L’astensionismo colpisce al cuore la leggenda antica secondo cui, quando la posta della contesa è elevata, la partecipazione popolare di riflesso lievita. L’elezione diretta del governatore, senza la previsione del ballottaggio, perché l’investitura della carica è sprovvista per legge del requisito ragionevole della maggioranza assoluta dei votanti, per la sua decisività dovrebbe incarnare la massima attrattiva per spingere all’esercizio del voto.
E invece la massiccia fuga dalle urne, proprio nella gara secca per la designazione di un presidente, è clamorosa nei suoi risvolti quantitativi. L’elezione diretta del capo dell’esecutivo non ricarica un sistema politico fragile, non è la soluzione all’enigma della governabilità e non restituisce affatto lo scettro nelle mani del cittadino spodestato. Vacilla così anche il mito che la nomina popolare diretta produce un potere forte. Il governatore senza popolo è tutt’altro che un centro monocratico saldo capace di operare nella pienezza della decisione.
Lo svuotamento delle forme di potere, per la fuga di gran parte del corpo elettorale dai riti stanchi della delega, lambisce una autentica crisi di legittimazione. È caduto, agli occhi di larghe fasce di società, il senso fondativo della politica come capacità democratica di incidere sulle questioni centrali dell’esistenza. Sulla guerra e la pace, sul lavoro, il chiacchiericcio della politica sub-specie comunicazione non assume le decisioni fondamentali e anzi evita i nodi cruciali come santuari sottratti al gioco del conflitto.
Per questo la diserzione delle urne è una scelta trasversale. C’è anche un astensionismo di destra che è ben stato compreso da Marcello Veneziani nelle sue solide ragioni ispiratrici. Nasce dalla sensazione che il governo del polo escluso ha rapidamente tradito le attese di vera discontinuità; troppo evidente è già diventato il divario tra Meloni di piazza (contro gli usurai europei) e Meloni di palazzo (apprendista delle compatibilità numeriche tracciate dai tecnici usurpatori della sovranità).
È soprattutto di sinistra però il volto dell’attuale ritiro di massa dalle pratiche del voto. Alle motivazioni tradizionali (vuoto identitario, lettura aconflittuale della post-modernità, disarticolazione organizzativa, abbandono dell’insediamento territoriale) si sono aggiunte delle nuove ragioni che spingono all’apatia. Dinanzi alla mancanza di una capacità minima di allestire una offerta politica che sia percepita come competitiva, la tendenza all’abbandono è un fenomeno naturale.
È ritenuta inefficace dagli elettori di sinistra la tattica del cuculo, seguita da chi immagina di insediarsi senza troppi sforzi nelle vicinanze del corpaccione grillino per determinare una astuta mutazione genetica. Il dono di una sinistra radicale, per un ceto politico incapace di camminare con proprie idee e organizzazioni, si assaporerebbe solo con l’esodo nel mondo del M5S per trovare lì una massa già pronta che aspetta solo nuovi capi identitari.
La tattica di spostarsi dall’ombrello protettivo del PD (ritenuto la fonte ultima del mancato decollo elettorale di settembre) a quello del M5S (come ricollocazione propedeutica ad una celere conquista di un ampio spazio politico) è stata severamente giudicata dai votanti. Anche le altre sigle della sinistra, che marciano sotto un richiamo identitario cui non corrisponde una forza effettuale, sono però ridotte a percentuali così infime da sollecitare un serio processo di riflessione.
Non si costruisce un soggetto a sinistra del PD senza un dialogo positivo con il ruolo coalizionale del PD che renda “pesante” il voto. Un antidoto efficace all’astensionismo richiede infatti la ricucitura di una ampia coalizione politica e sociale in grado di contrastare la destra su punti nodali (presidenzialismo, autonomia differenziata, regime fiscale e contrattuale antilavorista, contrazioni delle libertà femminili e civili). Senza un vero processo di ricostruzione culturale si accresce il senso di estraneità rispetto ai percorsi iniziatici di piccoli ceti politici che curano la propria riproduzione in un vuoto di rappresentanza sempre più grande.
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