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Disperate speranze

Il saggio per l’undicesimo numero della rivista bimestrale Infiniti Mondi, dedicato all’Utopia di Thomas More.
Pubblicato il 9 Ottobre 2019
Materiali, Officine Tronti, Scritti

Non è tempo di utopie. Per questo è necessario tornare a parlare di Utopia. Siamo in catene tra le sbarre di un eterno presente, una condizione che ci toglie la libertà sia di guardare indietro sia di mirare avanti: perché, secondo l’opinione corrente e dominante, il passato ha il dovere di morire e l’avvenire non ha il diritto di vivere. Per reazione, a cercare luce dalla caverna, sovversive diventano allora due facoltà grandemente umane, la memoria e l’immaginazione. Esse vanno coltivate insieme e non l’una contro l’altra: è questo quanto voglio tentare di dire. Aggiungendo: il riferimento non deve essere a ieri, ma all’altro ieri; non al domani, ma al dopodomani. L’immediato passato è ciò che ha prodotto questo presente: va messo sotto critica. L’immediato futuro è tutto nelle mani di chi comanda oggi: occorre strapparglielo. Mai dimenticare che quando si pensano concetti politici, bisogna legarli a filo doppio con le lotte. Nel viaggio per raggiungere le coste dell’isola di Utopia, si arriva attraversando un mare in tempesta, non certo cullandosi nella grande bonaccia delle Antille.

Questo è tempo di distopie. C’è il rullo compressore di un processo storico che va avanti per conto suo, senza che nessuno lo guidi, perché non ha bisogno di guida, ha una logica autonoma di sviluppo e di crisi, secondo leggi di movimento vetero-e-neocapitalistiche perfettamente tra loro intercambiabili. Il Leviatano della tecnica non è soggetto, è strumento, dopo il Novecento, come il Leviathan della politica lo fu nel Seicento. Allora servì all’accumulazione originaria della ricchezza delle nazioni, cioè del capitale-mondo, oggi serve alla dissipazione finale delle risorse della terra. E non è in vista il Behemoth delle guerre civili. I conflitti esistono. E non possono non esistere in società profondamente divise, come le nostre. Ma sono conflitti falsi nell’azione dei soggetti, come le false notizie nella comunicazione delle parole. La falsità consiste nel fatto che non servono, perché non mirano, a mettere in crisi il meccanismo oggettivo di permanenza delle attuali forme di vita, nella loro specifica originale presenza, imposte e insieme accettate. Il discorso di utopia ha oggi il compito di lavorare a distinguere, a dissociare, a separare, imposizione e accettazione. Il pensiero utopico, o riesce ad essere antagonista pensiero critico di ogni giorno, oppure rischia di diventare una consolatoria filosofia della domenica.

Utopia, per me, è un al di là. Al di là terreno. Esito a dire mondano. Perché mondo oggi si identifica con questo mondo: esattamente ciò che mi respinge e che mi spinge a cercare un oltre. Sento vicina, per questa via, ogni misura o dimensione trascendente. Senza identificarmi con le forme teologiche che essa assume, trovo lì, e utilizzo, un pensare, e un parlare, di misura politica, che metaforicamente, o allegoricamente, accenna a qualcosa d’altro da qui, da questo. C’è antagonismo già in questa sola scelta. Mentre nella scelta, opposta, di un rigoroso immanentismo, non c’è via d’uscita dalla subalternità a ciò che è, così com’è. Per il tempo che stiamo vivendo, per la contingenza che stiamo sperimentando, non è possibile immaginare un’utopia politica, è necessario pensare un’utopia teologico-politica. Se, come vedremo, seguendo Bloch, quanto ci interessa è “l’utopia concreta”, il teologico politico, più del politico, è in grado di assicurarci quel non-ancora realistico che andiamo cercando. Non giriamoci intorno, fermiamo il punto. Nel Magnificat leggiamo: abbattere i potenti, innalzare gli umili. Ecco il teologico. Come abbattere i potenti, come innalzare gli umili. Ecco il politico. E non si dica: troppo semplice. È compito del pensiero politico ridurre la complessità della storia, in modo che questa possa essere agita non solo da chi la possiede intellettualmente, ma da chi la soffre esistenzialmente.

