appare significativo che proprio sulla percentuale del gettito eraria-le, che qualifica in modo saliente la condizione delle specialità, verteva l’altro quesito referendario approvato con legge dalla Regione Veneto: si intendeva chiedere ai veneti se volessero “trattenere” sul territorio regionale otto decimi del gettito delle compartecipazioni erariali. Nella sentenza n. 118 del 2015 la Corte costituzionale spiega chiaramente che tale ipotesi avrebbe illegittimamente comportato «la distrazione di una cospicua percentuale dalla finanza pubblica generale, per indirizzarla ad esclusivo vantaggio della Regione (…) e dei suoi abitanti (…) incide[ndo] (…) sui legami di solidarietà tra la popolazione regionale e il resto della Repubblica».

Da questo passaggio si deduce che la pretesa di trattenere tale quota della tassazione dello Stato avrebbe spezzato l’unità nazionale che si nutre dei doveri inderogabili di solidarietà, così come la dichiarazione di indipendenza avrebbe violato il principio di unità e indivisibilità della Repubblica ex art. 5 Cost.: è contra Constitutionem, dunque, sia la secessione34 territoriale che quella sostanziale di parte del popolo sovrano dai doveri di solidarietà nazionale.

La Regione Veneto, tuttavia, in seguito al referendum continuava a rivendicare con determinazione un «diritto alla restituzione»35 della ricchezza prodotta sul proprio territorio che alimenterebbe un «esorbitante residuo fiscale» a proprio svantaggio perché la pubblica amministrazione regionale disporrebbe, per l’erogazione di servizi ai cittadini residenti, meno di quanto ricavato dal prelievo fiscale in Veneto. La sentenza n. 83 del 2016 della Corte costituzionale, tuttavia, aveva già chiarito che «il parametro del “residuo fiscale” non può essere considerato un criterio specificativo dei precetti contenuti nell’art. 119 Cost., sia perché sono controverse le modalità appropriate di calcolo del differenziale tra risorse fiscalmente acquisite e loro reimpiego negli ambiti territoriali di provenienza, sia perché “l’assoluto equilibrio tra prelievo fi-scale ed impiego di quest’ultimo sul territorio di provenienza non è un principio espresso dalla disposizione costituzionale invocata” (sentenza n. 69 del 2016)».

A ben vedere il criterio della territorialità regionale del gettito, così come il criterio della residenza prolungata nella Regione per accedere ai servizi pubblici, esprime l’idea “prima noi corregionali, poi gli altri”, in chiara violazione del principio di uguaglianza tra le persone a prescindere da dove vivano sul territorio nazionale. Per di più, con l’avvio dell’applicazione diretta del regionalismo asimmetrico si è avuto modo di verificare l’infondatezza delle lamentele della Regione in base a una più attenta valutazione della spesa pubblica allargata, facendo emergere viceversa un’ingiustificabile disparità di trattamento ai danni delle Regioni del Sud. In questa direzione deve leggersi, infatti, l’introduzione della c.d. “clausola del 34% al Sud” per allineare progressivamente gli investimenti pubblici alla consistenza della popolazione ivi residente36. Ciò nonostante, a conferma del carattere sostanzialmente secessionista delle richieste avanzate in seguito ai referendum regionali per l’applicazione del terzo comma dell’art. 116, la deliberazione del Consiglio re-gionale Veneto n. 155 del 15 novembre 2017 chiedeva per esercitare le competenze richieste in devoluzione «le seguenti quote di comparteci-pazioni ai tributi erariali: nove decimi del gettito dell’Irpef, nove decimi del gettito dell’Ires, nove decimi del gettito dell’imposta sul valore aggiunto (Iva)». Si tratta di una quota persino superiore a quella degli otto decimi giudicata già incostituzionale della Corte nel 2015!

