Il modo nel quale, in questi giorni, si discute della possibilità di un energy crunch legatoa un taglio delle forniture di gas dalla Russia è altamente rappresentativo – come un concentrato – del modo nel quale, in generale, la questione della transizione energetica è presente nelle agende dei governi e in larga parte dell’opinione pubblica (compresa una parte dell’ambientalismo): un problema di sostituzione, che bisogna risolvere affinché le cose, per il rimanente, possano continuare a svolgersi come di consueto.
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Il problema di compensare un’eventuale riduzione del gas di provenienza russa si pone nei termini di una possibile emergenza, e appunto come tale è stato trattato da Mario Draghi in occasione dell’intervento che ha tenuto alla Camera il 25 febbraio scorso. Le prime misure citate hanno riguardato il versante dei consumi, in chiave di maggiore flessibilità e di riduzione; subito dopo, la ricerca di forniture alternative, individuate nelle seguenti:
Comune a tutte le linee d’azione prese in esame è la possibilità di essere perseguite in tempi stretti, come in effetti è necessario in situazioni di emergenza. Tratto saliente delle ultime due è la produzione di danni ambientali particolarmente elevati, come subito viene da pensare nel caso del carbone, ma non è meno vero in quello del trasporto transatlantico di gas liquefatto statunitense1. Anche qui, però, si fa valere la logica di una situazione emergenziale, nella quale, tipicamente, non si può andare troppo per il sottile – salvo il fatto che l’inclusione di soluzioni ambientalmente assai costose dice qualcosa circa la visione sottesa all’insieme dei provvedimenti presi in considerazione, lasciando intendere una precisa volontà di limitare gli interventi dal lato dei consumi, in modo che le riduzioni risultino della minore entità possibile. Anche al prezzo, appunto, di adottare comportamenti che sono l’esatto opposto di quelli richiesti dalla lotta contro il Climate Change.
Nell’immediato, comunque, ammettiamo pure che si debba ragionare nei termini di uno stato di necessità al quale non è possibile sottrarsi, e che qualcosa di inevitabile, per quanto doloroso, debba essere messo in conto. Per la verità, resta da capire se l’insieme delle misure di sostituzione sarebbe sufficiente a fronteggiare la situazione nel caso in cui la contrazione delle forniture russe dovesse assumere proporzioni severe: vari osservatori hanno richiamato l’attenzione sui limiti che ognuna delle suddette ipotesi non manca di mostrare, vuoi in termini di portata, vuoi dal punto di vista dei tempi di attivazione, e in effetti, nel complesso, sembra improbabile che i loro apporti sarebbero all’altezza del compito di compensare un vero e proprio energy crunch2. Il che, salvo errore, contribuisce a spiegare l’estrema riluttanza a utilizzare gli acquisiti di gas come strumento di sanzione, e la preoccupazione, piuttosto, di proteggere i flussi dagli effetti delle sanzioni di tipo finanziario e monetario. Con un’ulteriore accentuazione, si capisce, della sensazione di dipendenza da un sovrastante stato di necessità: l’obiettivo che le disponibilità di energia non abbiano a ridursi è tanto cogente da motivare un’ipotesi come quella di richiamare in servizio il carbone e una scelta come quella di non rinunciare al gas di Putin.
Vedremo se ulteriori aggravamenti della situazione costringeranno comunque a farlo: speriamo di no, naturalmente, non per l’energia che verrebbe a mancare, ma per le tante altre morti che sarebbero all’origine di un esito del genere. Nel frattempo, quello che di sicuro si può dire è che nessuna possibile emergenza imponeva a Draghi di cogliere l’occasione delle comunicazioni alla Camera per ribadire senza ombra di sfumatura la scelta di considerare il gas naturale una fonte ‘plausibile’, sulla quale continuare a investire, sia pure pro tempore, in via ‘transitoria’3. Beninteso, nulla di nuovo: il ministro Cingolani, che Draghi non ha mancato di ringraziare, ripete di continuo che del gas naturale, ancora a lungo, non potremo fare a meno. Tuttavia, in presenza di evidenze tanto cospicue circa i rischi legati al profilo geopolitico della risorsa, ci si poteva forse aspettare un diverso livello di prudenza. Viceversa si deve segnalare il respiro che Draghi ha conferito all’argomento, fino a farlo diventare qualcosa di simile a un asse strategico della transizione, compreso l’invito a “riflettere” sulla necessità di un aumento degli impianti destinati ad accogliere e rigassificare il prodotto liquefatto proveniente d’oltreoceano.