Questo mondo. Questo tempo. Per il discorso di utopia, è preliminare intendersi su tali espressioni. Mondo e tempo, nemici. Una delle difficoltà, forse la maggiore, nel parlare oggi dell’oltre, è la generale assuefazione allo stato delle cose presente, una rassegnazione di massa, del resto culturalmente motivata, dall’impossibilità, come si usava dire in fondo fino a non molto tempo fa, di “cambiare il mondo”. Non che sia assente la parola cambiamento. Anzi, per dar luogo a quel falso movimento che è il consenso democratico, basta pronunciarla, ancora meglio gridarla. Il che è interessante: perché vuol dire che non si è soddisfatti di come vanno le cose, di come sono andate fin qui, da parte di chi le ha governate. Ci si affida ai prossimi governanti, perché le cose cambino. È l’inganno delle attuali democrazie realizzate. Offrire l’illusione del cambiamento è il modo più intelligente finora trovato per mantenere le cose così come stanno. Non c’è più bisogno dei mostri biblici per governare i popoli. Bastano rassicuranti animali domestici, che non a caso occupano ormai le stanze di gran parte delle case, un tempo occupate dai bambini.

Cambiamento è parola da pensiero debole: un non-pensiero che registra, ricalca, riflette una non-società. Non aveva affatto torto Margareth Thatcher a dire: la società non esiste, esistono solo gli individui. Definiva esattamente questo mondo, del neoliberalismo a trazione economico-finanziaria. Qualcuno ci ha insegnato che devi conoscere il nemico meglio di quanto il nemico conosca sé stesso. È questo il caso. Sono sempre i padroni, e chi li rappresenta, a dirti come stanno veramente le cose. I contestatori generosamente credono alla favola dell’animale uomo naturalmente socievole. Ma secoli di anarco-capitalismo hanno depositato tra noi un’altra specie umana: quella. È qui che il discorso di utopia inciampa e ruzzola. Allora devi mettere in campo non una debole idea di cambiamento, ma un concetto forte di trasformazione. Trasvalutazione di tutte le forme: di produzione, di scambio, di consumo, ora e sempre delle forme di potere e, nello specifico odierno – drammatico problema – delle forme di comunicazione. E di conseguenza, la messa in discussione delle forme di vita, quelle che non si scelgono ma si subiscono, quelle che non si godono ma si soffrono, quelle che quotidianamente si sperimentano non su di sé ma contro di sé.

Questo è un mondo che produce il massimo dell’avvenirismo tecnologico e nello stesso tempo provoca il massimo della decadenza umana. Non dico che quello produce questa. Sul tema, conviene essere né apocalittici né integrati. Non è la tecnica l’Anticristo da trattenere prima che conquisti per intero le nostre anime. È semmai l’uso della tecnica che ne fa chi comanda, cioè chi detiene, gestisce e manovra ricchezza e potere. Il destino del post-umano incombe, nella prospettiva distopica di macchine intelligenti e uomini stupidi, di intelligenza artificiale e idiozia naturale. E la salutare attenzione sul disastro ambientale prossimo venturo, come problema di tutti, stiamo attenti che non nasconda il discorso sulla responsabilità di alcuni. Lo stato delle cose da trasformare funziona sempre in questo modo: la mobilitazione totale sull’interesse generale serve perché stiano al sicuro, non viste, non considerate, ben precise responsabilità particolari. Saperlo, questo, è la prima mossa da compiere per il soggetto della trasformazione. La seconda è avviare un processo di smascheramento che porti alla denuncia delle conseguenze e all’approntamento dei rimedi. Il discorso di utopia sta stretto entro queste condizioni.

Ecco il motivo per cui, prima di avventurarci nelle risposte circa il futuro, vanno poste alcune domande su questo presente. Perché questa condizione disperata che vede da una parte classe dirigenti non all’altezza, vede dall’altra parte una massa di individui non in rivolta? Perché tutti questi omuncoli al governo dei paesi e nello stesso tempo tutta questa gente ad inseguire demagoghi? Il problema non è il contrasto tra élites e popolo, ma tra élites squalificate e popolo disorientato. Allora, la critica di questo mondo va accompagnata con la critica di questo tempo. Lo so che da questo orecchio non si vuol sentire. Nessuno, di quelli che contano qualcosa, è disposto ad ascoltare, chi per arroganza, chi per subalternità. Eppure, non è una voce che sta parlando, è un dato di realtà che sempre più si va imponendo. Finché non ci sarà presa di coscienza, politico-culturale, collettiva, di quanto devastante sia stata la reazione antinovecentesca, che negli anni Ottanta ha chiuso in anticipo quel secolo, fin lì, sappiamolo, è utopico parlare di utopia. Reazione è la parola giusta, perché è stato un fatto storicamente reazionario, solo mascherato di idee liberali, di forme democratiche, di pappe del cuore etiche. Il lavoro, politico-intellettuale, di smascheramento di questo tempo è altrettanto essenziale quanto quello che riguarda questo mondo.