Il 28 febbraio 2018, il dimissionario Governo Gentiloni firma tre pre-in-tese con le Regioni Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna dove – accan-tonata l’ipotesi della “restituzione” del “residuo fiscale” – si prevedeva un meccanismo di trasferimento delle risorse ancorato a quella “spesa storica” di cui si è appena disvelata la gravissima sperequazione. Secondo le bozze di intese firmate il 4 marzo 2019 dalla Ministra per gli affari regionali del nuovo Governo nel frattempo insediatosi, il passaggio dalla spesa storica ai costi e ai fabbisogni standard, non solo sarebbe stato affidato a una commissione paritetica intergovernativa soltanto dopo l’approvazione della legge che recepisce l’intesa ma, qualora questi non fossero stati stabiliti entro tre anni, si sarebbe applicato alle Regioni interessate il “privilegio fiscale” della garanzia della spesa media pro capite a danno delle altre, data l’invarianza supposta della spesa pubblica totale. Gli stessi fabbisogni standard, inoltre, sarebbero stati «calcolati tenendo conto anche del gettito fiscale regionale; e fatto comunque salvo l’attuale livello dei servizi (cioè prevedendo variazioni solo in aumento). Il gettito fiscale non è stato sinora mai considerato nei complessi calcoli dei fabbisogni standard per i Comuni, collegati sempre e solo alle caratteristiche territoriali e agli aspetti socio-demografici della popolazione. Rapportare il finanziamento dei servizi al gettito fiscale significa stabilire un principio estremamente rilevante: i diritti di cittadinanza, a cominciare da istruzione e salute, possono essere diversi fra i cittadini italiani; maggiori laddove il reddito pro-capite è più alto»37. Nelle ipotesi oggi in discussione, sebbene si sia fatta strada la consapevolezza della necessità di stabilire perlomeno i Lep e comunque i servizi uniformi su tutto il territorio, nelle more si consentirebbe di procedere comunque alla devoluzione in base alle «risorse a carattere permanente iscritte nel bilancio dello Stato a legislazione vigente»: formula non chiara che, tuttavia, ricorda da vicino la spesa storica38. È legittimo devolvere tutte le competenze rivendicate cristallizzando l’iniqua ripartizione della spesa pubblica sulla base dell’ingiusta sperequazione finora seguita, nella speranza che prima o poi si riesca a ricalibrare il riparto delle risorse pubbliche su criteri meno stridenti con il principio di uguaglianza? Si ricorda che il principio autonomistico avulso dall’orizzonte della solidarietà implica o comunque rischia di ridursi a mera competizione e petizione di indifferenza per la sorte altrui, con la pretesa di praticare indipendenza mascherata da autonomia.

Se il principio autonomista è, come credo, strettamente connesso agli obiettivi scolpiti nell’art. 3, le forme con cui si è attivata l’applicazione diretta del regionalismo differenziato sembrano, quindi, del tutto divergenti dall’accezione di autonomia che considero coerente con la nostra Costituzione39. Il concetto di autonomia è stato mal interpretato dalle istituzioni e dalle forze politiche che hanno avviato e impostato il percorso di applicazione del terzo comma dell’art. 116 Cost. perché ha assunto una postura addirittura avversativa nei confronti del principio di eguaglianza sostanziale, mettendo in discussione l’unità e l’indivisibilità della Repubblica con forme di secessione sostanziale di parte del popolo sovrano dai doveri di solidarietà nazionale.

5. I rimedi

Prima di qualunque concreta applicazione, dunque, si avverte l’esigenza per lo meno di una legge di attuazione dell’art. 116, comma 3. In questa direzione si sta attivando il Governo in carica per superare «la prassi del tutto censurabile»40 precedentemente seguita. Per risolvere il problema che «la Costituzione si concentra solo sul momento finale» 41, laddove il terzo comma dell’art. 116 prevede che si approvi a maggioranza assoluta una legge sulla base dell’intesa tra Stato e Regione, tuttavia, non ritengo idonea una legge-quadro ordinaria42 di attuazione ma considero opportuna una fonte di rango costituzionale di integrazione del terzo comma dell’art. 116: norme costituzionali che esplicitino limiti procedurali e di merito della devoluzione asimmetrica, che impediscano che l’art. 116 sia interpretato e applicato in direzione avversativa dell’unità e indivisibilità della Repubblica43 e, per di più, in modo pressoché irreversibile. Ricordo, infatti, che la legge ex art. 116, comma 3, non solo non sarebbe modificabile senza il consenso della Regione interessata che concorda l’intesa con lo Stato, ma prevarrebbe, in quanto rinforzata, sulla precedente leggequadro di rango primario. L’oggetto stesso dell’intesa, vale a dire una deroga al riparto delle competenze legislative e delle risorse necessarie, è peraltro decisamente di rilievo co-stituzionale richiedendo, dunque, garanzie adeguate.

