Interventi
logomarchio430x174oriz-58d19Non spiegherò il titolo di questo incontro, del resto di per sé eloquente. Ci sarà, subito dopo di me, una ricostruzione storico-politica del problema che darà, spero, spunti per una discussione a tutto campo. Naturalmente ci sono altri problemi, di società, di mondo, che incrociano e urgono.
Ma qui ritagliamo un punto di discorso, che non vuole essere politologico, ma politico. E queste sono occasioni che si propongono non di convincere ma di comprendere. Io premetto solo alcune riflessioni di carattere teorico-politico. Premesse di pensiero, che stanno sullo sfondo e sullo sfondo forse devono rimanere. E entro subito nel merito. Qualche giorno fa, il Capo dello Stato ha espresso un’opinione impegnativa. Ha detto: si confonde spesso crisi della politica con crisi della democrazia, e invece bisogna distinguere: oggi c’è, sì, crisi della politica ma non c’è crisi della democrazia. La mia prima riflessione è su questo punto.
Se, come sembra dalle parole di Napolitano, la democrazia è da intendere come le istituzioni democratiche, il Presidente ha ragione. Non c’è oggi, vera e propria crisi istituzionale. E per una ragione semplice. Le nostre istituzioni sono, per fortuna, ancora incardinate su una salda trama costituzionale. Questa trama ha resistito alle riformette che l’hanno aggredita.
Ed è rimasto intatto il segno storico che l’aveva generata. Accade con la nostra Costituzionale, specialmente per la Parte prima e per i Principi fondamentali, quello che accade con i grandi libri che teniamo nei nostri scaffali. Nei momenti, sempre più frequenti, di sconforto e di desolazione, il gesto di prendere e aprire uno di questi libri, ti mette al riparo da cattive tentazioni: va bene, se sono state scritte queste cose, forse, provvisoriamente, vale ancora la pena di esistere in vita. Non finiremo mai di essere grati ai padri, e alle madri, costituenti – a vederla da ora, una generazione di giganti – di aver dato alla luce, questo figlio, o questa figlia, giovane ultrasessantenne. A dimostrazione del fatto che la dialettica virtuosa non è mai, banalmente, tra vecchio e nuovo, ma, intelligentemente, tra ciò che resta e ciò che cambia, tra ciò che merita di restare e ciò che ha bisogno di cambiare. Se si riuscisse a misurare su questo metro la qualità di chi fa politica, ci sarebbero risparmiate, ci sarebbero state risparmiate, tante recenti futili illusioni.
Ma torniamo al punto. L’idea di democrazia è riducibile alla forma delle istituzioni? La pratica della democrazia si esaurisce ai livelli istituzionali? Io penso che no. I classici della politica, in primis, su questo tema, Tocqueville, ma poi Kelsen e Dewey, ci hanno insegnato che democrazia politica è società democratica. Cioè società democraticamente organizzata. Non è vero che il più alto livello di democrarazia è quello della democrazia in America. Il più alto livello è quello della democrazia europea novecentesca. Quella nata dalla sconfitta, politica e militare, della soluzione totalitaria.
Sulla spinta della guerra antinazista e della lotta antifascista. Sull’onda delle due grandi rivoluzioni del Novecento, la rivoluzione operaia e la rivoluzione conservatrice. Quando emergono, da protagoniste della storia in atto, le componenti popolari, socialiste, comuniste, cattoliche,
costituenti dei partiti di massa, che superano, con un balzo di tigre, il dominio delle vecchie élites, liberali e notabilari. La più alta forma di democrazia è la democrazia organizzata. Si è detto Stato dei partiti. E questa, sì, era la costituzione materiale delle nuove istituzioni. Ma al di sotto, c’era qualcosa di più, e di più profondo, che faceva della politica un sentito e rivendicato agire collettivo:
c’era la società dei partiti.
