Categorie della politica. Dopo Destra e Sinistra (Rogas, 2023) di Vincenzo Costa, filosofo e professore di Fenomenologia all’Università San Raffaele di Milano, è un lungo excursus, storico politico filosofico, nel mondo locale e globale che si è andato delineando dopo la caduta del Muro di Berlino e delle ideologie che hanno sostenuto il cambiamento con uno sguardo attento all’Italia di oggi. Deceduti, anzi feriti a morte, i partiti di massa della prima Repubblica e il meglio che da quelle culture è emerso – come il popolarismo di Sturzo e la storia settantennale del Partito comunista italiano, che trae origine e forza specialmente dal pensiero gramsciano a cui Costa fa esplicito riferimento, riguardo sia al ruolo degli intellettuali nella società e nel partito, sia alla necessità di valorizzare la cultura popolare – ci si chiede cosa è rimasto a fare da sponda all’esigenza di giustizia sociale, di una vita degna, per tutti e per coloro che affondano le loro radici esistenziali in una generazione che è stata protagonista, nel secondo dopoguerra, della Ricostruzione. L’autore teme, e più volte lo sottolinea, in conclusione del suo volume e in occasioni pubbliche, di irritare noi che della cosiddetta cultura progressista siamo stati e siamo protagonisti. Oggetto privilegiato della sua decostruzione è tutto ciò che ha prodotto il campo largo della sinistra progressista. Non mancano critiche alla destra sia di impianto liberale che identitario. E soprattutto a quest’ultima che con qualche slogan richiama la destra sociale, mentre ha sposato anch’essa la cultura neoliberale.
Proviamo a dare un certo ordine al lavoro di Vincenzo Costa suddiviso in sei capitoli, in ciascuno dei quali analizza perché la diade destra/sinistra non è più in grado di interpretare la realtà attuale, né tantomeno di modificare ciò che emerge dal mondo reale o mondo della vita, come viene definito, sempre più distante dalle istituzioni e dalle forze politiche che (non) lo rappresentano. Per farlo “bisogna iniziare a sgombrare il campo di un ordine concettuale: aprire un varco, cercare di scuotere un modo di pensare strutturato attorno a posizioni binarie” (p. 9). È proprio a partire da questa necessità, sottolinea Costa, che va abbandonato il sistema di pensiero binario, che non rappresenta più l’esperienza, anzi le toglie parola. L’autore ci tiene a dire che abbandonare la diade non sottende la necessità di sostituirla con altre, come popolo/elités, dal basso/all’alto, ma che è arrivato il momento di lasciarsi alle spalle l’organizzazione binaria che ha caratterizzato il pensiero politico della modernità. L’obiettivo è quello di abbandonare la diade che stermina le differenze di cultura politica e ha una funzione egemonica che si è rivelata fallimentare, in quanto incapace di mediare tra “il mondo della vita” e il sistema istituzionale.
Come interpretare l’espressione “mondo della vita”? È un’espressione che rende bene ciò che si muove nella società e in quella che un tempo era la comunità che via via si è sfilacciata, diluita, dispersa, e con essa la tradizione/le tradizioni che fanno la differenza/le differenze. Un mondo fatto di codici, linguaggi, pulsioni, usi e costumi, simbolici e reali, ma anche, per dirla marxianamente, di bisogni materiali, di desiderio di giustizia sociale, in cui il lavoro non sia solo necessità e sfruttamento, bensì realizzazione di aspirazioni, saperi e competenze. La tradizione invece, dice Costa, è stata messa da parte con un certo disprezzo dalla cultura progressista, e vista come un disvalore, espressione di umori, di bassezze, di in-cultura. Un pensiero presente sempre in Pasolini che l’autore non cita mai, ma che riecheggia. Come è potuto avvenire tutto ciò, smantellando le forze politiche di origine popolare, la loro cultura, la loro forza? Tanto più con la minaccia della fine della storia che si andava diffondendo negli anni Ottanta sostenuta dalle teorie di Fukuyama, affermando un clima culturale secondo il quale non c’è più nulla da attendere perché nulla può accadere. È in questo clima, sottolinea l’autore, che matura una concezione della destra e della sinistra limitata a due varianti del neoliberismo, ovvero del modo di produzione capitalistico e dell’ordine del mercato, locale e globale. Non si tratta di cambiarlo, ma di farlo funzionare meglio: la destra si afferma quando è necessario espandere il mercato e i consumi; la sinistra quando è necessario un maggiore intervento dello Stato per controllarlo, con tagli alla spesa pubblica, attraverso azioni mirate dall’alto, attraverso i governi dei “competenti”, di coloro che conoscono la macchina e sanno come farla funzionare. Il Governo Draghi è stato esemplare in tal senso.
