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Il barone von Clausewitz scrive nel Vom Kriege che la guerra è “un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”1. In un altro celebre aforisma Mao Tse-tung afferma invece che: “la politica è guerra senza spargimento di sangue e […] la guerra è politica con spargimento di sangue”2. Se secondo il primo, politica e guerra sono quindi elementi correlati e conseguenti, l’uno subordinato all’altro; per il secondo, essi sono quasi coincidenti, identità gemelle distinte da una sola caratteristica: l’uso massivo e concentrato della violenza.

Prestando ascolto alla narrazione pubblica odierna, l’impressione è che siano le parole del timoniere cinese le più aderenti al reale. Da un lato il termine “guerra” è ormai raramente adoperato per definire un’azione militare (soprattutto da parte di chi la promuova), variamente declinata invece come operazione speciale, di difesa o, finanche, di pace – giusto per citare gli aggettivi più inflazionati – con una pudicizia lessicale indirizzata a sostituire le accezioni di sofferenza e di distruzione con altre neutre o giustificative. Dall’altro lato, però, la guerra, mondata dei rimandi più truculenti e orrorifici, è elevata a un più alto livello di dignità, eletta a principio ordinatore della politica, di cui istruisce i fini precipui e delimita il perimetro di azione. Si parla allora di guerra di civiltà (cristiana vs islamica, laica vs teocratica, liberale vs illiberale…), per la patria, per la democrazia o per la libertà; significanti vuoti ma in grado di evocare valori non negoziabili, che demarcano il confine non oltrepassabile tra l’ordine giusto e la barbarie del caos. L’azione militare è mera ipostasi particolare di un ideale che sorvola i campi di battaglia, solo un mezzo del largo armamentario con cui si opera la guerra tout court: economia, diritto, ideologia, propaganda, tecnologia…

Ma se la guerra e la politica coincidono, non può esserci spazio per la mediazione. L’avversario è nel torto per definizione e le sue ragioni possono essere ascoltate solo nella misura in cui la sua forza gli permetta di farle valere, perché, come ci racconta Tucidide, “nelle considerazioni umane il diritto è riconosciuto in seguito a una uguale necessità fra le parti, mentre chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede”3. L’imperativo categorico è allora essere il più forte, per vincere e non essere vinto, per poter affermare le proprie ragioni e non subire quelle altrui. Non c’è spazio per il tentennamento, e anche la critica interna è legittimata solo laddove contempli correzioni tattiche, non strategiche, e, comunque, esclusivamente entro precisi limiti dettati dall’emergenza: in una guerra esistenziale si è sempre sotto assedio e, secondo l’antico moto del fondatore dei gesuiti Ignazio di Loyola, “in una fortezza assediata, ogni dissidenza è tradimento”. Per assurdo, si finisce così per comprimere o per denaturare all’interno – chiaramente, con gradienti e modalità differenti di loco in loco – proprio quei valori tanto strenuamente difesi nella lotta contro il nemico esterno.

A ogni modo, non dobbiamo farci cogliere da stupore. L’ossimoro è figura retorica ricorrente non solo in letteratura. E basta guardare ad alcuni episodi della storia a noi più nota, quella europea, per renderci conto di quante volte ideali e simboli identitari abbiano rappresentato insegne dietro cui raccogliere le fila degli eserciti e vestimenti etici per giustificare la sopraffazione da questi esercitata. Nel V secolo a.C. Atene reclama la superiorità del suo modello politico per sottomettere l’oligarchica Melo, rea di poter apparire equidistante tra lei e Sparta (ancora Tucidide), in una sorta di primigenia esportazione della democrazia. Tra XI e XIII (a fasi alterne, invero, fino al XVII) secolo gli eserciti crociati combattono sanguinose battaglie contro gli infedeli allo scopo di riconquistare la Terra santa, animati dalla pietas e dall’agapé cristiani. Gli stessi sacri principi che, all’alba dell’età moderna, le schiere di conquistadores infondono con la spada nel cuore dei popoli amerindi, mentre si accaparrano terre e ricchezze del Nuovo mondo4. Con tempo e dedizione si potrebbero raccogliere ovunque nel mondo esempi simili. È allora lecito domandarsi quanto a fondo si radichi la guerra nella storia.

