Il 26 gennaio del 2009, dopo un autunno caratterizzato dalle proteste studentesche contro la riforma Gelmini e dopo le polemiche scaturite dalla preghiera musulmana in piazza Duomo a Milano, l’allora ministro dell’Interno Maroni emanò una direttiva finalizzata a “intervenire sulla disciplina esistente” in materia di libertà di riunione, con il fine di limitare le manifestazioni nei centri urbani e nelle “aree sensibili”. In particolare, il provvedimento prevedeva dei criteri per limitare i cortei nelle zone “a forte caratterizzazione simbolica per motivi sociali, culturali, religiosi o che pfossero interessate da un notevole afflusso di persone”, invitando i Prefetti (d’intesa con i sindaci e sentito il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica) a sottrarre in via preliminare tali aree alle manifestazioni e a prevedere forme di “garanzia per gli eventuali danni”.
Tale direttiva aspramente criticata a livello politico, presentava non pochi profili di criticità anche a livello giuridico, evidenziati dalla più attenta dottrina (S. Troilo 2009; G. Brunelli 2012): (i) anzitutto, limitando la libertà di riunione con un atto a carattere amministrativo si prefigurava una violazione della riserva di legge in materia di diritti fondamentali; (ii) in secondo luogo, consentendo ai Prefetti di stabilire dei divieti preventivi e generali si giungeva a una illegittima compressione della libertà di manifestare, che – in base all’art. 17 della Costituzione – può essere limitata solo nel caso in cui ricorrano, in concreto, comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica; (iii) in terzo luogo, appariva del tutto irragionevole e affetta da grave genericità l’inclusione nelle “zone sensibili” di aree aventi una valenza “simbolica”, con la conseguente ampia libertà discrezionale lasciata ai prefetti nell’emanazione delle restrizioni; (iv) infine, inaccettabile risultava il fatto di subordinare l’esercizio di una libertà fondamentale, costituzionalmente garantita, addirittura al versamento di un deposito cauzionale.
La direttiva Maroni portò come conseguenza l’adozione, nelle diverse città, di misure eterogenee ma tutte comportanti una forte limitazione della libertà di manifestare. A riguardo, possiamo menzionare l’ordinanza del febbraio 2009 del prefetto di Bologna, prorogata fino a una durata complessiva di circa 2 anni, con cui si prevedeva un divieto generalizzato di effettuare manifestazioni, il sabato e la domenica, in determinate piazze e strade del centro storico della città. O, ancora, si può ricordare il controverso Protocollo per la disciplina delle manifestazioni nelle piazze della Capitale adottato, nel marzo 2009, dal prefetto di Roma Pecoraro (in accordo con il sindaco Alemanno) e sottoscritto dalle principali organizzazioni sindacali e da numerosi partiti politici, in cui – al fine di evitare eccessivi “disagi per la fruibilità della vita cittadina” – si stabilivano in via preliminare una serie di percorsi e piazze predefinite per cortei e presidi. In entrambi i casi si assisteva a una illegittima limitazione a priori del diritto di riunione che, a livello costituzionale, ammette restrizioni solo se singolarmente motivate.
Negli anni successivi, numerosi sono stati i decreti legge, intervenuti in materia di “sicurezza urbana”, che hanno inciso gravemente sul diritto di manifestare il dissenso in occasione di manifestazioni pubbliche, attraverso un potenziamento dell’apparato repressivo. A riguardo, non si può non citare il decreto Minniti-Orlando sulla sicurezza (d.l. n.14/2017) che, oltre a introdurre il c.d. Daspo urbano e l’arresto in flagranza differita per chi commette reati in occasione di manifestazioni di piazza (entrambi istituti mutuati dal contesto calcistico), ha esteso nuovamente il potere di ordinanza dei sindaci, dopo le censure effettuate dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n.115/2011. Così come non si possono non ricordare i decreti sicurezza di Salvini (d.l. n.113/2018 e n.53/2019) che hanno comportato – tra le altre cose – la reintroduzione del reato di blocco stradale (di scelbiana memoria) e l’inasprimento del trattamento sanzionatorio per una serie di reati commessi nel contesto di manifestazioni pubbliche (es. violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale).
In questo contesto normativo si inserisce la direttiva Lamorgese del 10 novembre 2021, con cui si sono stabiliti nuovi limiti alla libertà di manifestare, ponendo come principale giustificazione l’aumento dei contagi da COVID-19.
Vale la pena soffermarsi su questo provvedimento per sottolineare alcuni aspetti riguardanti (i) la natura stessa di tale atto; (ii) le motivazioni poste alla base della sua adozione; (iii) l’invito che in essa si effettua ad alcuni soggetti istituzionali di limitare, con determinati strumenti, il diritto di riunione.