Le norme costituzionali integrative devono disciplinare i «principi» e i «metodi» ex art. 5 Cost. da seguire per evitare che, in nome dell’ autonomia e delle sue esigenze di interdipendenza, si persegua la separazione e l’isolamento dal resto della Nazione e, per di più, a spese della Nazione stessa. È in tali norme integrative, infatti, che vanno espressi i limiti costituzionali derivanti dai principi fondamentali della Costituzione, con particolare riferimento alla interconnessione rafforzativa tra principio autonomistico e quello di uguaglianza.

Il primo limite consiste nel subordinare ogni ipotesi di applicazione del comma terzo dell’art. 116 alla determinazione dei livelli essenziali e a interventi di solidarietà nazionale, propedeutici a qualunque opera di ulteriore differenziazione territoriale, pena l’insostenibilità delle diseguaglianze. Solo dopo che lo Stato avrà assolto a tali inderogabili compiti, si potrà discutere la devoluzione di singole materie, sulla base di insuperabili argomentazioni in termini di interesse pubblico generale. Inoltre, il Parlamento, organo detentore del potere legislativo in devoluzione, deve essere il vero dominus dell’accordo44 e, a tal fine, dovrà finalmente applicare quella norma di rango costituzionale (art. 11 del-la legge cost. n. 3 del 2001) che prevede la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli Enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali45. In tal modo il nostro potere legislativo, con le garanzie di pubblicità che gli sono proprie, potrà affrontare insieme con l’intero sistema delle autonomie la questione delle possibili asimmetrie, in considerazione dell’interdipendenza che esiste tra le varie autonomie. Intervenendo sul riparto di competenze tra Stato e Regioni, costituzionalmente previsto dall’art. 117, tali iniziative rientrano inoltre in quelle «materie costituzionali» che l’art. 72, comma 4, Cost. affida espressamente al procedimento ordinario dell’iter legis, con Commissioni parlamentari di settore che operano in sede referente.

Soltanto con queste garanzie procedurali potranno tutelarsi davvero le questioni di merito relative alla dimensione e al numero delle competenze e alle relative risorse.

L’asimmetria nella differenziazione – di per sé idea piuttosto radicale di regionalismo e potenzialmente molto debole dello Stato e del suo ruolo, tanto da non sopire contrarietà manifeste – interroga, infatti, direttamente il rapporto tra regionalismo e principio di eguaglianza. L’estremizzazione della visione binaria e per compartimenti stagni dello Stato e della singola Regione (con svilimento irreversibile delle autonomie come sistema) nelle reciproche attribuzioni comporta interventi massicci sulla distribuzione delle risorse pubbliche: quanta parte della spesa pubblica finanziata con tassazione erariale deve andare alla singola Regione con poteri asimmetrici rispetto alle altre Regioni?

È soprattutto sulle diverse risposte a quest’ultimo interrogativo che poggia la riflessione sul rapporto tra differenziazione e diseguaglianze: ulteriori divaricazioni nella distribuzione della ricchezza e nell’erogazione delle prestazioni pubbliche non possono che essere divisive, tradendo quella consapevolezza dell’interdipendenza che è alla base dell’accezione positiva di autonomia come motore e presidio dell’unità repubblicana e dell’interesse nazionale.

Non è questione di poco momento, come aveva ben colto Vandelli46, che nel suo ultimo contributo aveva tracciato una riflessione critica nella stessa direzione qui riproposta, considerando essenziale anche il coinvolgimento delle parti sociali: il suo insegnamento è che un vero e sincero autonomista ha a cuore l’unità della Repubblica e l’indivisibilità del popolo sovrano, dal punto di vista non solo formale ma anche sostanziale.