La Trilaterale è stato il Congresso di Vienna del nostro tempo. Ha aperto la nuova età della Restaurazione. Come quello decretò la fine del disordine rivoluzionario, esportato in Europa dalle guerre napoleoniche, così questa ha decretato la fine dell’età delle guerre civili europee e mondiali, che non ha termine nel 45 ma nell’89. Tutti gli anni Ottanta, dell’innovazione e della liberazione, preparano il ritorno del nuovo ancien régime, che ancora stiamo vivendo. Oggi tutti sono disposti ad ammettere che non ci fu “fine della storia”. Ma il nippo-americano aveva in parte visto giusto. Ci fu il passaggio dalla storia alla cronaca, con tutte le conseguenze del caso. Dal grande conflitto alle liti da cortile. Dalle narrazioni ideologiche allo storytelling del personaggio di turno. Dalla battaglia delle idee alla chiacchiera mediatica. Dalla cultura alla comunicazione. Dai partiti ai movimenti. Dalla politica-progetto alla politica-spettacolo. Il tramonto dell’Occidente non manda più bagliori di fuoco, si inabissa nella notte oscura di quella che si è chiamata la globalizzazione dell’indifferenza. Se guardiamo al contrasto degli opposti punti di vista nel rapporto sociale tra chi sta in basso e chi sta in alto, se misuriamo il livello di pensiero che quel conflitto centrale produceva nelle due parti in lotta, se valutiamo il grado di soggettività delle forze organizzate a difesa degli interessi contrapposti, se consideriamo il mercato rispetto allo Stato, il privato rispetto al pubblico, l’individuo rispetto alla società, ci compare davanti, nell’oggi, il paesaggio di un piccolo mondo antico ottocentesco.

Allora, quale operazione intellettuale da consigliare? Direi così: partire da una realistica visuale del mondo e del tempo per approntare una neo-utopistica visione in grado concretamente di saltare oltre.

Ci vorrebbe un impegno collettivo, con una divisione interna del lavoro, di spiriti liberi, nel senso di persone pensanti, doppiamente liberate: dall’approvazione dell’attuale stato delle cose e dalla contestazione che se ne è fatta negli ultimi decenni. È necessario trovare un nuovo modo di essere fuori e contro. Io posso farlo nel solo modo in cui so farlo: tirando l’arco al punto che permette di cogliere il bersaglio più raggiungibile. Realistica visione. Disposto però a correggere la mira con altri tiratori scelti. Premessa comune, però deve essere: battaglia in campo e non passi di danza in pista.

L’utopia concreta? Intanto, un ritorno di Novecento. È più agibile raggiungere l’isola che non c’è se si sa che l’isola c’è già stata. L’Atlantide, continente scomparso, si dava come esistito. Il regnum hominis della Nova Atlantis, immaginata da un uomo di scienza visionario, Bacone, e prima ancora da un filosofo del mondo delle idee, Platone, non si sa se c’è mai stato, ma la grande terra che lo permetteva c’era. Il “già stato” e il “non ancora” non vanno contrapposti. Sono complementari. Come conservazione e rivoluzione. È il giro delle orbite che rivoluziona i pianeti. E il salto non consiste nel proiettarsi in avanti, ma nel fermare il circolo in un punto: quel punto in cui storia e politica sono state più avanti di economia e tecnologia e non come oggi così drammaticamente indietro. Utopia non può essere più invocare e attendere il Messia ma, seguendo Benjamin, lasciare aperto il piccolo spiraglio attraverso cui può passare, per tornare, in ogni momento. Cioè stare pronti all’occasione. Compito primario di una politica nuovamente al posto di comando è preoccuparsi di conservare quell’apertura e semmai organizzarsi per aprirla quando è chiusa.

Ancora, la domanda, anzi le domande: è possibile un messianismo realistico? Magari sotto la forma di quella “apostasia messianica” praticata da uno Shabbetay Sevi, il controverso pochissimo conosciuto personaggio seicentesco, attraverso cui Gershom Scholem ha potuto parlarci di utopia e modernità? Indubbia è la necessità di inoltrarsi per vie di mare non battute se vogliamo raggiungere l’isola della blochiana utopia concreta.