Quanto al primo profilo, è evidente come si consolidi la tradizione di utilizzare un atto di carattere amministrativo per prevedere delle restrizioni all’esercizio di un diritto fondamentale, con l’impiego di strumenti di soft law che di fatto precludono spazio alla discussione politica, rendendo più difficoltosi il controllo e la tutela giurisdizionale (Algostino, 2019). D’altronde il provvedimento in questione fa espressa menzione della direttiva Maroni del 2009, con una reviviscenza delle indicazioni in essa contenute.
Si potrebbe obiettare che nel caso di specie, diversamente da dodici anni fa, siamo dinanzi a una emergenza epidemiologica che potrebbe richiedere l’utilizzo di strumenti d’eccezione e una limitazione del diritto di manifestare. Tuttavia, anche sotto tale profilo, il provvedimento in questione sembra peccare di una intrinseca irragionevolezza e non rispettare il dettato costituzionale. Infatti, la direttiva menziona nel suo oggetto solo le “manifestazioni di protesta contro le misure sanitarie in atto” e anche nella premessa della stessa parla di “una inosservanza delle disposizioni di prevenzione dal contagio che si verificano durante tali cortei”. Pertanto risulta inspiegabile come si giunga, poi, a restringere in via generalizzata ed ex ante il diritto di manifestare, senza rispettare il dettato dell’art. 17 della Costituzione. Preme, infatti, sottolineare come la “valutazione circa la pericolosità di una riunione debba essere riferita ad una situazione concreta e tradursi in un provvedimento puntuale, risultando perciò illegittimo qualsiasi divieto preventivo generale” (Ruotolo, 2009). Peraltro, oltre al rischio epidemiologico, l’ulteriore motivazione posta alla base della decisione di adottare la direttiva è la necessità di tutelare le attività economiche. Non a caso, come vedremo, si invitano i soggetti istituzionali a impedire lo svolgimento di cortei in determinate aree delle città (ovviamente quelle centrali). Anche in questo caso, il legislatore sembra forzare la lettura della nostra Costituzione, anteponendo la libertà di iniziativa economica (art. 41 della Cost.) al diritto di riunione e alla libertà di manifestare il proprio pensiero.
Alla luce di ciò, desta sicuramente preoccupazione il fatto che nella direttiva si invitino i “custodi” della sicurezza delle nostre città (ossia il triumvirato, prefetto, questore, sindaco) a utilizzare un vasto arsenale normativo, risalente in larga parte all’epoca fascista, per prevedere delle restrizioni al diritto di riunione.
In particolare, la direttiva prevede che:
La direttiva Lamorgese del 2021 sembra, dunque, utilizzare il pretesto dell’emergenza epidemiologica per consentire una generalizzata limitazione della libertà di manifestare, dando nuovo vigore a quei “residui assolutistici” rappresentati dalle norme del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, emanate con Decreto Regio del 1931 tuttora usate e abusate, nonostante numerose pronunce di incostituzionalità.
Non a caso, l’art. 2 del TULPS, che prevede la possibilità per il prefetto di emanare – in caso di urgenza o grave necessità pubblica – provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, è stato ritenuto espressione di una potestà assoluta, contraria alla natura stessa dello stato di diritto che non ammette la presenza di pieni poteri non disciplinati dalla legge (Ferrajoli 2000). Peraltro, nonostante tale articolo sia stato dichiarato parzialmente incostituzionale già agli inizi degli ‘60 (sentenza n.26/1961), tale pronuncia non ne ha intaccato la natura di potere a contenuto indeterminato (Ferrajoli 2000) e le ordinanze prefettizie sono state ampiamente ed arbitrariamente utilizzate e, anzi, il loro impiego è stato pericolosamente sollecitato da direttive o circolari ministeriali (oltre al caso di specie, si ricorda nel 2019 la c.d. direttiva Salvini sulle “zone rosse”).
Stesse considerazioni valgono per l’art. 18 del TULPS che attribuisce al Questore la possibilità di impedire lo svolgimento delle riunioni e di prescrivere modalità di tempo e di luogo delle stesse “per ragioni di ordine pubblico, moralità o sanità pubblica”. Anche qui è evidente una violazione dell’art. 17 della Costituzione che prevede la possibilità di vietare le riunioni solo per “comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica” ma si intravede anche una lesione del generale principio di legalità, il quale “esclude che le libertà costituzionali dei cittadini siano affidate a forme di tutela amministrativa per di più non rigidamente delimitate dalla legge” (Ferrajoli 2000).