Non un sociale, come si dice, organizzato dai partiti, ma un sociale che si organizzava attraverso i partiti politici. Sono i trent’anni, 1945-1975, che giustamente sono stati definiti “gloriosi”. Era il tempo del cosiddetto compromesso keynesiano, o compromesso socialdemocratico, che registrava un sostanziale equilibrio di forza tra capitale e lavoro. Ed era il tempo della guerra non guerreggiata, che registrava un equilibrio di potenza tra alternative di società, a livello mondo. Si, lo so, qui c’è un’obiezione, che mi faccio io prima che me la facciate voi. C’è il rischio di una visione idealizzata di un pezzo di storia, che ha avuto le sue cupe ombre e anche le sue pesanti eredità. Ma se ci mettiamo a cercare quello che ci interessa in questa sede, e cioè l’efficacia nella conoscenza critica dello stato presente delle cose, quella forma di sapere che definiamo antagonistico e realistico, bene, questa efficacia la troviamo nella memoria di ciò che è stato più, molto più, che nella preveggenza di ciò che sta per essere. Perché ciò che è stato contraddice ciò che è, mentre ciò che sta per essere temo proprio che lo confermi. Infatti, non appena si incontrano antagonismo e realismo, il pessimismo dell’intelligenza diventa egemone sull’ottimismo della volontà. E così correttamente deve essere, almeno in questa fase, in cui lo squilibrio, e non l’equilibrio, di forza è il dato storico più evidente. Questa cifra di antagonismo e realismo è qualcosa che io mi sento di rivendicare con molta forza. Ci ritrovo un ritorno di specifica attualità. Essa non ha nulla in comune con quel rivoluzionarismo minoritario, che marca tuttora una presenza sia pure solo ideologica. E darebbe invece potenza di espressione e di azione a un riformismo intelligente, di contestazione e di governo. Però quello che voglio dire di serio, è questo:
la crisi di quella democrazia, organizzata, è essa che ha innescato la crisi della politica. Ricordo che Huntington e colleghi, nel rapporto che lancia la Trilateral, partono proprio dal tema “crisi della democrazia”, dal loro punto di vista: eccesso di domande sociali politicamente rappresentate.
Anche per rovesciare questo trend democratico di massa, oltre che naturalmente per ragioni strutturali, si apre il ciclo della globalizzazione neoliberista, che con l’attuale crisi sembra chiudersi. I processi non avvengono solo perché avvengono, avvengono anche perché sono stati provocati, gestiti e poi magari abbandonati ed è quando non servono più che declinano. C’è una logica di sistema con un certo grado di autoproduzione, ma vi intervengono intenzionalità che la orientano o la usano. Nella fase neoliberista, la crisi della politica, forse bisognerebbe dire la crisi della politica democratica, è stata immessa soggettivamente nei sistemi politici. Neoliberismo e antipolitica sono risultati funzionali l’uno all’altra. Vengono avanti e crescono e si impongono contemporaneamente. Simul stabunt, simul cadent? Non è detto. Teniamo gli occhi bene aperti su questo.
Certo è che il passaggio dalla cosiddetta prima alla cosiddetta seconda Repubblica, va messo dentro il contesto di questo andamento ciclico, se vogliamo sprovincializzare il discorso e leggere l’anomalia italiana come caso europeo. E’ vero che i partiti, dagli anni Ottanta in poi, erano passati
da rappresentazione del sociale a occupazione della società. La degenerazione dei partiti di massa indubbiamente c’era. Ma si è forse tentato un qualche progetto di rigenerazione? No, si è lasciato che si scatenasse una tempesta per abbatterli. Giustizialismo, leghismo, referendarismo, ideologie populiste antipartito, intenzionalità, appunto, miste a ingenuità, sommate per un’operazione di pura destrutturazione. E’ stato un errore strategico della sinistra, aver dato per irresistibile questo andamento delle cose. In questi anni, abbiamo assistito al paradosso di una forza che continuava a legittimare i processi che la delegittimavano. C’è da aggiungere che questo è l’unico punto in cui ha funzionato l’unità delle sinistre. Bisognerebbe riprendere l’analisi della realtà effettuale del sistema di potere, delle sue trasformazioni dagli anni Ottanta ai Novanta e oltre. Il passaggio da un sistema di potere partitico a un sistema di potere personalistico, ha fatto seguito al processo di personalizzazione della politica.
Soprattutto a livello locale, sul famoso territorio, questo va diagnosticato come la malattia mortale della democrazia organizzata. Dal locale al nazionale e dal nazionale al locale si crea quel circuito perverso che mostra senza pudore al popolo la trasformazione dalla politica come professione alla politica come privilegio. E anche qui, invece che correggere la condizione, si sceglie di narrarla. La “casta” diventa una parola-concetto della politica. Il risultato è questo devastante senso comune di massa, che non è distacco dalla politica ma odio per la politica, alla fine il vero e proprio insediamento popolare di un’opinione maggioritaria di destra.