Ernst Bloch scrive Spirito dell’utopia in mezzo alla prima grande catastrofe novecentesca, tra il 1915 e il 1917. La prima edizione esce nel 1918, una seconda stesura nel 1923. La ragione utopica contemporanea nasce insieme all’età delle guerre civili europee e mondiali. È il motivo per cui il discorso di utopia, che da allora arriva al nostro tempo, non può che assumere un segno tragico. Niente di consolatorio e di rassicurante, niente di progressivo. È un urto con la realtà. Un disperato grido di speranza. In una Avvertenza del 1936, il libro viene definito “il tentativo di una prima opera fondamentale, espressiva, barocca, religiosa”, con dentro tutta l’atmosfera culturale del tempo, dal Blaue Reiter alla poesia e alla pittura espressioniste, un’opera tessuta “nel pozzo dell’anima, come dice Hegel, ma con una ‘carica di dinamite’ nel rapporto soggetto-oggetto, costruita sul principio: “Il mondo non è vero, ma vuol tornare a casa per mezzo degli uomini e della verità”. Bloch poi rilegge il suo testo nel 1974, in una conversazione a Tübingen: da vedere adesso nell’edizione italiana (La Nuova Italia, Firenze 1980, p. VII-XVIII). Quando un autore rilegge se stesso a distanza di decenni, le scintille di pensiero sembrano brillare di nuova luce. Le scoperte vengono ribadite e nello stesso tempo approfondite. Presente e futuro – dice Bloch – non possono essere guardati e trattati in modo contemplativo, hanno bisogno della pratica per quanto riguarda l’azione e della volontà per quanto riguarda la decisione. In mezzo, la mediazione della politica. Così “l’utopia diventa in sostanza una pre-apparizione (Vorschein)”. E questo «ben più di quanto non accadesse nelle teorie degli Stati ideali, in cui l’isola meravigliosa del nostro struggente desiderio veniva trasferita in una remota isola dei Mari del Sud, come in Tommaso Moro o Campanella. Anche i grandi utopisti a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, soprattutto Fourier e Saint Simon, non costruiscono che la sede di una fondata immagine onirica del nostro futuro prossimo. Ad essi il marxismo legò la sua prassi di una trasformazione finalmente realizzabile in concreto, criticando l’astrattezza dell’utopizzare precedente e mantenendosi fedele con tanta più forza all’orientamento verso il futuro della funzione utopica. Vale perciò la frase: “Il marxismo non è un’utopia, ma il novum di un’utopia concreta”. Questa frase non si trova in questa formulazione nello Spirito dell’utopia bensì nel Prinzip Hoffnung, ma è sostanzialmente già contenuta nella prima opera; lo stesso vale per il concetto in apparenza paradossale di “un’utopia concreta”».

Bloch torna in Germania, quando nel 1949 si costituisce la Repubblica democratica tedesca. È qui che, docente all’Università di Lipsia, scrive negli anni Cinquanta la grande opera Il principio speranza. Tocca con mano lo spegnersi del fuoco che era stato acceso dal marxiano “sogno di una cosa”. Concludeva quella conversazione del 1974, invitando a scrutare ancora la nostra storia e le sue opere «volgendosi all’utopia e quindi a ciò che non è riscattato, che ci attende, che non è ancora giunto e che per di più è minacciato». L’ultimo capitolo di Spirito dell’utopia portava il titolo “Karl Marx. La morte e l’apocalisse”.

«La guerra finì, cominciò la rivoluzione e con essa sembrò che le porte si aprissero. Quasi subito però si richiusero». È una delle frasi lancinanti di questo capitolo. Ne riporto alcune che accennano, non solo metaforicamente, al nostro presente. «Tutto procede a tentoni sotto la guida di uno strano presentimento, la cui mancanza marchia col fuoco i singoli esseri viventi, ovunque è un provare, conservare, rifiutare, riutilizzare, sbagliare, ricadere…». Ma «l’uomo è l’unico essere vivente capace di trasformare». «Abbiamo imparato almeno una cosa dallo sguardo nel reale giunto cento anni fa (oggi, duecento!): dal pensiero programmatico socialista Marx ha eliminato radicalmente il semplice fanatismo astratto e irrelato, il puro e semplice giacobinismo…Un tal modo di essere pratici, di cooperare all’orizzonte costruttivo della vita quotidiana e di giudicare rettamente, di essere appunto politicamente sociali, è assai prossimo alla coscienza e costituisce una missione rivoluzionaria dell’utopia… Perciò Marx ha insegnato che non si deve mai cercare o sperimentare al di là di quanto è strettamente possibile e che l’unico problema è sempre soltanto il prossimo passo… Marx vuole agire e cambiare il mondo mediante la volontà e perciò non si limita ad attendere il verificarsi di certe condizioni, ma insegna a farle emergere, pone la lotta di classe, analizza l’economia tenendo conto di elementi variabili adatti per un intervento attivo».