Può darsi che tanta enfasi rifletta anche il recente ‘via libera’ che il gas ha ricevuto dalla Commissione europea, alla quale – sia pure a certe condizioni e temporaneamente – è sembrato appropriato includerlo tra le fonti ‘sostenibili’ nell’atto delegato approvato in attuazione della Taxonomy Rregulation4. Ma è pur vero che proprio quest’ultima circostanza ha riattivato la discussione sull’argomento, compresa la fermissima presa di posizione contraria assunta dallo stesso gruppo di esperti che opera a supporto della Commissione5. In breve:
Tutto ciò, che può dirsi patrimonio consolidato dell’ambientalismo più avvertito, rende irricevibile tanto l’orientamento maturato a livello europeo (per altro non ancora consegnato a una scelta definitiva7) quanto la netta posizione assunta dal Governo italiano. Della quale però, in questa sede, importa soprattutto la giustificazione nei termini di una scelta obbligata, dettata da cause di forza maggiore: dal gas naturale, appunto, piaccia o non piaccia, non è possibile prescindere. Di nuovo, dunque, il senso di una necessità stringente, inderogabile, che in tal modo, però, trascorre dal tempo breve di un’emergenza – nel quale in effetti può assumere la forza di un allarme – a un orizzonte di medio e lungo periodo, dove tutto, invece, è ancora da vedere.
Al fondo, il problema riguarda la quantità di energia di cui pensiamo che vi sia bisogno – si tratta di una grandezza disponibile al vaglio della critica oppure di una grandezza in certo modo ‘data’, stabilita ex ante, la cui determinazione deve rispettare un qualche genere di ‘oggettività’?
Abbiamo già visto che le attuali contingenze storiche lasciano ben poco spazio all’ipotesi di una valutazione critica degna di questo nome, di qualche respiro: il consumo di energia deve modificarsi quanto meno sia possibile, pazienza per i danni ambientali che deriveranno dall’impiego di fonti come il carbone o il gas liquefatto che proviene d’oltreoceano. Difficile sentirsi a proprio agio con una situazione del genere; ma quello che qui importa osservare è soprattutto che una sorta di ‘dittatura dei livelli di consumo’, tutto sommato non tanto diversa da quella appena rilevata, domina in realtà l’intero discorso pubblico in materia di compatibilità ambientali, condizionandolo nel suo stesso impianto logico. E appena più in particolare, importa osservare come la cosa avvenga al coperto di un’assunzione implicita, che proprio in quanto tale risulta sottratta a ogni possibilità di critica. In breve, tutti i principali modelli di simulazione, previsione, proiezione, ecc., compresi quelli del giustamente celebre Intergovernamental Panel on Climate Change, incorporano, nascosta nelle pieghe delle premesse, un’ipotesi ‘convenzionale’ circa il tasso di crescita delle attività di produzione e di consumo, dalle quali il fabbisogno di energia dipende sotto ogni aspetto. Se non lo facessero non potrebbero muovere un solo passo in direzione delle stime che devono fornire: il saggio di crescita del Pil, del quale ovviamente si tratta, è una specie di mattone fondamentale, o di ‘gancio’, al quale si attacca tutto il resto, e appunto per questo, però, è tanto più stupefacente che la sua misura non venga mai discussa in quanto tale8.