Vediamo oggi dove è arrivato per suo conto questo andamento.In un sistema politico dei partiti, un presidente del consiglio, nelle condizioni e nella figura del nostro presidente del consiglio, da tempo sarebbe stato mandato a casa dal suo partito. Immaginate, se ci riuscite, una figura come questa,
nella vituperata prima Repubblica. Una persona, magari per errore, messa lì di peso, come si faceva allora, dalla Dc. Sarebbe durato quindici anni, o quindici giorni? Le vicende ultime, lo squallore in cui è precipitata la scena pubblica, il livello di qualità della responsabilità governativa, sono cose da leggere come la conclusione quasi logica del ciclo antipolitico. Ne parleranno qui le nostre voci femminili, non perché ne debbono parlare solo loro e non anche noi, ma perché loro hanno elaborato il tema e noi no. E anche questo è un problema di cultura politica, che ci interroga. Il tema forte che vogliamo sollevare qui è che solo un’alternativa di sistema politico può rimettere coi piedi per terra un’alternativa di governo. Alternativa di governo, non tanto qui come passaggio di mano da un campo all’altro, anzi da un polo all’altro, che pure è tema necessario e urgente, ma come idea di governo alternativa a quella che ha visto la sua ascesa e poi la sua caduta nell’ultimo trentennio.
L’idea che l’economia tutto sommato si autogoverni ha portato alla pratica di una società non governata. Questa è la condizione odierna di deriva e di degrado della convivenza civile, in assenza di un senso comune del vivere in società, e in presenza degli spiriti animali dell’individuo sovrano, secondo il mito borghese che si provvede per tutti quando si provvede per se stessi.
La crisi della democrazia organizzata ha prodotto la crisi della politica governante. Non si governa con l’antipolitica, né con l’antipolitica di destra, populista e plebiscitaria, né con l’antipolitica di sinistra, partecipazionista e nuovista.
O si governa con la politica, o non si governa affatto.
Una classe politica seria, che si conquista sul campo la funzione di gruppo dirigente, è quella che sa decidere e sa farsi riconoscere, democraticamente, l’autorità del proprio potere di decisione. Non è classe politica seria quella che decide sotto dettatura degli interessi, o ancora peggio delle emozioni, o ancora peggio delle pulsioni, di una massa impolitica.
Insomma, per concludere, abbiamo bisogno di una riforma di sistema politico, scelta, pensata, argomentata, concordata, di segno opposto a quella che di fatto è venuta avanti dai primi anni Novanta in poi. Non per restaurare, ma per innovare. Non un ritorno a ciò che c’era prima, ma un superamento di ciò che c’è ora.
Il primo ostacolo da abbattere, per riprendere il cammino, è il mito della democrazia immediata, che lascia cadere la sua fascinazione oggi su progressisti e conservatori insieme. Per i progressisti la figura mitica è il cittadino sovrano, che dalla sua dimora privata nella società civile fa direttamente la sua scelta pubblica. Per i conservatori la figura mitica prende le vesti del popolo degli ultimi uomini, che direttamente plebiscita il capo, del gregge che elegge il pastore. Sbaglierò, ma a me pare di scorgere qui più che in altri aspetti che oggi si paventano come regime, una rivincita postuma della forma politica totalitaria. I governati sono rimasti i molti, i governanti si sono ridotti all’uno. La fine della democrazia organizzata, che ha provocato il crollo della politica, ci ha lasciato, a vari livelli, queste forme di potere monocratico, ai limiti della irresponsabilità pubblica, con un’aggravante veramente insopportabile, che si producono, e si riproducono, attraverso il culto della propria immagine. E questo l’hanno chiamato “il nuovo che avanza”.
Bene. Mi accorgo di aver pronunciato una sorta di catilinaria.
Chiudo, con alcune domande più sobrie. Ma è proprio un’utopia chiedere di “tornare allo Statuto”, per dirla con un’espressione storica? E cioè chiedere di voler scegliere un governo e non un premier, un partito e non un leader, un progetto di società e di Stato e non la marca di un prodotto di consumo personalizzato? Volere un confronto sul modo di vivere e non sul modo di emergere?
Bisogna saperlo. E’ un remare controcorrente.
Ma chi l’ha detto che la corrente va sempre nel senso giusto?

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