Per i nostri compagni di viaggio, di oggi: «Siamo sempre in attesa, abbiamo un anelito ed una ridotta conoscenza, ma difettiamo di azione, come risulta dal fatto che ci manca completamente l’ampiezza, il colpo d’occhio e il fine, che non abbiamo varcato presaghi alcuna soglia minima…»

E infine, la linea di condotta: «La storia è un viaggio duro e scomodo… Di regola le circostanze sono tali che l’anima deve rendersi colpevole per annientare l’esistente malvagio, per non diventare ancor più colpevole ritirandosi nell’idillico e tollerando l’ingiustizia con apparente bontà. In sé il dominio e il potere sono malvagi, ma è necessario opporre loro altrettanta potenza, quasi un imperativo categorico che punta la pistola…».

Parole di un secolo fa. Non so se dimenticate, se non comprese, se rigettate. Da parte mia, so solo che commentarle, farebbe perdere il fascino che l’impatto diretto assicura al lettore. Peggio, riassumerle con altre parole significherebbe comunque tradirle. Bisogna introdurle dentro di sé e basta. Il sottotitolo che specifica “Karl Marx. La morte e l’apocalisse”, recita: “Le strade del mondo lungo le quali l’interiore può diventare esteriore e l’esteriore come l’interiore”. La parte centrale di Geist der Utopie sviluppa il tema Selbstbegegnung, Incontro con il Sé. È giusto dire “il tema”, perché gran parte del capitolo compone una “Filosofia della musica”: arte intimamente utopica, “miracolosa e trasparente arte che supera il sepolcro e la fine di questo mondo”. La musica è la cosa in sé che si manifesta nel desiderio spirituale e che così ci incita al sogno: «e questo è ciò che non è ancora, il perduto, il presagio, il nostro incontro con il Sé nascosto nelle tenebre e nella latenza di ogni attimo vissuto, l’incontro con noi stessi, la nostra utopia che chiama se stessa attraverso il bene, la musica e la metafisica e che tuttavia non è terrestremente realizzabile». Utopia è “nominare del tutto diversamente il nome di Dio, quel nome insieme perduto e non mai trovato”. Segue una digressione intitolata “Il mistero”.

L’utopia concreta, l’utopia politica, cioè la politica drammaticamente alle prese con il raggiungimento di un fine posto oltre la realtà in cui essa lotta, deve fare i conti con la dimensione del mistero che segna la vita umana: per cui la storia degli eventi è un enigma che ogni epoca, a suo modo, ha il compito di decifrare. Bloch chiama questo compito: “la forma del problema inconstruibile”.

Spirito dell’utopia ha un seguito, anzi ha un seguito l’ultimo capitolo, quello su Marx, la morte, l’apocalisse. Bloch scrive e pubblica a poca distanza, 1921, un libro forse ancor più esplosivo, Thomas Müntzer teologo della rivoluzione (trad. it. Feltrinelli, Milano 1980). Ogni giovane, ragazzo o ragazza, che prende la decisione di entrare in politica dalla parte di chi vuole cambiare questo mondo, ha l’obbligo etico di abbeverarsi a questa fonte, per un’accumulazione originaria di energia sovversiva. Bloch, nella riedizione, con pochissime modifiche, del 1969, lo definisce “un appendice al Geist der Utopie”, con l’avvertenza: «Il suo romantico rivoluzionarismo trova misura e determinazione nel mio libro Das Prinzip Hoffnung». Ecco, quel giovane oggi lettore del Müntzer, diventato adulto, piuttosto che rassegnarsi a diventare un tranquillo demo-progressista, è bene che seriamente, e inquietamente, si impegni a dare “misura e determinazione” al suo iniziale romantico rivoluzionarismo. La guerra dei contadini, nella Germania della Riforma, è uno dei passaggi della lunga grande storia di rivolte delle classi subalterne, la cui memoria andrebbe conservata e valorizzata come vero e proprio patrimonio dell’umanità.

