Queste Le seguenti riflessioni sono sostanzialmente tratte da un libro, in bozze, degli autori: Massimo Scalia, Massimo Sperini e Mauro Santilli. L’articolo è stato pubblicato il 25.02.2023 su Italia Libera.
Già una decina di anni fa rimanevo stupito, e preoccupato, per la desertificazione che stava subendo l’elettronica negli istituti scolastici superiori, statali e non. Perdita di strumenti, chiusura di laboratori, un progressivo rarefarsi e scolorire di competenze. La preoccupazione era, sostanzialmente, di “bottega”: avere nuove leve che continuassero il lavoro, fondato sull’uso di strumenti analogici, che avevamo intrapreso, decadi fa, per la progettazione di dispositivi di elettronica avanzata concepiti per rilevare soprattutto quelli che amo chiamare “extremely weak fields”. Così “estremamente deboli” da richiamare scarsa attenzione anche nel mondo scientifico, il cui mainstream sembra affascinato, si fa per dire, solo da effetti connessi ad alte “intensità”. Con conseguenze negative per alcuni aspetti che riguardano la salute. E questo dovrebbe interessare tutti. Ci torneremo. Ma la “desertificazione” sembra non riguardare solo l’elettronica, una situazione del tutto analoga la illustrava Vittorio Emiliani nel mondo del “nobile artigianato artistico”. E la sensazione, sgradevole, è che ci sia una perdita generale di competenze e abilità, in un mondo che sempre più si appoggia a quelli che Snow definiva i “saperi ignoranti”: la parcellizzazione del sapere, con quelli che “sanno tutto”, ma su striscioline sempre più esigue.
Insomma, con il trascorrere degli anni la conoscenza teorica e pratica dell’elettronica analogica in Italia si sta perdendo. L’insegnamento nella scuola media superiore e universitario ha da tempo dismesso tutte le attività di laboratorio legate alla realizzazione di apparati elettronici. Negli istituti tecnici alla manualità del secolo scorso si è sostituita la realtà virtuale della simulazione con il computer. Inesistenti, o rari, quei tecnici di alta professionalità capaci di progettare sistemi o loro parti. E poi, dove troverebbero le componenti necessarie? “Di che ti lamenti? Siamo nell’era digitale, baby”, è una risposta così sempre più frequente, e a una molteplicità di interrogativi, che rischia di diventare un mantra. O forse lo è già diventato. È “big data”, la mostruosa mole di dati da classificare e archiviare che fa guardare alla digitalizzazione come allo strumento in grado di venirne in qualche modo a capo, che si tratti di amministrazione, sanità o economia. Si moltiplicano le “piattaforme” cui far afferire i dati. Comune è ormai l’esperienza di analisi cliniche che, inviate alla “magica” piattaforma, vengono lì delibate per fornire una risposta diagnostica. E in modo del tutto analogo si procede per la valutazione di progetti e start up di tipo economico, finanziario, o dei più disparati settori produttivi. Se quel che vuoi proporre e far valutare non è “piattaformabile” sei un paria, meglio, sei escluso da concorsi, call o considerazione delle tue proposte. E tutte queste piattaforme implicano, ovviamente, il ricorso al digitale.
Che la digitalizzazione corrisponda a un’esigenza di razionalizzare, inevitabilmente semplificare, la gestione di innumerevoli dati sembra abbastanza incontrovertibile. Al punto che per Klaus Schwab, presidente del Word Economic Forum (WEF), l’affermazione “tutto è connesso a internet” sembra andare di pari passo con quella che tutto deve essere digitale. La stessa Unione europea si è data l’obiettivo di procedere rapidamente a quella che indica come Transizione digitale, non guardando troppo per il sottile alle realtà, diverse, dei Paesi che unisce. Scendendo più in basso nella piramide trofica della conoscenza troviamo molti giornalisti, che, esperti di niente, continuano a ripetere entusiasti che le vecchie tecnologie sono inutili, bisogna usare solo il digitale. E i più perspicui motivano la scelta dell’abbandono delle trasmissioni analogiche in nome dell’elevato costo, da far risalire al maggior dispendio energetico. Una balla pseudoscientifica, ma ci torneremo.
Certo, si leva talvolta un controcanto. Ad esempio, la Commissione cultura del Senato della precedente legislatura, che, infischiandosene allegramente del piano Scuola 4.0, quale consegnato al PNRR, e avvalendosi della collaborazione di neurologi, psichiatri, psicologi, pedagogisti, grafologi ed esponenti delle forze dell’ordine, ha redatto un documento “sull’impatto del digitale sugli studenti, con particolare riferimento ai processi di apprendimento” che sferra un attacco alzo zero contro l’uso dominante dei supporti digitali (cellulari, tablet, computer). Al di là dei disturbi e dei danni psicofisici e comportamentali indotti, e puntualmente elencati, l’accusa si focalizza su: “…la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza…” per concludere che dalle audizioni e dalla documentazione: “…non sono emerse evidenze scientifiche sull’efficacia del digitale applicato all’insegnamento. Anzi, tutte le ricerche scientifiche internazionali citate dimostrano, numeri alla mano, il contrario. Detta in sintesi: più la scuola e lo studio si digitalizzano, più calano sia le competenze degli studenti sia i loro redditi futuri. …Giovani schiavi resi drogati e decerebrati: gli studenti italiani…” [Senato della Repubblica Doc. XVII n°2, 9 giugno 2021].