Nel caso di un paese ricco come il nostro, la suddetta ipotesi convenzionale corrisponde a un tasso di crescita composto (dunque a una crescita esponenziale) intorno al 2,5% all’anno – e per conseguenza, proprio a causa della natura a priori di tale assunzione, accade:
Tale, per l’essenziale, la logica dello ‘sviluppo sostenibile’, della quale è inutile dire quanto largamente domini il dibattito in materia di compatibilità ambientali – ma che in effetti presenta un ‘punto cieco’ in grado, se non rilevato e discusso, di pregiudicare del tutto la sua plausibilità. In breve, si tratta del fatto che il livello di consumo implicito in a) non è comunque sostenibile: più precisamente, non può essere decarbonizzato senza dar luogo ad altre violazioni dei planetary boundaries, diverse dall’effetto serra e dal Global Warming, forse immediatamente meno gravi, visto il punto limite ormai raggiunto e superato in materia di concentrazione della CO2, ma non per questo degne di essere approvate. E il fatto, ancora, è che questo accade per motivi ‘profondi’, legati alla natura integrata dei sistemi ecologici. L’intero sistema-Terra, in effetti, può essere compreso soltanto come un ‘tutto’, come un ‘intero’, con il risultato che in verità non esistono tecnologie ‘innocenti’, dalle quali l’ambiente non riceva alcun significativo livello di pressione: alla lunga, la misura e i modi dell’impiego di ogni tecnologia sono tanto importanti quanto la sua maggiore o minore appropriatezza. Così, come è fonte di guasti ambientali nella sua versione emergenziale, la dittatura dei livelli di consumo non manca di prefigurare danni anche quando sia riferita a una prospettiva di lungo periodo – nella quale, però, nessuna causa di forza maggiore o scelta obbligata può essere fatta valere in modo ragionevole
Naturalmente, l’insostenibilità dei livelli di consumo di cui al punto a) deve essere argomentata in modo appropriato, cosa che abbiamo cercato di fare in un precedente contributo comparso in questa stessa sede, del quale, adesso, può essere richiamato soltanto il senso generale: la riduzione della pressione su quel fondamentale planetary boundary che è la concentrazione di CO2 nell’atmosfera, resa possibile da un massiccio deployment di fonti rinnovabili, si accompagna a un aumento della pressione sui ‘materiali’ e sul territorio, già oggi molto maggiore del desiderabile, con una forte accentuazione, per intendersi, dell’‘estrattivismo’ che in generale contraddistingue il nostro sistema economico. Lo spostamento che in tal modo prende corpo dà luogo a conseguenze su tutti i piani rilevanti: quello ambientale in senso stretto, quello socio-ambientale, quello delle disponibilità ‘assolute’, quello dei prezzi, quello geopolitico (con particolare riguarda alle relazioni Nord-Sud). Il che, tra l’altro, contribuisce a spiegare la crescente attenzione della quale sta beneficiando il nucleare, anche al di là della sua tradizionale area di sostegno10: in effetti, se l’andamento del consumo di energia non può essere influenzato altrimenti che grazie al progresso tecnologico ‘lato impieghi’, la tesi a favore del ricorso all’energia nucleare finisce per trovare argomenti non proprio trascurabili. Tuttavia, visto che questi ultimi non tolgono nulla ai problemi di sostenibilità dai quali la tecnologia nucleare, per parte propria, non manca di essere segnata, dalla gestione delle scorie a ulteriori profili di pressione sul territorio, particolarmente in termini di sua ‘militarizzazione’, il risultato non è altro che una conferma del punto già affermato: nulla di realmente sostenibile può essere ottenuto se l’argomento ‘consumi’ non è affrontato in modo profondamente diverso da quello oggi prevalente.
Vale a dire, innanzi tutto, mettendo in discussione l’ipotesi convenzionale circa il tasso di crescita del Pil, affinché quest’ultima assuma un profilo più misurato, in certo modo più ‘dolce’, al quale, fermi restando tutti i progressi tecnologici ‘lato impieghi’, verrebbe a corrispondere un fabbisogno di energia (e di materia) nettamente minore di quello attualmente previsto dai modelli – e sul serio, finalmente, ‘sostenibile’.
Dovrebbe essere già chiaro, ma va senz’altro detto in modo esplicito, che una prospettiva del genere riguarda soltanto i paesi ricchi. Più precisamente, la sua giustificazione contempla come parte integrante il principio delle Common but Differentiated Responsabilities, che in particolare deve governare la ripartizione a scala globale della quantità di CO2 che ancora possiamo permetterci di immettere nell’atmosfera senza compromettere definitivamente l’equilibrio climatico del sistema-Terra (che a sua volta ne condiziona tanti altri): paesi come il nostro devono mettere in discussione il bench mark del proprio profilo di crescita affinché i paesi poveri possano crescere in misura coerente con i loro bassi livelli di partenza11.