Anche qui, dal testo di Bloch, alcune perle: «Müntzer finì molto rapidamente e tuttavia volle il più vasto… Egli è ciò che è suo e tutto il passato che merita essere trascritto è qui per impegnarci, per entusiasmarci, per sostenere sempre in modo più ampio ciò che è da noi continuamente inteso» (trad. it., p. 29). «Tutta la struttura stratificata della società formatasi in età moderna finiva col pesare sul popolo contadino, sul nucleo centrale delle masse della nazione, indifeso e sfruttato contemporaneamente da tutti gli ordini sociali dell’impero….È opportuno perciò guardare più a fondo nel cuore dei contadini ribelli… Il desiderio economico è senz’altro quello più lucido e più costante, ma non è l’unico, non è quello sempre più forte e non costituisce neppure la motivazione più peculiare dell’anima umana, soprattutto in periodi di tensioni religiose… Inclinazioni, sogni, sentimenti profondi e sinceri, entusiasmi rivolti ad una meta vengono alimentati da un bisogno diverso da quello più afferrabile, e tuttavia un bisogno che non è mai vuota ideologia; essi non tramontano, colorano realmente di sé un lungo tratto, scaturiscono nell’anima da un punto originale che genera valore e determina valore, continuano ad ardere anche dopo tutte le catastrofi empiriche non riscattati, continuano a proiettare in avanti, in una perdurante contemporaneità, la profonda traccia del sedicesimo secolo, il chiliasmo della guerra dei contadini e dell’anabattismo. Così prima di tutto si demolì e si cercò di diventare nuovi…»(pp. 63-67). «Non si muore per un semplice bilancio di produzione ben pianificato, e quindi anche nella realizzazione bolscevica del marxismo ritorna e si fa riconoscibile l’antico modello di lotta divina (taborita-comunista-gioachimita) del battismo radicale con un mito dell’a-che-scopo» (p.96). «Ci appare splendente nella sua immagine e nel suo pensiero Thomas Müntzer, per molte cose simile a Liebknecht e non lontano per l’inflessibile capacità organizzativa dallo stesso Lenin e dagli uomini come lui; egli illumina, invece del mero eudemonismo terreno, il più potente a-che-scopo della rivoluzione» (p. 108). “Conclusione e la meta del Regno”: «Già iniziata nel suo procedere eretto, la storia sotterranea della rivoluzione attende ancora inascoltata; ma i fratelli della vallata, i catari, gli albigesi, valdesi, l’abate Gioacchino da Fiore, i fratelli del buon volere, della vita comunitaria, dello spirito pieno, del libero spirito, Eckhart, gli hussiti, Müntzer e i battisti, Sebastian Franck, gli illuminati, Rousseau e la mistica umanistica di Kant, Weitling, Baader, Tolstoj – tutti si riuniscono e la coscienza di questa immensa tradizione batte di nuovo contro la paura, lo stato, la non-credenza ed ogni “di sopra” in cui l’uomo non compare. Ora arde la scintilla senza indugiare più in nessun luogo, in conformità alla più precisa delle rivendicazioni bibliche: non abbiamo qui una dimora fissa, andiamo alla ricerca di quella futura… Alto sopra le macerie e le infrante sfere della civiltà di questo mondo splende lo spirito della non sradicabile utopia» (p.201).

Qual è la differenza tra distopia e utopia? Non mi riferisco alle immaginazioni future che denunciano il presente: ieri George Orwell e Aldous Huxley, oggi James G. Ballard. Queste ben vengano. Le distopie sono il futuribile di città, di case, di lavori, e quindi di rapporti disumanizzati. Questo tipo di utopia negativa cambia, mentre l’utopia positiva trasforma. L’una innova, l’altra rivoluziona. Il meccanismo distopico è un dispositivo oggettivo, in continuità col presente. L’attuale rivolgimento tecnologico segue lo sviluppo capitalistico, lo accompagna, in buona misura lo stabilizza. Va sempre avanti, senza voltarsi indietro. La passione utopica è un’istanza soggettiva, spezza la storia, la mette sottosopra, è contro ciò che è, ma non contro tutto ciò che è stato. Non cammina verso il futuro, salta oltre il presente, anche in nome di un altro passato. Conserva l’accumulo di insorgenze avvenute, per dare forza a ciò che pensa debba avvenire. Oggi c’è una sorta di utopia concreta che si impone egemonicamente nei prodotti come nei pensieri. È l’utopia tecnologica, con i suoi risultati mai sazi di sé stessi e sempre nuovi, sempre diversi. Le va contrapposta una sorta di utopia concreta antropologica. La misura di giudizio è il destino della condizione umana. Stiamo veramente passando da una condizione disumana capitalistica a una condizione postumana tecnologica? Sarebbe opportuno richiamare le nuove generazioni a preoccuparsi, oltre che del futuro del pianeta nella sua deriva ambientale, anche del futuro dell’uomo nella sua deriva artificiale. Il discorso utopico, politico, di oggi è chiamato a una battaglia delle idee preliminare: ad impedire che si chiuda per sempre, a causa dell’estinzione di un’umanità disponibile al grande compito, quella prospettiva di redenzione umana iscritta nelle lotte del passato.

