L’articolo “Meglio di così non poteva andare”, pubblicato sul sito del CRS lo scorso 18 novembre, ha messo in chiaro “i limiti della Climate Action globale svelati a Glasgow” in termini oggettivi e incontrovertibili. L’articolo muove dalle valutazioni critiche espresse dal Direttore esecutivo del Programma ambientale delle Nazioni Unite, condivise da molti altri autorevoli centri di ricerca, sul deludente confronto tra gli impegni assunti dai diversi Paesi nella Conferenza di Parigi del 2015 circa la riduzione delle emissioni di gas climalteranti, gli impegni rivisti in occasione di Glasgow e quelli necessari per realizzare l’obiettivo di mantenere l’aumento del riscaldamento globale entro il limite di 1,5° nel 2030. Per cui, secondo queste valutazioni, l’aumento prevedibile arriverà ai 2,8°. Per rientrare a 1,5° bisognerebbe che i nuovi impegni da definirsi, secondo Glasgow, entro il 2022, portassero una riduzione delle emissioni sei volte maggiore di quella prevista fino a oggi. Prevista, non realizzata, perché si tratta di impegni non vincolanti, privi di sanzioni per l’eventuale violazione se non in termini di perdita di credibilità internazionale. Ma questo è il limite strutturale degli Accordi di Parigi, ancora più evidente dopo Glasgow. A fronte di una progressione del riscaldamento globale che presenta già ora alcuni aspetti di irreversibilità, come l’accumulo di CO2 nell’atmosfera e lo scioglimento dei ghiacci, al polo Nord e sulla terraferma, i Governi producono sul palcoscenico dei media dichiarazioni impegnative, a volte altisonanti, sugli indirizzi generali, ma dietro le quinte manovrano per evitare danni alle rispettive botteghe.
Il fatto è che, al di là dell’atteggiamento dei Governi, in questa immensa partita stanno giocando le grandi concentrazioni di capitale finanziario, con le multinazionali interessate al business dell’energia schierate in prima linea e poi tutti gli altri soggetti, fino ai sistemi nazionali di imprese. Giocano in proprio, assumendo decisioni nel proprio esclusivo interesse, e giocano influenzando più o meno direttamente, e più o meno fortemente, le politiche dei singoli Stati e delle istituzioni internazionali che hanno voce in capitolo. Alla Conferenza di Glasgow sono stati accreditati 503 lobbisti e circa 100 compagnie petrolifere e minerarie. Ed è emerso un cambiamento anche nel gioco di questi soggetti.
Fino a ieri le multinazionali dell’energia rifiutavano semplicemente l’esistenza del fenomeno del riscaldamento climatico, anche finanziando campagne negazioniste. Più in generale i sistemi industriali rifiutavano di farsi carico delle emissioni inquinanti e climalteranti tendendo a scaricare problemi e costi sulle collettività, intervenendo solo quando si sollevava l’allarme dell’opinione pubblica per una questione specifica, come per il buco dell’ozono prodotto dai clorofluorocarburi, poi sostituiti nei prodotti di consumo da altri gas più innocui. Il crescere dell’evidenza del problema, per l’opinione pubblica e per i Governi, ha gradualmente spostato le posizioni del capitale industriale e di quello finanziario verso investimenti sulle energie alternative, sul nucleare e sul trattamento dei rifiuti. Influenzando i Governi e finanziando campagne e soggetti dell’ambientalismo per produrre scelte favorevoli a tali investimenti.
Oggi si apre una nuova fase. Di fronte ai seri rischi di eventi rovinosi che investirebbero le attività di estrazione e di produzione compromettendo profitti e valore delle aziende, nonché alla prospettiva di vedersi mettere in discussione componenti essenziali del modello di sviluppo, i grandi capitali si vanno orientando verso un impegno più ampio sull’intera questione ambientale seguendo due linee di indirizzo. La prima è la difesa sostanziale degli attuali sistemi di estrazione e produzione, compreso l’utilizzo di combustibili fossili, rispetto alle istanze di cessazione immediata o di riduzione consistente in tempi brevi, per evitare shock fatali all’economia e al benessere generale. Anzi, in una situazione complessiva che richiede una maggiore produzione di energia, nell’indisponibilità a breve termine di una quantità sufficiente di fonti alternative si rilancia il ricorso al nucleare, ovviamente “pulito”, e si aumenta l’estrazione e l’uso di combustibili fossili, compreso il carbone. L’altra linea, collegata alla prima, è quella di una ristrutturazione graduale dei sistemi produttivi con massicci investimenti sulle nuove tecnologie, sul nucleare, sulle energie alternative, su nuovi prodotti ecocompatibili, su nuove procedure di ripristino di alcuni equilibri ambientali già compromessi. In sostanza, si punta a mantenere il più possibile l’esistente e a intervenire per correggerne l’impatto sull’ambiente.