Infine, quanto alla possibilità per il sindaco di emanare dei provvedimenti limitativi del diritto di riunione, giova ricordare una importante sentenza del Tar del Lazio del 2012 (sentenza n.1432/2012). Infatti, il sindaco di Roma, in qualità di commissario delegato per lo stato di emergenza nel settore del traffico e della mobilità, aveva emanato due diverse ordinanze (il 17 e 18 ottobre 2011) in cui poneva delle stringenti restrizioni al diritto di riunione, in seguito agli episodi di violenza verificatisi durante la manifestazione del 15 ottobre 2011. In particolare, con il primo provvedimento (avente una validità di 30 giorni) si stabiliva la possibilità di svolgere esclusivamente manifestazioni statiche nel territorio del I Municipio di Roma, da realizzarsi in aree specificatamente indicate. Con la seconda ordinanza (avente una validità fino al 31 dicembre 2011) si stabiliva, inoltre, che i cortei nella Capitale avrebbero potuto svolgersi solo in determinate circostanze temporali e con riferimento a percorsi predeterminati, stabiliti nel provvedimento medesimo. Tali atti del sindaco di Roma sono stati annullati dal giudice amministrativo che ha sottolineato come l’esercizio della libertà di riunione, nel cui perimetro rientra la libertà di corteo, non richieda alcuna preventiva autorizzazione dell’autorità di pubblica sicurezza, ma il solo preavviso, per cui un provvedimento amministrativo che intenda disciplinare ex ante le modalità di svolgimento delle riunioni in luogo pubblico, comprimendo incisivamente la libertà di formazione dei cortei, si presenterebbe già di per sé illegittimo. In altri termini, “una regola dettata in via generale e astratta che incide drasticamente sulla libertà di riunione garantita dall’art. 17 Cost. è evidentemente violativa di tale norma in quanto tende a sostituire al regime costituzionale di tendenziale libertà un regime amministrativo in cui alla valutazione da compiere “a valle”, circa l’eventuale sussistenza di comprovati motivi che giustificano il divieto, subentra una valutazione compiuta “a monte” di incompatibilità tout court di determinante modalità di svolgimento delle riunioni in luogo pubblico.
Una decisione del Tar, di quasi dieci anni fa, che dovrebbe rappresentare un monito per sindaci, prefetti e questori che, oggi, si accingono a dare attuazione al provvedimento della ministra Lamorgese. Ma, nel contempo, una pronuncia che ci fa ben comprendere come sia lo stesso contenuto di questa direttiva a porsi fuori dal perimetro costituzionale.
Spiace, infatti, dover constatare come si sia arrivati a utilizzare l’attuale emergenza epidemiologica per introdurre ulteriori e illegittime limitazioni al diritto di manifestare, già gravemente messo in pericolo da un repressivo apparato sanzionatorio. A pensar male si potrebbe ipotizzare che questi provvedimenti siano un tentativo di silenziare quel conflitto sociale che si sta esprimendo nelle piazze delle nostre città. Lo hanno dimostrato, in questi mesi, i tanti cortei che – nel rispetto delle misure poste a tutela della salute collettiva – hanno rivendicato giustizia climatica e sociale; che si sono opposti allo sblocco degli sfratti e dei licenziamenti; che hanno protestato contro il vergognoso affossamento del ddl Zan; che hanno rivendicato il sacrosanto diritto di uscire da questa pandemia con una società diversa, più giusta. Lo ha dimostrato il grande corteo nazionale che si è svolto a Roma, il 27 novembre, contro la violenza maschile sulle donne.
Insomma, i divieti di manifestare in determinate aree delle città rischiano di essere, oltre che illegittimi a livello giuridico, strumentali a livello politico. Ne è un esempio la recente decisione del prefetto di Bologna di revocare la concessione di Piazza Maggiore come luogo per la manifestazione regionale dei sindacati, programmata il 1° dicembre e diretta a contestare una manovra di bilancio ritenuta inadeguata. Il divieto di effettuare tale mobilitazione è stato introdotto nonostante gli organizzatori abbiano garantito il rispetto di tutte le misure di prevenzione dai contagi richieste dalla vigente normativa. Ciò basta a porre in evidenzia la strumentalità di tale decisione. Ma a ulteriore conferma vi è il fatto che, nella direttiva della Prefettura di Bologna, siano state escluse espressamente dal suddetto divieto: le iniziative connesse alle festività natalizie; le funzioni e cerimonie religiose; gli eventi e manifestazioni organizzati da enti pubblici.
Appare, dunque, evidente la completa irragionevolezza di questo provvedimento, che comporta una pericolosa violazione del diritto di riunione.
Così come appare evidente, dinanzi a tali provvedimenti autoritari, la necessità di dover praticare una rigorosa disobbedienza.
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