Redenzione è parola opportuna: redimere quelli che stanno in basso nella società dalla loro condizione di subalternità. Era l’ideale del movimento operaio: “l’emancipazione del proletariato emanciperà tutta l’umanità”. Utopia non realizzata. Quel passo di Bloch, citato sopra, vedeva tornare, nella realizzazione bolscevica del marxismo, l’antico modello di lotta divina miticamente mirata all’a-che-scopo. Scriveva nel 1921. La rivoluzione appena nata, seppure aggredita da tutte le parti, spargeva speranza di liberazione degli oppressi in tutta Europa e oltre. Pensate a quanta mobilitazione di lotte, a quanto entusiasmo di azione, a quante scelte di vita, dava luogo quella semplice parola d’ordine: fare come in Russia! Un sogno infranto rimane, deve rimanere, nella memoria, a motivare future insorgenze, ma bisogna coltivarlo, quel sogno, se lo si cancella, o peggio si accetta di farlo passare come un incubo, si fa un danno enorme alla propria parte. Questo danno è stato fatto: e in modo irreparabile.

Allora, siccome parliamo di utopia, io non nominerei marxismo, nominerei comunismo. Marx ci ha dato le armi per combattere il capitalismo, ma sulla via per uscirne ci ha lasciati disarmati. C’è voluto Lenin, per correggere e aggiungere qualcosa di essenziale. Ma, appunto, le porte si aprirono e subito si richiusero. Perché “non si muore per un bilancio di produzione ben pianificato”…. Il progetto marxista di portare il socialismo dall’utopia alla scienza, proprio questo è fallito. Voler dimostrare scientificamente il passaggio dal capitalismo al socialismo è come voler dare la dimostrazione scientifica del passaggio dall’inferno di questo mondo al paradiso di quell’altro. O ci credi o non se ne fa niente. La fede è possente virtù agente. Non si dice che smuove le montagne? Tutto quello che ti è consentito è passare da un’utopia ideale a un’utopia quanto più possibile reale. Il marxismo non è una filosofia. Una filosofia vale per tutti. E il marxismo non può valere per tutti. La poderosa opera di Marx è un indispensabile strumento di conoscenza e di lotta dentro questa determinata formazione economico-sociale-politica, ad uso di una parte alternativa e antagonista. Non c’è una filosofia della prassi, c’è un pensiero dell’azione: pensiero politico che accompagna, segue, dirige, orienta l’azione sociale. Una filosofia del marxismo non può essere che un’ideologia. E non è nemmeno male che sia così. A patto che tu ne sia cosciente. Non una falsa coscienza, ma una coscienza altra, una narrazione ideologica autonoma, libera dal mondo e dal tempo così come sono, potenzialmente egemone rispetto alle narrazioni dominanti.

Indispensabile è la “visione”, un immaginario che ti faccia percepire, da chi vuoi coinvolgere nella lotta decisiva, che il tuo progetto sta in questo mondo ma non appartiene a questo mondo. Non una diversità, ma un’alterità. Uno spirito di parte come vera libertà dello spirito. Mi è capitato di dire che se Marx avesse scritto, invece che le Tesi su Feuerbach, le Tesi su Kierkegaard, ci sarebbe stata un’altra teoria del marxismo e un’altra storia del movimento operaio. Le affinità elettive tra queste due personalità contemporanee mi paiono tanto note quanto non conosciute. Sarebbe affascinante lavoro di ricerca per una giovane mente di studioso approfondirne la portata.

