Come possiamo dirci ancora europeisti se il grado di identificazione con questa Europa è arrivato al limite? Così devono averla pensata anche la maggior parte dei cittadini europei che hanno disertato le urne nel voto per il rinnovo del Parlamento europeo dello scorso giugno in cui, infatti, il 49% ha votato contro il 51% che è restato a casa.

Nulla di nuovo rispetto al 2019, tuttavia colpisce il fatto che, se nei Paesi del nord-ovest e dell’est dell’UE il tasso di partecipazione al voto, seppure di poco, è aumentato, nel sud è sceso sotto il 40%. È crollato del 17% nella Grecia memore della terapia somministrata dalla Troika, dell’11% in Spagna, del 6% in Italia dove, per la prima volta, la partecipazione al voto non raggiunge il 50%; il valore più basso di sempre.

Messaggi in bottiglia che nessuno pare raccogliere, nella convinzione ormai radicata che non è il voto a dare legittimità a una costruzione la cui vita e le cui decisioni prescindono da esso, per rispondere al potere di cui i governi si sono appropriati creando un nuovo tipo di europeismo: quello “intergovernativo”.

Proprio per questo, sono apparse quanto mai ingenue le attese di penalizzazione nei confronti della Presidente del Consiglio Meloni e del suo candidato, l’onorevole Fitto, per non aver votato a favore, in prima battuta, della Presidente von der Leyen. Infatti, una volta ottenuta la nomina del Vicepresidente della Commissione, quel riconoscimento è stato ricambiato da un voto del Parlamento che ha modificato l’equilibrio della stessa maggioranza, la quale inizialmente sosteneva la Commissione von der Leyen con l’ingresso di una parte della destra e l’uscita di una parte non secondaria del Gruppo socialista (SPD e Sinistra francese), dei verdi, per non parlare di chi, a sinistra, in quella maggioranza non era mai entrato.

Anche a causa di questa involuzione, eviterei analogie con la situazione interna italiana nella prospettiva di costruire un’alternativa al governo di destra-centro.

Lo spostamento a destra del quadro politico europeo ha iniziato a mostrare i suoi effetti e produrrà conseguenze nell’intera legislatura, dove, caduta anche nel Parlamento la barriera contro le destre, il Gruppo popolare potrà avvalersi di maggioranze variabili a seconda dei provvedimenti da trattare.

La stessa dinamica del rapporto tra Parlamento, Consiglio e Commissione – che in passato vedeva un’alleanza tra Parlamento e Commissione (istituzioni “comunitarie” maggiormente rappresentative del processo di integrazione), capace di arginare il Consiglio, portatore degli interessi dei Governi – sembra essere stata “normalizzata”in favore del potere di questi ultimi.

Tutto ciò ha ricadute evidenti sul ruolo dell’UE e sulle sue politiche, o meglio, sull’assenza di politiche all’altezza della sfida posta dai nuovi equilibri mondiali, un’assenza che ripropone la guerra come strumento possibile.

È stato impressionante vedere come in questi tre anni l’attitudine bellicista si sia affermata in tutte le istituzioni con un allineamento inedito tra Consigli, Commissione, Parlamento e NATO. L’UE, la cui storia è legata per ovvie ragioni alla promessa di pacificazione del continente, non è stata in grado di produrre alcuna iniziativa comune per prevenire o fermare questa catastrofe; anche quando altri Paesi, come la Turchia, dimostravano che un’intesa era possibile già dall’inizio più o meno negli stessi termini di un ipotetico accordo ancora di là da venire.

La stessa tregua a Gaza, che il neo Presidente Trump ha imposto come tributo in occasione del suo insediamento, ricalca i contenuti del piano che già era possibile attuare otto mesi fa. Scopriremo solo dopo cosa è stato promesso in cambio a Netanyahu, ma già se ne può avere un’idea con le tragiche ricadute in Cisgiordania.

Nel frattempo, quanto è costato tutto questo in vite umane e distruzioni?

Al primo punto all’ODG dell’UE oggi vi è il riarmo; anche su questo la confusione è massima. Intanto, tutti giocano al rialzo: dall’obiettivo iniziale di spesa militare del 2% del PIL, siamo passati al 5%. Ursula von der Leyen, indicando come elemento di paragone l’andamento della spesa della Russia, ha addirittura parlato del 7% tendenziale. Ma ormai, sotto questi obiettivi c’è totale sovrapposizione, e grande confusione, tra NATO e Difesa europea. Non dovrebbe sfuggire a nessuno che, mentre, in principio, non parliamo della stessa cosa, lo slogan “separati ma non separabili” – che, nella sua ambiguità, aveva in passato ben riassunto il rapporto tra NATO e UE – con il recente ingresso di Finlandia e Svezia nella NATO, rischia di essere superato, arrivando così a una totale identificazione geografica e politica. La stessa politica di Difesa comune europea, in questo quadro, perderebbe quel potenziale di autonomia che portò Altiero Spinelli a sostenerla negli anni ‘50 agli albori del processo di integrazione europea. Il gelo che sta calando sulle relazioni USA-UE dopo i discorsi e gli atti che hanno accompagnato l’esordio dell’Amministrazione Trump (uscita unilaterale dall’OMS e dagli accordi di Parigi sul clima), segnala, una volta di più, quanto sia pericolosa questa subordinazione. Le stesse minacce sui dazi possono essere colte dall’UE per ripensare il suo modello economico ossessivamente basato sulle esportazioni più che sul mercato interno, avendo come bussola il potere di acquisto delle classi medie e medio-basse, i diritti del lavoro, la qualità dei servizi; tutte questioni che, insieme alla guerra, stanno gonfiando le vele delle destre, anche più estreme.

Il discorso, quindi, torna sull’Europa e alla sua volontà di costruirsi come soggetto autonomo governato da regole democratiche con istituzioni trasparenti e legittimate, e retto da una Costituzione. Ciò è reso ancor più urgente in un mondo in cerca di nuovi equilibri in cui questa Europa ha già visibilmente perso ruolo politico, vede ridimensionato il suo ruolo economico, non è in grado di far seguire agli obiettivi che annuncia un sistema di ricerca e di innovazione che sostenga una politica industriale a dimensione europea.

Concentrare la spesa sulla difesa, senza neanche una visione chiara del quadro in cui essa si colloca, darà un ulteriore colpo allo Stato sociale, elemento, quest’ultimo che ha caratterizzato l’Europa anche rispetto ad altri modelli così detti “occidentali”.

Uno slogan femminista recita: “se non ora quando?”.

È ora di cambiare il discorso sull’Europa. L’Unione intergovernativa che abbiamo di fronte è più vicina che mai a quella Confederazione di Stati nazione voluta dalle destre; per questo motivo il concetto stesso di europeismo contrapposto all’antieuropeismo perde di senso se non è accompagnato da precise indicazioni circa gli obiettivi e gli strumenti per raggiungerli.

Continuare con il metodo “funzionalista” del passo dopo passo in attesa che si compia il miracolo dell’unità politica ci ha portati in un vicolo cieco con istituzioni barocche, incomprensibili nelle loro diverse competenze, sempre più lontane dai cittadini, fino a smarrire il senso stesso di questa Unione.

Questo discorso non riguarda esclusivamente i Governi ma chiama in causa la politica, la società civile, i lavoratori e le loro organizzazioni, le forze economiche. In sintesi: la prospettiva di arrivare a una autentica unione federale avrebbe ancora più senso nel mondo di oggi ed è troppo importante per non prendersene cura.

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