Si agisce sugli effetti e non sulle cause delle alterazioni perché si continua a obbedire all’imperativo della crescita e al modello di sviluppo fondato sui consumi di massa. È per questa visione “realistica” che ci si pone l’obiettivo relativo al riscaldamento globale non in termini di arresto ma di riduzione dell’aumento. Realistico ma insufficiente, anche perché di incerta e svogliata realizzazione.
La partita è molto complessa perché, al di là della difesa del sistema vigente, le diverse componenti del capitalismo finanziario hanno interessi e visioni diverse. Il mondo della finanza pura non ha infrastrutture materiali come fabbriche, miniere, supermercati; perciò se ne preoccupa relativamente, nelle situazioni e nella misura in cui queste costituiscono il sottostante del capitale finanziario controllato. Peraltro, emergenze ed eventi estremi allargano le prospettive di investimento per ricostruzioni, riconversioni, ristrutturazioni, e con gli shock indotti nelle dinamiche dell’economia reale aprono spazi alle speculazioni della finanza derivata. Di ciò, l’andamento positivo delle borse mondiali nell’era del COVID costituisce la prova migliore.
I capitali investiti nell’economia reale, cominciando dalle multinazionali dell’energia, graduano diversamente visioni e proposte all’interno della linea generale della conservazione-riconversione-innovazione dell’esistente in relazione ai propri interessi specifici. La lobby del nucleare sta riprendendo spazio rispetto a quelle del carbonfossile o del petrolio. Per il mondo dell’industria, comunque più preoccupato delle conseguenze materiali degli eventi estremi, resta la necessità di disporre di energia a basso costo e l’esigenza di evitare troppi vincoli alle attività produttive e alle immissioni di scarti nell’ambiente.
Produrre sintesi anche parziali appare tutt’altro che facile.
Nel sistema anarchico del capitalismo globale, che vincola gli Stati nelle politiche monetarie, creditizie, finanziarie e lascia liberi i grandi capitali nelle proprie strategie di produzione del valore, la gravità della crisi ambientale chiede un maggiore coordinamento di queste ultime. Il che, nella disparità di interessi, si può realizzare solo attraverso una maggiore sinergia con le politiche statali.
Schematicamente, fino a oggi i soggetti forti del capitale finanziario hanno influenzato l’alta politica degli Stati e delle istituzioni internazionali in due modi. Il primo è il lobbying diretto dei singoli attori, anche associativi, sulle singole istituzioni relativamente a singole questioni. Al di là dei canali pubblici del confronto istituzionale, il lobbying si esercita promettendo denaro, appoggi politici, sostegno dei media in cambio di decisioni favorevoli ai propri interessi. Il secondo è l’influenza indiretta sui ceti dirigenti della politica e dell’amministrazione esercitato da fondazioni, think tank, università controllate o finanziate dai grandi capitali, per produrre e favorire orientamenti generali sul funzionamento del sistema o di parti di questo, come l’ambiente, attraverso la formazione universitaria e la selezione delle future élites nonché la tessitura di reti di collegamento pubbliche o riservate tra le dirigenze in carica, comprese le proprie. Si possono citare centinaia di esempi, dalla Fondazione Rockefeller, che ha creato e finanziato il Gruppo dei Trenta e la Trilaterale (utilissima la visione dei rispettivi siti web), fino alla nostra Fondazione Agnelli o alla Luiss.