NOTE

(1) Si rinvia a G.C. De Martin, A voler prendere sul serio i principi costituzionali sulle autono-mie territoriali, Relazione conclusiva al Convegno Associazione italiana costituzionalisti su La geografia del potere: un problema di diritto costituzionale, Firenze, 16-17 novembre 2018, in Ri-vista AIC, 3, 2019.

(2) Cfr. R. Bin, La crisi delle Regioni. Che fare?, in Le Regioni, 2012, p. 735, che pone la questione: «o sono state le istituzioni regionali a produrre le differenze riscontrabili ad occhio nudo, oppure queste preesistono: ma allora l’autonomia deve essere la conseguenza della diversità».

(3) Secondo M.S. Giannini, Autonomia (teoria generale, diritto pubblico), in Enc. dir., IV, Mila-no, 1959, p. 366, l’autonomia è, infatti, per definizione «potere d’indirizzo politico perché la co-munità non emette che delle manifestazioni politiche, nel senso rigorosamente scientifico del termine». V. Crisafulli, Capacità giuridica attuale o virtuale degli enti regionali (1950), in Id., Prima e dopo la Costituzione, Napoli, Editoriale scientifica, 2015, p. 330, affermava che «la crea-zione dell’ordinamento regionale a me sembra significhi una nuova differenziazione territoria-le, per l’innanzi inesistente dal punto di vista giuridico, di certi interessi pubblici».

(4) Per la distinzione tra un’accezione positiva di autonomia e una sua concezione negativa si rinvia a O. Chessa, Autonomia negativa, autonomia positiva e regionalismo differenziato: co-me uscire dalla crisi del principio autonomista, inJ.M. CastellàAndreu, G. Rivosecchi, S. Pajno,G. Verde (a cura di), Autonomie territoriali, riforma del bicameralismo e raccordi intergover-nativi: Italia e Spagna a confronto, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018, p. 175 ss., secondo cui«l’autonomia negativa si realizza incrementando il numero di decisioni che un singolo ente può adottare singolarmente e quindi in modo potenzialmente differenziato da quello degli altri enti, invece l’autonomia positiva si valorizza aumentando il numero delle decisioni che i diversi enti prendono assieme».

(5) Per una ricostruzione del concetto di autonomia come consapevolezza dell’interdipenden-za si rinvia al mio L’autonomia e le sue esigenze, Milano, Giuffrè, 2018.

(6) C. Salazar, Territorio, confini, coordinate per una mappatura essenziale, in Rivista AIC, 3, 2017.

(7) F. Modugno, Unità e indivisibilità della Repubblica come principio, in Diritto e società, 1, 2011, p. 107.

(8) Secondo M. Luciani, Costituzione, istituzioni e processi di costruzione dell’unità nazionale, in Diritto e società, 1, 2001, p. 50, l’unità politica è un «processo (…) di natura dinamica e pro-blematica (…) un risultato (…) che non si costituisce solo grazie alla coabitazione di più indivi-dui sul medesimo territorio».

(9) Sotto questo profilo condivido l’analisi proposta da A. Piraino, Regionalismo differenziato: attuazione o cambiamento costituzionale?, in Diritti regionali, 2, 2019, p. 6, ma non le conclu-sioni cui l’A. perviene: «Se, viceversa, le scelte che si intendono fare si indirizzano verso forme di regionalismo competitivo è di tutta evidenza che si vuole dar vita ad un modello altro rispetto a quello costituzionale e quindi che ci si propone di riformare la nostra Costituzione nemmeno in punti periferici del suo ordito ma nel cuore delle sue opzioni di fondo come quella inerente, ad esempio, alla “forma di Stato”. Naturalmente, un’operazione come quest’ultima non sareb-be preclusa. Ma, trattandosi della revisione di punti qualificanti della Costituzione, non potreb-be mai essere effettuata con la procedura dettata dall’art. 116.3». A mio parere, invece, l’ipotiz-zata revisione costituzionale esorbiterebbe dai limiti che lo stesso potere di revisione incontra nei principi fondamentali.