Ovviamente, un profilo di crescita più misurato, più ‘dolce’, non configura un’ipotesi di de-crescita, ma neppure va messo in sordina il fatto che l’espressione allude a una crescita senz’altro meno rapida di quella esponenziale che i modelli, assecondando la communis opinio dell’establishment globale, affidano al già citato 2,5% composto all’anno12. Al tempo stesso, si può ben argomentare che la scelta di adottare una nuova norma della crescita, in molti sensi più ‘riflessiva’ di quella vigente, può essere vissuta in modo diverso dalla sopportazione di un puro e semplice ‘sacrificio’, al quale rassegnarsi per ragioni di equità globale. Della prospettiva, intanto, devono far parte profondi cambiamenti dell’ordinamento sociale ed economico, grazie ai quali, in particolare, i problemi delle disponibilità di reddito e della partecipazione al lavoro siano oggetto di interventi consapevoli, di segno redistributivo, piuttosto che affidati alla fallace convinzione che maggiori quantità di crescita possano, di per sé, risolverli; e al tempo stesso, però, della stessa prospettiva, possono fare parte profondi cambiamenti dei modi di soddisfazione dei bisogni, forieri di forme più alte e più civili, secondo il principio dei co-benefits, facilmente esemplificabile sui casi del trasporto e dei regimi alimentari, ma in verità dotato d’un raggio d’azione sorprendentemente ampio.
Così, però, si torna all’attualità della guerra. Le ultime considerazioni, ci sembra, lasciano intravvedere la possibilità di disegnare un ‘quadro di coerenze’ nel quale il rispetto dei planetary boundaries vada di pari passo con il riconoscimento delle esigenze di crescita civile vissute da ogni popolo della Terra, ragionevolmente differenziate (appunto) a seconda della storia che ha alle spalle. Ma si tratta appunto di una possibilità in sé, che per sua natura, al fine di attingere un diverso piano di realtà, pretende l’inaugurazione di un quadro delle relazioni globali di tipo cooperativo, ovvero fondato su un’‘egemonia comune’, se così si può dire, piuttosto che sulla difesa di supremazie residue e/o sulla formazione di nuovi epicentri politico-economici, secondo la logica da sempre in atto nella storia del capitalismo. Il che, naturalmente, è l’esatto opposto del quadro nel quale ha preso corpo la sciagurata, tragica scelta bellica di Putin.
In questo momento, veramente, non si sa come alimentare la speranza di un ordine mondiale vivibile per tutti. Soltanto, per non limitarsi a dire ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, si può aggiungere che i fatti in corso, comprese la minaccia di una vera e propria emergenza energetica e le relative strategie di affrontamento, confermano quanto intimo sia il legame che unisce la pace tra gli esseri umani e la pace tra gli esseri umani e la Terra.
Note
1 Oltre alle perdite in fase di estrazione, particolarmente gravi se realizzata mediante fracking, il trasporto del gas naturale in forma liquefatta prevede un tasso di perdita per evaporazione (boil-off rate) di almeno lo 0.15% per giorno di navigazione. A queste perdite dirette vanno aggiute le emissioni dovute all’energia necessaria nel processo di liquefazione, valutabile (in termini di utilizzo di gas) tra il 5 e il 15 % della quantità da liquefare. A tutto ciò è da aggiungere il dispendio di energia legato al medesimo trasporto su lunghe distanze. Per un’analisi più approfondita, cfr. J. Pospíšila, P. Charvát, O. Arsenyeva, L. Klimeš, M. Špiláček e J.J. Klemeša, Energy demand of liquefaction and regasification of natural gas and the potential of LNG for operative thermal energy storage, Renewable and Sustainable Energy Reviews 99 (2019) 1–15.
2 Si veda ad esempio: Giuseppe Colombo, Non sarà il gas americano a scaldare l’Europa, Huffington Post, 27.12.2021.
3 Circa la ‘transitorietà’ del perdurante ricorso al gas naturale, cfr. nota successiva. La posizione espressa da Draghi rende tanto più degna di considerazione la scelta, che Enel ha compiuto nei giorni immediatamente precedenti lo scoppio della guerra, di non partecipare alle aste per il capacity market riguardanti la conversione a gas delle centrali di Civitavecchia, Brindisi a La Spezia, in vista dell’uscita dal carbone entro il 2025. Si tratta di uno sviluppo senz’altro positivo, che a Civitavecchia, in particolare, ha raccolto le istanze di una larga mobilitazione delle associazioni ambientaliste e di un convinto impegno della locale Camera del lavoro territoriale. La concomitante proposta di un progetto per la realizzazione di un parco eolico off-shore, avanzata dalle associazioni territoriali e dell’assessorato regionale alla transizione ecologica, come pure le scelte che Enel sta compiendo anche altrove in materia di fonti rinnovabili e accumuli, testimoniano l’effettiva possibilità di un sistema elettrico libero dalle fonti fossili, gas compreso. D’altra parte, sempre con riferimento alla situazione di Civitavecchia, va detto che una coerente valorizzazione del risultato raggiunto implica ulteriori passi avanti, non scontati, in direzione di un consistente utilizzo dell’energia solare (che condizioni favorevoli rendono possibile in termini paesaggisticamente sostenibili), anche ai fini di una completa elettrificazione delle attività portuali, a loro volta fortemente climalteranti. Come pure, per tutt’altro verso, c’è da dire che la possibilità di ricorso al carbone presente nelle comunicazioni di Draghi, confermata in chiave operativa dal Consiglio dei ministri del 28 febbraio scorso, getta una luce sinistra sulla prospettiva di un effettivo phase out entro il 2025.