Per rispondere a questa domanda è in primo luogo necessario chiederci di quale storia si parli. In tutti quei luoghi dove l’uso di tecnologie più avanzate (dalla scrittura all’architettura) abbia permesso, fin dall’età neolitica, alle comunità umane di tramandare tracce più profonde del proprio vissuto, dei propri miti, della propria cultura – dalla Mesopotamia al Sinai, dal Mar Mediterraneo a quello del Nord, dal Fiume Azzurro al Gange, dai Caraibi agli altopiani mesoamericani – l’uso e la celebrazione della guerra sono state costanti sempre presenti. Ad esse si sono abbinati modelli sociali centrati sul controllo e sullo sfruttamento del territorio (dalle risorse naturali alle altre specie che lo abitano), sull’accumulazione della ricchezza economica, sulla cristallizzazione di gerarchie e diseguaglianze, sulla suddivisione rigida di ruoli e funzioni, sulla costruzione di un sistema patriarcale. L’etica del dominio è di genus maschile, perché l’uomo meglio della donna si può fare strumento efficace della violenza organizzata. La donna è quindi generalmente relegata a un ruolo servile, di riproduzione e di sostegno. Indipendentemente dal contesto socio-politico vigente, l’ordinamento prevalente e trasversale designa la guerra come pilastro portante e irrinunciabile; e questo ordinamento si è imposto sugli altri, cancellandoli o relegandoli al confino.

Ma se è vero, come si legge tra le pagine dei Taccuini del deserto di Ben Ehrenreich5, che le società e le culture odierne sono il portato di una palingenesi violenta e famelica, che ha fagocitato (e continua a farlo) tutto ciò che non le era conforme, quali speranze ci sono per il futuro? Se la guerra, gemella della politica, è un assiale vettore di trasformazione delle società umane, dunque, elemento denotativo dell’umanità per come appare oggi, come possiamo anche solo immaginare una prospettiva di pace?

Innanzitutto, come ci avverte Paul Ricoeur, è bene evitare gli errori di un certo pacifismo che “si crede facile e si rende facile; crede di essere già dentro il mondo, venuto dal mondo, nato dalla bontà naturale dell’uomo e semplicemente camuffato, bloccato da qualche perfido. Non sa di essere difficile, di avere contro sé stesso la storia, di poter venire solo dall’esterno, e che chiama la storia a compiti diversi rispetto a quanto essa significa naturalmente”6. Questo non significa abbracciare un’idea univocamente pessimistica dell’evoluzione storica, ma avere coscienza del fatto che nel tempo determinati comportamenti – poco diffusi in origine, caratterizzanti specifici tipi socio-antropologici affermatisi in determinati contesti geografici – abbiano potuto in pochi millenni arrivare a imporsi come modello egemonico globale. Tali comportamenti sono strettamente intrecciati con lo sviluppo tecnologico (di cui sono stati via via al contempo matrice e risultato), e con l’ordine di bisogni e desideri conseguenti; districarli non è facile.

Riconosciuta la difficoltà profonda (e forse, al momento, insuperabile) di enucleare, e dunque eradicare, la guerra dall’ordine teorico e pratico del reale, diviene allora necessario focalizzare la riflessione su come detronizzarla, demistificarne il culto, alternativamente carsico e affiorante, così centrale nelle liturgie del potere.

