Interventi

Foto di Hans-Jürgen Schmidt da Pixabay

Nel 2018 c’è lo tsunami delle elezioni politiche: Napoli e Mezzogiorno si rivolgono con speranza ed in cerca di ‘protezione’ ai 5S che raccolgono un successo travolgente unitamente al risultato positivo, anche al Sud, della Lega: si respira una insofferenza verso il PD e i suoi governi, nazionali e regionali, verso il suo perimetrarsi nel fortino potere/istituzioni che sfocia appunto in quel quasi plebiscito ai 5S.

Dopo un anno sembra ci voglia un miracolo per immaginare possibile una riconferma del centrosinistra alla guida della Regione.

Poi la crisi del centrodestra nell’agosto del ‘Papete’; la difficoltà strutturale, repentina quanto l’ascesa, dei 5S; la progressiva involuzione e crisi dell’esperienza di De Magistris nella guida della città di Napoli; il nuovo Governo nazionale che rimette in gioco il PD, dischiudono nuove possibilità.

E arriva Pandemia, con il suo carico di sofferenze e di dolore e con l’affermarsi di modelli di governo emergenziale raccolti intorno a singole figure che assumono su di sé la responsabilità del comando e delle scelte: un ambiente ideale per il Presidente della Regione, nel quale egli riprende fiato, consenso, forza.

Del resto si potrebbe dire che tutta la sua esperienza istituzionale è di carattere ‘emergenziale’. Addirittura gli ultimi 5 anni hanno visto il Governo della Regione affidato a un Presidente che ha assorbito le deleghe di mezza giunta: qui in Campania, con i suoi 6 milioni di abitanti, con la complessità di un’azione di Governo, ci siamo permessi il lusso di avere un Presidente anche e contemporaneamente Assessore all’Ambiente, alla Sanità, alle Infrastrutture, alla Cultura, all’Agricoltura. Nei fatti un Presidente-Commissario.

Non credo che l’efficienza amministrativa e dell’azione di Governo, fino alla capacità di spesa dei Fondi comunitari, se ne siano avvantaggiati.

E così, in questi anni, matura un vero e proprio salto nei modelli e nella pratica politica sotto i nostri occhi, non compreso appieno e forse ancora oggi non colto in tutte le sue implicazioni.

Un salto che consegna una ulteriore lateralizzazione del soggetto partito, il PD, del suo ruolo e della sua funzione, mai sperimentata in forme così radicali nella sua esperienza non solo in Campania ma nel paese.

E il salto consiste nel fatto che anche la materia elettorale, l’organizzazione della rappresentanza, la costruzione della coalizione elettorale passano di mano e dal partito vengono consegnate, o prese, o lasciate all’istituzione. E così il motore di tutto diventa Santa Lucia (sede della Presidenza della Regione).

Negli anni ’90 del Novecento il Professor Calise analizzò la dinamica del Partito Personale, del partito cioè costruito a immagine e somiglianza del leader.

Nel primo decennio del nuovo millennio quella evoluzione ha destrutturato ulteriormente il soggetto politico ed è evoluta in quella che definisco ‘Persona Partito’: della persona cioè che entrata nel partito (qualunque partito), dotata di un suo pacchetto di consensi e di voti, è tesa alla affermazione di un suo disegno personale e si muove ed agisce esattamente come soggetto politico che contratta e condiziona, esige e ricatta.

Il Partito si è ridotto così a un insieme di Persone Partito, ciascuna con la propria filiera di consenso e di legami legittimanti, verso l’alto e verso il basso e si è disintegrato con il pieno protagonismo delle leadership nazionali che, in grande, hanno replicato lo stesso modello.

Nel Caso Campano, le due formule (Partito Personale e Persona Partito), sono sfociate in ciò che potremmo definire come il nascere dei Partiti della Persona: cioè abbiamo assistito, e stiamo tutt’ora assistendo, al leader istituzionale che si fa promotore diretto, dal suo centro istituzionale, della soggettività politica (cosiddetta).

E così per mesi da quel livello si è pianificata l’organizzazione di 17 liste: 17.

Si sono organizzate le Liste e una Coalizione a tavolino. Ovviamente non sono, tranne qualche eccezione, liste di partito o di movimento politico, sono liste e partiti del Presidente che con il suo staff ne ha selezionato composizione, dosato equilibri, organizzato relazioni.

Il tutto avvenuto nel silenzio del PD che l’unica cosa che è riuscito ad ottenere, ma anche l’unica che ha chiesto, è stata la piccola riduzione dei reparti dell’Armata Presidenziale: invece di 17 alla fine sono 15.

A me sembra un fatto enorme che pur dentro una tendenza marcata degli ultimi due decenni almeno, ne segna un salto.

Verso quale assetto, concezione, pratica della politica si sta andando?

E le idee, i contenuti, le visioni progettuali e i referenti sociali e la partecipazione che spazio hanno in tutto ciò?

L’ampiezza stessa della ‘coalizione’ allestita presuppone l’indistinzione programmatica, fa di questa neutralità uno dei suoi dati costitutivi: proprio perché hai messo insieme tutto e il contrario di tutto non puoi permetterti il lusso di scegliere.

Un dramma secondo me questo: proprio quando invece le domande poste dalla Pandemia e dalla crisi ambientale del Pianeta richiederebbero il massimo di scelte nuove.