(10) V. Crisafulli, Sull’efficacia normativa delle disposizioni di principio della Costituzione, 1948, ora in Id., Prima e dopo la Costituzione, cit., pp. 152-153, richiamava, oltre all’art. 3, anche l’art. 5 tra le disposizioni programmatiche, sottolineando anche che questo stabilisce «con efficacia immediata il principio fondamentale della struttura politica dello Stato oltre a quel principio delle autonomie lo-cali che sta alla base del Titolo V della seconda parte della Costituzione»: tra questi principi e le al-tre parti della Costituzione «non vi è soluzione di continuità, bensì sviluppo coerente e arricchimen-to» (p. 155). Sotto questo profilo non manca chi, come A. Morelli, Dinamiche del regionalismo diffe-renziato e declinazioni congiunturali dell’autonomia, in Diritto pubblico europeo, numero speciale2, 2019, Regionalismo differenziato o trasformazione della forma di Stato?, a cura di A. Lucarelli, A. Patroni Griffi, prospetti una questione di legittimità costituzionale della stessa legge di revisione n. 3 del 2001 proprio rilevando il contrasto tra principio unitario ex art. 5 e l’ampiezza delle forme di differenziazione consentite dal nuovo terzo comma dell’art. 116.

(11) B. Pezzini, Il principio costituzionale dell’autonomia locale e le sue regole, in B. Pezzini, S. Troilo (a cura di), Il valore delle autonomie: territorio, potere e democrazia, Napoli, Editoriale Scientifica, 2015, pp. XI-XXIX.

(12) In questo senso cfr. O. Chessa, Autonomia negativa, autonomia positiva e regionalismo dif-ferenziato: come uscire dalla crisi del principio autonomista, cit.

(13) Rispetto alla definizione offerta da L. Antonini, Il regionalismo differenziato, Milano, Giuf-frè, 2000, appare dunque più pertinente quella indicata da F. Palermo, Federalismo asimmetrico e riforma della Costituzione italiana, in Le Regioni, 2-3, 1997, pp. 291 ss.

(14) R. Bin, Le materie nel dettato dell’articolo 116 Cost., reperibile in robertobin.it, Lezione svolta al Seminario di Studi e Ricerche parlamentari «Silvano Tosi» – Corso di Diritto regionale, il 6 marzo 2019, pp. 2-3, sostiene che «se non ci fosse l’articolo 116.3, dovremmo seriamente riflettere se – in una realtà in cui le Regioni ordinarie sono fisicamente, idrogeologicamente, economicamente, demograficamente ecc. diverse come in Italia – sia costituzionalmente legittimo che a tutte si imponga lo stesso regime giuridico» e aggiunge che «bisognerebbe abolire la categoria delle Regioni ordinarie, perché contraria al principio di eguaglianza, dato che impone un regime uguale a realtà profondamente diverse».

(15) Questo è quanto è in discussione e seriamente preso in considerazione nel processo di diretta applicazione del regionalismo asimmetrico, con particolare riferimento alle pre-intese e alle bozze di intese con la Regione Veneto.

(16) Con l’espressione “a titolo esclusivo” non si intende aderire alla tesi (argomentata da A. Morrone, Il regionalismo differenziato. Commento all’art. 116, comma 3, della Costituzione, in Federalismo fiscale, 2007, p. 139 ss.) che davvero lo Stato in seguito alla devoluzione non po-trebbe “attraversare” la disciplina della materia per ragioni di unità giuridica ed economica, ma evidenziare che la ratio della richiesta di devoluzione è proprio quella di estromettere quanto più possibile tali interventi.

(17) Così M. Belletti, La differenziazione in Emilia-Romagna tra rispetto dell’equilibrio di bilancio e tenuta dei livelli essenziali concernenti i diritti civili e sociali su base nazionale, inAa.Vv., Regionalismo differenziato. Un percorso difficile, Atti del convegno “Regionalismo differenziato: opportunitàe criticità”, Milano, 8 ottobre 2019, in www.csfederalismo.it (http://www.csfederalismo.it/images/at-tachments/atticonvegni/UniMi-CSF_RegionalismoDifferenziato_Dic2019.pdf).