A questo punto gli abituali “grandovecchisti” penseranno soddisfatti che tout se tien, sono le consuete mene di chi per controllare la società e i singoli cerca di istupidirli fin da piccoli. Ma questo è solo un effetto collaterale e, come sempre, la realtà è più complessa. E, a indagarla a fondo, mette in mostra aspetti più riposti ma non meno importanti, anche se magari lasciano indifferente l’opinione pubblica. Al di là degli esempi sull’Italia, è del tutto evidente che la spinta al digitale ha valenza mondiale, come abbiamo accennato. Ma allora, quale tipo di razionalizzazione dei processi sociali è legata alla diffusione del digitale? In prima battuta viene in mente un’analogia con la lettura che alcuni epistemologi dettero della Relatività ristretta, secondo la quale la nuova concezione dello spazio tempo di Einstein non era una gemma avulsa dal contesto storico sociale, ma, zeitgeist, era una “semplificazione” conseguita a un livello più elevato e in qualche modo partecipe di una società che stava facendo anch’essa un salto: perché si stava conformando ai tempi scanditi dalle innovazioni del processo produttivo. E quindi, una semplificazione “omogenea” con l’introduzione degli schemi organizzativi che avevano a valle le catene di montaggio, e con la “fordizzazione” delle produzioni. Certo, si trattava, oltre un secolo fa, di un punto di vista teorico, di una nuova concezione del mondo, che si intrecciava con l’affermarsi di una nuova organizzazione sociale. Oggi la digitalizzazione ha meno ambizioni teoriche e si propone come una tecnologia funzionale a una più articolata gestione del potere. Dei poteri.
Come la Relatività ristretta fu criticata per non rappresentare, allora, un passaggio scientificamente necessario, così, oggi, la digitalizzazione non è una ineludibile necessità tecnologica. La eludono, infatti, e alla grande, gli apparati militari-industriali. Le comunicazioni militari sono tutte analogiche – Onde Corte (OC), Onde Lunghe e Modulazione di Ampiezza (AM) – così come le informazioni diffuse nel mondo da quasi tutti gli Stati. Se si vuole conoscere direttamente e in tempo reale la situazione del conflitto russo-ucraino o informazioni su quello che accade in paesi come Cuba, India, Iran, Corea del Nord/Sud, è sufficiente possedere una vecchia radio analogica. Anche se la Global Radio Guide 2022-23 è una delle poche pubblicazioni rimaste che fornisce indicazioni sulle frequenze (www.teakpublishing.com) e programmi di trasmissione analogica internazionale, la “resistenza” dei filo-analogici è diffusa, come vedremo meglio, in molti Paesi e in modo non trascurabile.
Allora perché questo “affetto” per l’analogico, in ambiti, invece, di grande rilevanza politico-sociale? Eventi naturali estremi dovuti al cambiamento climatico in atto, catastrofi ambientali (terremoti, alluvioni e uragani), possibili guerre, attacchi terroristici e di hacker, mettono fuori uso la distribuzione di energia elettrica, i cellulari, la rete di telecomunicazione digitale e internet. In questi scenari si può facilmente ripristinare lo scambio di informazioni attraverso le trasmissioni analogiche e piccole radio portatili. In Italia, en passant, non ci sono più in commercio trasmittenti o radio analogiche. Si potrebbero facilmente costruire, quando si conosca l’elettronica analogica, ma tra non molti anni nessuno, tranne i militari, sarà più in grado di farlo. Spontanea la domanda: “Perché si sta affermando e viene fortemente sponsorizzata dai Governi e, appena più in sordina, dai grandi gruppi economici una tecnologia di comunicazione, quella digitale, che è meno affidabile della analogica in quanto assai più vulnerabile, come gli esempi sopra elencati mostrano indiscutibilmente?”. Perché è più flessibile alle esigenze di controllo da parte di coloro che, nei vari dominii sociali, detengono poteri. È, insomma, una razionalizzazione di “parte”. Un punto a favore dei “grandovecchisti”, quindi, ma su un terreno più sottile e diretto di quello evocato dalle conclusioni della Commissione cultura del Senato: “Io ti banno, a prescindere”, senza dover aspettare, cioè, i frutti della decerebrazione. Varrà la pena di esemplificare. Ma poi, c’è dell’altro…
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