4 La Tassonomia di cui si tratta è uno strumento concepito al fine di orientare gli investimenti privati verso attività economiche che “contribuiscano sostanzialmente” a realizzare la transizione energetica necessaria a raggiungere il traguardo zero emissioni nette al 2050; e tale, nel suo contesto, è il significato da attribuire al termine ‘sostenibili’. La temporaneità prevede la possibilità di nuovi investimenti fino al 2030 (con effetti che possono dunque estendersi fino al 2050 e oltre, visti i tempi di vita degli impianti); le condizioni delle quali è imposto il rispetto riguardano la quantità di CO2 per kWh, per altro divenuta soggetta a limiti meno stringenti di quelli già previsti.
5 Quello che compone la Piattaforma sulla finanza sostenibile, istituita dalla Commissione come proprio organo consultivo ai fini degli atti normativi collegati alla Tassonomia.
6 In generale, circa i problemi di stabilità delle fonti rinnovabili e le alternative disponibili al fine di risolverli, cfr. F. Padella, La via italiana alla transizione, Per un’Italia a tutto gas?, del 22.04.2021. In chiave più ravvicinata, non senza rapporto con le cose dette in nota 3, è da segnalare l’aggiudicazione da parte di ENEL di oltre 2/3 di nuova capacità di produzione elettrica mediante utilizzo di sistemi di accumulo a batterie (BESS), e in particolare, al loro interno, i 500 MW destinati alla Sardegna, con l’obiettivo di trasformare la produzione energetica dell’isola in un sistema completamente rinnovabile.
7 Nei prossimi mesi, la decisione della Commissione sarà sottoposta al vaglio del Consiglio e del Parlamento, nel quale non poche forze si sono già espresse in senso contrario. Forti contrasti, del resto, non sono mancati all’interno dello stesso organo esecutivo, accompagnati dall’annuncio di possibili (probabili) ricorsi alla Corte di giustizia europea.
8 Una chiara denuncia di questo stato di cose, corredata da un giusto livello di indignazione scientifica, è contenuta in Kai Kuhnhenn, Economic Growth in mitigation scenarios: A blind spot in climate science, Heinrich Böll Foundation, dicembre 2018, https://www.boell.de/sites/default/files/endf2_kuhnhenn_growth_in_mitigation_scenarios.pdf. In proposito cfr. anche Lorenz T. Keyßer & Manfred Lenzen, 1.5 °C degrowth scenarios suggest the need for new mitigation pathways, Nature Communications, https://doi.org/10.1038/s41467-021-22884-9.
9 Tecnicamente, si tratta dell’intensità di energia per unità di Pil, vale a dire del rapporto tra il totale dell’energia primaria consumata all’interno di un paese e l’intero valore del suo Prodotto interno lordo.
10 Che la Commissione europea ha a sua volta incluso tra le fonti ‘sostenibili’ nella già citata Tassonomia (cfr. nota 3), innescando reazioni non meno aspre di quelle che hanno riguardato il gas.
11 Su questo punto, cruciale, indicazioni un poco più precise si trovano in A. Montebugnoli, V. Artale, C. Storino e F. Padella, Ambiente. Innovazione tecnologica e innovazione sociale: un rapporto da riequilibrare, del 16.12.2021.
12 Un profilo più ‘dolce’ può significare una crescita non esponenziale, oppure esponenziale secondo un fattore di proporzionalità (molto) più piccolo del 2,5% – e comunque, nel lungo periodo, sempre rivedibile.
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