Nella situazione attuale sta emergendo una terza modalità, intermedia tra il lobbying diretto sui singoli affari e l’influenza indiretta sul quadro generale e sulle politiche relative. Questa terza modalità punta alla progettazione coordinata delle politiche pubbliche in materia ambientale e nelle altre materie a questa collegate.
Alcune grandi Fondazioni sono già impegnate in progetti di tutela dell’ambiente, soprattutto nei paesi meno sviluppati. Molte Fondazioni sono collegate in network come “Foundation 20”, che ne raggruppa settanta per promuovere lo “sviluppo sostenibile” finanziando progetti. Con lo stesso scopo in Italia opera l’ASviS, gruppo di lavoro delle Fondazioni bancarie.
Nella COP 26, a Glasgow è stata annunciata la novità della “Global Energy Alliance”, costituita all’origine dalla Fondazione Rockefeller, dalla Fondazione Bezos (Amazon) e dalla IKEA, poi allargata alla Banca Mondiale ed altre grandi banche e fondi di investimento, infine finanziata, pur modestamente, anche dagli Stati. Lo scopo è progettare e testare strategie e tecnologie innovative sulle energie rinnovabili. L’annuncio è stato dato dal ministro Cingolani come esempio di collaborazione tra pubblico e privato per realizzare l’obiettivo dello “sviluppo sostenibile”. Tuttavia, progettare le strategie per le istituzioni significa progettare politiche pubbliche, e progettarle insieme a entità espresse dai grandi capitali privati significa farle condizionare dalle strategie di investimento di questi, che comunque puntano allo “sviluppo”, sia pure “sostenibile”, per continuare a fare profitti sia sul mantenimento delle cause sia sulla riduzione degli effetti del riscaldamento globale.
Questo genere di collaborazione pubblico-privato solleva due ordini di problemi. Il primo, di ordine più generale, è che le politiche pubbliche vanno progettate e attuate da parte degli Stati per realizzare il bene comune delle collettività. Questo comprende sicuramente il buon funzionamento del sistema produttivo, ma non può far perno esclusivamente su questo subordinandovi tutto il resto. Il secondo riguarda l’emergenza ambientale e sanitaria, che non può essere affrontata adeguatamente, per le ragioni già dette, partendo dalle esigenze del sistema finanziario e di quello produttivo nel bilanciamento tra conservazione-riconversione-innovazione dell’esistente.
Per intervenire con la radicalità necessaria occorre che le politiche ambientali vengano definite in autonomia dagli Stati e dalle istituzioni internazionali, ascoltando gli esperti, i movimenti, le articolazioni della società civile. Dunque anche confrontandosi con le esigenze del mondo della finanza e dell’impresa, la capacità di innovazione delle aziende più dinamiche in alcuni settori chiave, le elaborazioni delle fondazioni e dei centri di ricerca privati, ma senza farne le centrali di progettazione e di guida della realizzazione delle politiche pubbliche.
Per evitare questo rischio bisognerà che vigilino i movimenti, le forze politiche, i Parlamenti.
L’ultima questione, comunque decisiva, riguarda i costi. Politiche pubbliche agenti anche sulle cause e non solo sugli effetti della crisi ambientale, incidendo in profondità nella struttura dei consumi e nei processi di produzione, vanno bilanciate in una situazione economica già compromessa dall’emergenza COVID con interventi di sostegno ai settori coinvolti e alle imprese, ai lavoratori e alle comunità interessate, per evitare ulteriori shock economici e crisi sociali. Così come, per il mantenimento del benessere generale, la riduzione di merci disponibili nei settori del consumo di massa va compensata con un incremento quantitativo e qualitativo dei servizi pubblici. Con treni che sostituiscano le auto, e uno sviluppo dei servizi alle persone che ne soddisfi meglio le esigenze fondamentali attraverso pratiche di cura, peraltro a impatto zero sull’ambiente.
Tutto questo richiede un impiego di risorse finanziarie da parte degli Stati molto maggiore di quanto prospettato finora. L’unica strada per reperire queste risorse è la politica fiscale, con la tassazione dei grandi patrimoni privati che la crisi continua ad alimentare, spostando la disponibilità di ingenti quantità di denaro dalle centrali della finanza privata ai bilanci delle istituzioni pubbliche. Ma questo è un altro discorso, che pure bisognerà affrontare.
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