Ne posso qui solo accennare, attraverso l’esplicito richiamo che ne fa Karl Löwith, nel suo Da Hegel a Nietzsche, che dal dissolvimento delle mediazioni hegeliane vede appunto emergere le due posizioni radicali di Marx e di Kierkegaard come critica del mondo capitalistico e del cristianesimo mondanizzato. Riporto due passaggi dall’edizione italiana (Einaudi, Torino 2000). «Poco prima della rivoluzione del 1848, Marx e Kierkegaard espressero la loro volontà di una nuova decisione, e le loro parole conservano valore anche oggi: Marx lo fece nel Manifesto dei comunisti (1847) e Kierkegaard in un Proclama letterario (1846)… in una comune distruzione del mondo borghese-cristiano. Per la rivoluzione contro il mondo borghese-capitalistico, Marx si è appoggiato sulla massa del proletariato, mentre Kierkegaard nella sua lotta contro il mondo borghese-cristiano ha riposto ogni speranza nell’individuo. Con ciò si accorda il fatto che per Marx la società borghese è una società di “individui isolati”, in cui l’uomo è estraneo al suo “essere generico”, e che per Kierkegaard la cristianità si riduce a un cristianesimo volgarizzato per la folla, in cui nessuno si presenta come successore di Cristo… Marx si volge contro l’estraniarsi da sé che il capitalismo rappresenta per l’uomo; Kierkegaard contro l’estraniarsi da sé che la cristianità rappresenta per il cristiano» (pp.232-233). «Marx sottopone a una decisione radicale i rapporti esterni di esistenza della massa, e Kierkegaard fa lo stesso con il rapporto interiore di esistenza del singolo di fronte a sé stesso». L’esistenza non è più per l’uno e per l’altro quello che era per Hegel, il semplice existere, essenza che si fa esistenza. «Sulla base di un’eguale distacco dal mondo razionale di Hegel, essi separano nuovamente ciò che questi aveva unito. Marx si decide per un mondo umanitario, “umano” e Kierkegaard per un cristianesimo fuori del mondo, che, “considerato umanamente”, risulta “inumano”… Essi intendono “ciò che è” come un mondo determinato da merci e denaro o come un’esistenza impregnata di ironia e dell’avvicendarsi della noia. Il “regno dello Spirito” della filosofia di Hegel diventa uno spettro nel mondo del lavoro e della disperazione… Il compimento hegeliano della storia rappresenta per entrambi la fine della storia anteriore, che precede una rivoluzione intensiva e una riforma intensiva… In luogo dello Spirito attivo di Hegel, interviene in Marx una teoria della prassi sociale e in Kierkegaard una riflessione dell’agire intimo; in tal modo entrambi si sottraggono con la conoscenza e la volontà alla theoria come attività suprema dell’uomo. Per quanto lontani siano l’uno dall’altro, sono però strettamente congiunti nell’attacco comune alla realtà esistente e nel distacco da Hegel. Ciò che li distingue conferma anche la loro affinità…» (pp. 247-248).

“Teoria della prassi sociale”, “riflessione dell’agire intimo”: tenere strette insieme queste due dimensioni grandemente umane è la provvisoria utopia concreta che ci è oggi solo concessa. Questo è il tempo del “frammezzo”, una lunga età della restaurazione, che avanza con gli stivali delle sette leghe dell’innovazione. Non vale più la frase: il vecchio mondo muore e il nuovo stenta a nascere. No, il vecchio mondo torna a vivere in vesti completamente nuove. Così, democraticamente il popolo decade a massa, l’individuo liberisticamente non sale a persona. L’utopia teologico-politica viene ricacciata in interiore homine. Esteriorità nemica e interiorità amica vanno a delineare un “inattuale” criterio del politico. Attenzione, va coltivato solo come lotta. Lo sapeva il giovane Hegel, prima che scendesse a patti, come a volte è anche necessario fare, “con il greve reale”. I due avevano già innalzato a Tubinga l’albero della libertà, a riconoscimento della rivoluzione in Francia, quando Hegel dedica a Hölderlin, agosto 1796, ormai tutte le passioni spente, quell’esempio di pensiero poetante che è Eleusis (v. in Hegel-Hölderlin, Eleusis. Carteggio, Mimesis, Milano-Udine 2014): «Mai non s’arrende al sonno il faticoso affanno dei mortali…/poi la gioia di trovar più salda e più matura/la fede alla promessa di altri tempi…/(der freien Warheit nur zu leben) viver solo per la verità libera/e mai far pace con la norma/che su opinioni e sentimenti impera».

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2 commenti a “Disperate speranze”

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