In questo contesto, alle classi subalterne non rimane che scegliere chi li governerà. Nonostante le speranze (e il velleitarismo aggiungo) del cosiddetto populismo di sinistra che con i 5 Stelle si è illuso di poter smantellare la “casta” e a sua volta si è fatto casta, cade l’illusione di una partecipazione alla vita pubblica. La stessa destra ha abbandonato, scrive Costa, i suoi richiami sociali per diventare liberista in economia con qualche richiamo alla tradizione e ai valori nazionali. Una destra che usa le nozioni di tradizione, conservazione, identità, come meri simulacri. A questo proposito sarebbe stato necessario soffermarsi, invece, sui rischi che la destra al governo rappresenta non solo per i diritti sociali, ma anche per quelli civili, che non vanno disgiunti a mio avviso, e per le libertà individuali. La destra di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini, ci riporta indietro in fatto di cultura, istituzioni private e sociali, a un clima che credevamo superato per sempre.
Non mancano le critiche al neocontrattualismo che ha rappresentato un occultamento del conflitto sociale, e quindi dell’esclusione di una delle parti. E si fanno strada invece concetti di efficienza, di interesse comune, di meritocrazia che premia il singolo senza che si tenga conto del punto di partenza. È una cultura subdola, sottolinea l’autore, una narrazione necessaria e utile per far credere alle classi subalterne che qualcuno ha a cuore le loro sorti. Altrettanto impietoso verso la sinistra antagonista e dell’aristrocrazia come la definisce Costa. Quella di Foucault che mira all’inclusione degli esclusi (folli, anormali, carcerati) e sostituisce il concetto di esclusione a quello di sfruttamento e tace su chi subisce l’esclusione dal mercato del lavoro, su chi ha un lavoro precario o non lo ha affatto, su chi è costretto a accettare condizioni di lavoro umilianti o subire il ricatto del licenziamento. Severo anche con pensatori come Agamben, Bataille, Braudillard, che si sono concentrati sui dispositivi di sorveglianza piuttosto che sulla lotta di classe, tanto da dar vita a “un anarchismo estetizzante da signori”. (p. 73). Lo stesso Marx, scrive Costa, non coglie il tema del valore delle tradizioni, delle identità collettive: “Marx non coglie le espropriazioni delle identità e delle tradizioni facendosi sfuggire il vissuto delle classi popolari, mentre queste sono forme di legame e le lotte del movimento operaio furono sempre lotte per resistere alla dissoluzione del legame”.
È questo il nucleo del pensiero dell’autore: è sul legame sociale che si nutrono le rivendicazioni di giustizia sociale. E su questo il capitale ha lavorato: nel distruggere vincoli comunitari, reti amicali, legami tra generazioni. Forte anche la critica ai mass media che invece di contribuire a rendere viva la sfera pubblica, necessaria a ogni democrazia – secondo le indicazioni di Mill e Tocqueville fino a Habermas e Arendt – l’hanno portata al collasso. “I mass media non si limitano a farci vivere nella realtà che costruiscono per noi, ma sono diventati i princìpi dell’accadere. Essi non delimitano solo ciò che dobbiamo vedere e che cosa no, ma fanno vedere per far accadere” (p. 135).
A conclusione del lavoro, un’analisi delle categorie oppositive che si sono strutturate nel tempo: identità/differenza; occidente/oriente; inclusione/esclusione; amico/nemico; ospitalità/ostilità, in cui si auspica invece di cogliere una molteplicità di significati che ci portino verso il futuro dando vita a un altro orizzonte che implica due fasi: la prima la rimozione delle macerie; la seconda la costruzione di un nuovo ordine concettuale e politico al cui interno si possa definire un nuovo blocco sociale e culturale.
Tanti, dunque, gli spunti di un lavoro che si pone in una posizione critica anche di fronte a lavori precedenti come quelli di Bobbio e che comunque implica riflessione e discussione. Oltre la critica e l’autocritica che presuppone umiltà nel riconoscere le proprie e altrui sconfitte.
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