Alcune risposte vengono senza dubbio dal pensiero femminista, capace di disvelare le strutture sotterranee del sistema patriarcale-guerresco e di offrire una visione radicalmente alternativa dello ius conditum vivendi, dove alla conquista si sostituisce la condivisione, alla violenza la cura, allo scontro il dialogo. Il femminismo, esattamente come l’ideologia a cui si oppone, riesce a essere intersezionale ai vari piani politici, socio-economici e culturali, ed è per questo particolarmente efficace nel ridisegnare nel suo complesso la realtà.

Certo, non può esserci pacifismo senza femminismo, ma questo non basta. Le pratiche del pensiero, compreso quello femminista, per essere davvero efficaci nel decostruire il totem marziale devono sottrarsi all’arena dicotomica e violenta della contesa dialettica, disarmare il linguaggio, applicare la fermezza della non-violenza al dibattito. Questo non significa certo anestetizzarlo, ma al contrario, vuol dire depurarlo dagli stilemi guerreschi (dai toni alle locuzioni, passando per la prossemica e l’estetica) che ne dominano l’immaginario, nutrirlo di una indispensabile disposizione all’ascolto e alla comprensione. Vuol dire sostituire all’eristica di Eutidemo e Dionisidoro l’élenchos socrateo, in una logica che privilegi i costrutti apofantici rispetto a quelli apodittici. È di certo complicato agire dentro il volteggiare incessante e meccanizzato dell’infosfera, ma se uscirne totalmente non è possibile, allora bisogna studiare con perizia i meccanismi che la governano, per imparare a muoversi più agilmente al suo interno e magari rallentarne o deviarne il moto. Restituire un tempo e uno spazio di riflessione alle parole, dove coltivare il dubbio, favorirebbe una elaborazione delle idee non guidata dal sobillamento degli istinti bensì dal discernimento delle argomentazioni. Permetterebbe inoltre di attingere al potenziale creativo dell’inconscio collettivo, improvvidamente relegato ad antro ctonio dei ferali miasmi, abitato dai demoni mortiferi di un rimosso che spaventa e che solo alla paura può fornire alimento, dimenticando colpevolmente l’importanza delle emozioni vitali e delle risorse immaginifiche a cui in esso si può attingere.

Tenere assieme e sviluppare tutte queste consapevolezze (e chissà quante altre ancora), pare indispensabile nell’orizzonte d’azione di chi eserciti il pensiero critico in questa parte di mondo e voglia detronizzare la guerra, ovvero, primariamente, toglierle le parole attraverso cui si estrinseca nel sentire e nel discorrere comuni. Pensare una nuova poetica, progettare e costruire una differente architettura del linguaggio, che non potendo rimuovere Ares dall’Olimpo, ne allontani almeno l’altare dal centro della pòlis, lasciando posto a Diche e a Irene: ambizioso proposito, proporzionato all’urgente necessità del suo realizzarsi.

Note

1 Karl von Clausewitz, Della guerra, traduzione a cura di Ambrogio Bollati ed Emilio Canevari, Mondadori, Milano, 1970, p. 38.

2 Mao Tse-tung, Sulla guerra di lunga durata (maggio 1938), Opere scelte, Vol. II, Casa editrice in lingue estere, Pechino, 1971, p. 209.

3 Tucidide, La Guerra del Peloponneso, V, 90, traduzione a cura di Franco Ferrari, BUR-Rizzoli, Milano, 2011, p. 937.

4 Per un resoconto dettagliato sulle nefandezze compiute dagli esploratori e colonizzatori europei nei territori del centro e sud America, e sul modo in cui queste venivano raccontate, giustificate e finanche criticate (seppur da una minoranza) al tempo in cui si verificavano gli eventi, si legga: Attilio Brilli, Dove finiscono le mappe, il Mulino, Bologna, 2017.

5 Ben Ehrenreich, Taccuini del deserto. Istruzioni per la fine dei tempi, Atlantide, Roma, 2021.

6 Paul Ricoeur, La questione del potere. L’uomo non-violento e la sua presenza nella storia, traduzione a cura di Alessandro Rosselli, Marco, Lungro, 1992, p. 29.

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