(18) Cfr. Relazione del Presidente Giorgio Lattanzi sulla giurisprudenza costituzionale del 2018, 21 marzo 2019, disponibile sul sito istituzionale della Corte costituzionale, p. 4.

(19) L. Vandelli, Il regionalismo differenziato, in Rivista AIC, 3, 2019, sosteneva che «l’art. 116, terzo comma, il quale non si presta e non si deve prestare a trasferimenti con l’attribuzione di intere materie nella loro interezza, nella loro generalità e vaghezza» e che, quindi, «non dobbiamo parlare di intere materie, di blocchi di materie, ma dobbiamo parlare di funzioni preci-samente individuate, individuando anche i margini, i vincoli e le relazioni con le discipline stabilite dallo Stato».

(20) La devoluzione di ogni singola materia, dunque, necessita di argomentazioni non generiche e di maniera come quelle indicate nelle pre-intese e bozze di intese quali «specificità proprie della Regione» e la funzionalità «alla sua crescita e al suo sviluppo» riferite peraltro all’insieme della materie devolute.

(21) Di «materie strutturalmente non devolvibili» parla M. Olivetti, Il regionalismo differenziato alla prova dell’esame parlamentare, in Federalismi.it, 6, 2019.

(22) In tale senso ha compiuto un’analisi comparata tra le tre bozze non ufficiali F. Pallante, Nel merito del regionalismo differenziato: quali «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» per Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna?, in Federalismi.it, 6, 2019.

(23) Questione che ho affrontato nel mio La cittadinanza sostanziale tra Costituzione e residenza: immigrati nelle Regioni, in Costituzionalismo.it, 2, 2012, pp. 1-26.

(24) Per una riflessione su «la selezione del demos per parti separate» cfr. F. Bilancia, Le forme della democrazia contemporanea e il germe della sua autodistruzione, inAa.Vv., Democrazia. Storia e crisi di una forma politica, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013, pp. 155-164.

(25) Come ho sostenuto nel mio Unità e indivisibilità della Repubblica: la sovranità popolare e l’interdipendenza nel nome della costituzione, in Costituzionalismo.it, 1, 2018.

(26) M. Colucci, S. Gallo (a cura di), L’arte di spostarsi. Rapporto 2014 sulle migrazioni interne in Italia, Roma, Donzelli, 2014.

(27) Come da anni dimostrano i Rapporti Svimez disponibili sul loro sito. Il Rapporto Economia e società del Mezzogiorno, 2019 dedica il primo capitolo a «Il Mezzogiorno nella nuova geografia europea delle disuguaglianze».

(28) Cfr. C. De Fiores, Note critiche sul federalismo fiscale, in Costituzionalismo.it, 1, 2009, ripubblicato e ampliato in Id., Le trasformazioni dello Stato regionale, Napoli, 2013, p. 231, parlava di «una vera e propria mannaia destinata ad abbattersi soprattutto sul meridione». V. il libro inchiesta di M. Esposito, Zero al sud. La storia incredibile (e vera) dell’attuazione perversa del federa-lismo fiscale, Soveria Mannelli, Rubettino, 2018.

(29) M. Bertolissi, La diaspora dei Comuni e l’esigenza di giustizia, in Federalismo fiscale, 6, 2007.

(30) A. D’Atena, Il territorio regionale come problema di diritto costituzionale (Dicembre 2008), Relazione al Convegno internazionale dal titolo “Le variazioni territoriali nello Stato composto”, Università di Padova – Sede di Rovigo, 23-24.4.2007, in Issirfa.cnr.it.

(31) F. Cortese, Alla ricerca della maggiore autonomia. Il caso Sappada e i problemi della montagna veneta, in Quad. cost., 1, 2018, p. 208 ss.

(32) E. Buglione, L’autonomia finanziaria come snodo dell’autonomia regionale?, in Issirfa.cnr.it, novembre 2016.