Tutto ciò peraltro è gravido di conseguenze anche per le Istituzioni e il loro governo e funzionamento, perché vuol dire che ci sarà l’estenuante ricerca del consenso delle Persone-Partito che ti hanno aiutato a vincere. E ciascuna di loro avrà una sua priorità, un suo interesse, un suo bisogno da soddisfare. E quindi, la mediazione sarà facile che si svolgerà sul terreno delle compensazioni, dei ruoli, delle mance, della allocazione delle risorse pubbliche: una zona grigia che non si sa dove può condurre e nella quale il Mezzogiorno rimarrebbe inchiodato.

Ed è in questa situazione che piomberanno le risorse della nuova programmazione comunitaria e quelle del Next Generation EU.

E così, l’Armata Presidenziale che si avvia a vincere le Regionali, sembra, segna la sconfitta della Politica e di un Partito, il PD, che rimane tutt’ora privo di un indirizzo strategico a livello nazionale ed espostissimo nei territori, alle scorribande di capi e capetti.

Siamo in questo in presenza, insisto, non di un fatto residuale e localistico determinato dalle eccentricità o dai caratteri dei protagonisti, ma di una delle forme più estreme raggiunte dalla crisi della politica, dei partiti e delle forme di partecipazione alla vita pubblica: uno degli effetti perversi e ultimi della torsione personalistica che vive la politica italiana e contemporanea da troppo tempo.

E questo processo di sostituzione qui è stato particolarmente accentuato perché non ha trovato ostacoli, si è potuto muovere in un campo lasciato sgombro proprio da quel soggetto politico che avrebbe dovuto presidiarlo.

Ci sarebbe da chiedersi sul perché qui sia accaduto in modo così netto.

Io penso, ma questa è materia di un’altra riflessione, che ciò sia avvenuto anche perché con le precedenti esperienze, che hanno segnato di sé circa un ventennio, raccolte intorno ad Antonio Bassolino, si è scelto di non fare i conti. Anzi, tutto è stato rimosso impedendo così anche un ‘superamento’ positivo di quella stessa stagione e togliendo forza al soggetto che avrebbe dovuto interpretare la fase nuova successiva.

Soggetto politico che progressivamente si è costruito, nella sua vita interna, come federazione di gruppi e correnti personali e autoreferenziali, e, per questa via, ha rinunciato a ogni ipotesi di ricerca di legittimazione nella società per rinserrarsi nel perimetro istituzionale e del governo, dell’amministrazione come fonte primaria di garanzia di ruolo e di consenso: è il Partito che non ha pensato più se stesso come strumento indispensabile per consentire ai cittadini di ‘concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale’ (Art.49 della Costituzione).

Siamo in presenza di una dinamica che investe la politica italiana.

Tutti i partiti, e il Pd non meno degli altri, si sono trasformati così in strumenti di promozione e tutela per ceti politici; da strumento di partecipazione a strumento di progressiva riduzione a ceto politico separato, vera e propria élite che fonda la sua legittimazione su una base sociale sempre più ristretta ed esigua e, in un processo che si avvita, essa stessa, istituzionalizzandosi e separandosi sempre più, diventa immediatamente ulteriore fattore di indebolimento della democrazia e concorre attivamente alla sua crisi.

Senza questa chiusura elitaria della politica non ti spieghi altrimenti lo spazio lasciato libero per tutte le insorgenti attivazioni populistiche e nazionalistiche: il progressivo restringersi dell’orizzonte della prima ha aperto tutto lo spazio al diffondersi delle seconde.

C’è una società che è spinta a non riconoscersi, a sentirsi ai margini, sempre più precarizzata nella sua condizione sociale e frantumata.

Quindi, il restringimento della rappresentanza democratica, delle forme di partecipazione, la chiusura della politica in una dimensione sempre più elitaria e autoreferenziale l’ha esposta, e come poteva non essere così, a non essere socialmente neutra: la politica, privata della forza e della spinta del suo fare società, organizzare società e partecipazione, del mettere insieme chi meno ha, è diventata ‘prigioniera’ degli interessi dei più forti, dei grandi potentati economici e finanziari che hanno affermato il loro dominio su un mondo non pacificato però. In qualche modo se ne è fatta loro strumento.

E così il pubblico è stato sottoposto al privato, anche culturalmente. Dominante è diventata la cultura d’impresa, da avere a riferimento, da ricercare, da emulare, assunta a paradigma di efficienza proprio quando ne emergono tutti i limiti, tutte le improduttività e le inefficienze (sociali, ambientali, economiche), se si muove sganciata da qualsiasi elemento di responsabilità sociale e con l’interdizione per i lavoratori a qualsiasi forma di condizionamento delle sue scelte.

Si sono aziendalizzate la sanità, la scuola e l’università, la cultura.

Il privato ha occupato il pubblico, ne ha progressivamente espulso le ragioni sociali e di partecipazione.

La democrazia, lo Stato, il pubblico diventano così sinonimi di pratiche e di tutele opposte a quelle delle loro origini, si ergono estranei quando non ostili ai più.

E i più rispondono con un eguale processo di estraniazione: il non voto mai così alto, cosa è se non la manifestazione più palese di un processo di disaffezione nei confronti della democrazia?

Così, la democrazia, dal secondo dopoguerra, non è mai stata così esposta, fragile.

Ma mai così esposto e fragile, frantumato, esposto, è stato il demos.

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