(33) Secondo la Corte costituzionale, sent. n. 103 del 2018, il principio di leale collaborazione tra enti richiede, invece, «un confronto autentico, orientato al superiore interesse pubblico»: «è evidente che la garanzia del metodo dell’accordo non può creare il paradosso di esonerare sostanzialmente queste ultime dall’obbligo, che pure grava su di esse, di contribuire al processo di necessario risanamento dei conti pubblici (…), con l’ingiusto risultato di accollare agli altri enti del livello regionale, che non godono di pari guarentigie di ordine statutario, l’onere di assicurare l’effetto finanziario complessivo perseguito dal legislatore statale».

(34) A proposito dell’applicazione diretta dell’art. 116, comma 3, usano la parola secessione, per quanto non territoriale, sia G. Viesti, La secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, Bari-Roma, Laterza, 2019 cheM. Villone, Italia, divisa e diseguale. Regionalismo differenziato o secessione occulta?, Napoli, Editoriale scientifica, 2019.

(35) Così lo ha definito il Presidente della Svimez, nell’audizione tenuta il 1 aprile 2019 presso la Commissione parlamentare per le questioni regionali sul tema del regionalismo differenziato.

(36) Per il principio del riequilibrio territoriale, l’articolo 7-bis del d.l. n. 243 del 2016 ha introdotto il criterio di assegnazione differenziale di risorse aggiuntive a favore degli interventi nei territori delle Regioni Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna. Norma rimasta inattuata, è stata modificata dalla legge di bilancio 2020, in modo da rendere davvero proporzionata alla popolazione l’assegnazione delle risorse individuate con maggior chiarezza.

(37) G. Viesti, La secessione dei ricchi, cit., 2019, p. 24.

(38) Ci si riferisce alla bozza di d.d.l. di attuazione del terzo comma dell’art. 116 Cost.

(39) M. Cammelli, Flessibilità, autonomia, decentramento amministrativo: il regionalismo oltre l’art.116.3 Cost., in www.astrid-online.it, maggio 2019, ne sottolinea la «pericolosità».

(40) L. Vandelli, Il regionalismo differenziato, cit.

(41) L. Vandelli, Il regionalismo differenziato, cit.

(42) Cfr. A. Morrone, Il regionalismo differenziato. Commento all’art. 116, comma 3, Cost., cit., p. 154, ha sempre sostenuto fosse opportuna, se non necessaria, una legge di attuazione dell’art. 116, comma 3. Si legga anche l’Appello di trenta costituzionalisti su regionalismo differenziato, ruolo del Parlamento e unità del Paese, in Federalismi.it, 6 marzo 2019. Sull’iniziativa governativa in questa direzione si rinvia all’addendum a F. Manganaro, Evoluzione e svilup-pi del policentrismo autonomistico fino al tempo del regionalismo differenziato, in questa Rivista, 4, 2019, p. 1023 ss.

(43) Si rinvia al mio L’attuazione del regionalismo differenziato esige norme costituzionali d’integrazione, in Costituzionalismo.it, 1, 2020, p. 117 ss.

(44) Appare affatto convincente l’interpretazione sostenuta da S. Mangiameli, L’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, con particolare riferimento alle recenti iniziative delle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, Indagine conoscitiva della Commissione parlamentare per le questioni regionali, Audizione del 29 novembre 2017, in Issirfa. cnr.it, 2017, della analogia con le intese che il Governo raggiunge con le confessioni religiosediverse dalla cattolica.

(45) In questa direzione sono molte le richieste; ex multis cfr. G.C. De Martin, A voler prendere sul serio i principi costituzionali, cit., p. 357, che aggiunge la necessità di «procedere celermente anche solo mediante una appropriata revisione dei regolamenti delle due Camere, in modo comunque da coinvolgere le rappresentanze di Regioni ed Enti locali nel complesso processo di attuazione del policentrismo, così facilitando tra l’altro la successiva applicazione delle riforme a livello regionale e locale».

(46) L. Vandelli, Il regionalismo differenziato, cit.

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