Il mondo dato per scontato si spezza, e ciò che era il nostro unico mondo si sgretola nelle molteplici possibilità del nostro esserci. È un atto di pura violenza la conclusione di quel momento del nostro esistere in cui ascoltando, solamente, le nostre radici, contemplavamo la dolce assenza di comunismo, neoliberismo o rivoluzione. E, poi, ‘strappate le mani dalla viva catena’, come scrive Pavese, ciascuno, a suo modo, si tormenta, nella ricerca di quella impossibile ricomposizione di senso e vita, nel tentativo di respingere quel recondito desiderio di tornare nel ventre materno, per originare, piuttosto, quella dolorosa e feconda relazione tra eredità e libertà.

Ciascuno, sì, a suo modo, arrischia la propria risposta a quell’appello all’esistenza. In questa fase originaria di tragico trapasso, in cui si legge, e si legge ancora, per ritrovare la parola liberatrice alla propria crisi di epoca, una delle opere a cui sono maggiormente affezionato, è un racconto di Tolstoj, intitolato Il Diavolo, il quale si conclude con queste parole: “…e in effetti, se Evgenij Irtenev era un malato di mente, allora lo siamo tutti, e in particolar modo quelle persone che vedono negli altri i segni di una pazzia che non riescono a scorgere in se stesse”. Non poteva esserci, in quel momento, per me, parola maggiormente ristoratrice, la condivisione universale della crisi dell’esistere. Questo diavolo, che tormenta il protagonista del racconto, come massima esemplificazione di quell’anelito esistenziale di ricomposizione di ‘Anima e forme’.

Il Diavolo, dunque, per approdare al protagonista di questo scritto, il pilota motociclistico francese Fabio Quartararo, soprannominato, appunto, “El Diablo”. Soprannome a doppio fondo, su cui torneremo, come la sua maschera allegra che vela un volto angosciato.

Solo qualche giorno, e Quartararo, origini sicule, avrà la possibilità di iniziare a gareggiare sulla prestigiosa M1, Yamaha ufficiale, a soli ventuno anni. Giovanissimo, dunque, ma la giovane età di quei talenti precoci, in cui le cesure si sfumano, in un dialogo aperto fra i tempi storici. Questo, il tratto comune di doni di natura prematuri, compiuti o mancati, e ciò in cui ci si arrischierà è la ricerca del particolare in questo universale.

E l’infanzia, come luogo dello spirito, è origine e centro di questo particolare. Il padre, Etienne, è pilota, e il figlio, Fabio, assume quella condizione gioiosa dei fanciulli alla ricerca spontanea del fondamento paterno. La moto, su cui si siederà per la prima volta a soli quattro anni, non la abbandonerà più. Dieci anni dopo, è già il più giovane vincitore del Cev, campionato spagnolo di velocità. Si legge in un articolo pubblicato su Redbull nel 2013, che, all’età di quattordici anni, il pilota francese è “l’uomo, o meglio il ragazzo, che promette di segnare indelebilmente la storia della MotoGP e della prossima decade”.

Questo il nodo dell’enigma Quartararo, quando l’entusiasmo del bambino si scontra con l’urgenza del ragazzo, quando il dono ricevuto, il talento di guidare meravigliosamente, si converte in macigno da sostenere. Con un salto, senza soluzione di continuità, si riuniscono, in un bambino/adolescente, tempi storici differenti.

Stagione 2018, di quel giovane prodigio non se ne parla più. Si può essere a ridosso dei venti anni ed essere già alla fine, si può avere la percezione che quel dono non era tale.

Senza più niente da dire, senza più la possibilità di andare alla ricerca di quell’estrema possibilità di far coincidere, come quando il mondo era un tutt’uno, arte e vita. Due anni in Moto3 (la quale, per farlo esordire all’età quindici anni, cambia il regolamento ufficiale), uno in Moto2, senza lasciare il segno. A strapparlo fuori dall’anonimato, arrestando la caduta verticale, sarà Luca Boscoscuro, il quale lo vuole nella scuderia Speed Up: “l’ho voluto fortemente perché ero certo del suo talento. Per molti lui era soltanto un bluff, perché veniva da due stagioni mediocri dopo un esordio col botto. Altro che bluff, certo andava curato, bisognava ricaricargli le batterie”.

Dal 2018 ad oggi, a ridosso della stagione 2021, le molteplici e contraddittorie possibilità del pilota francese si sono rivelate, e continuano a rivelarsi in una estrazione senza fondo. Perché, infatti, di quell’estro precoce si è tornato a parlare. Una buona stagione in Moto2, che gli vale la chiamata della classe regina, l’anelito massimo di quel bambino, insieme eterno e rinnegato sin dal primo istante. Vi sono dei momenti, dell’esistere e della storia, in cui si vive, e si corre, come se non si avesse più la possibilità di perdere, come se quel mondo disgregato si potesse ricomporre solamente nello scacco. E, nella stagione 2019, è Fabio la rivelazione, in un processo di svelamento di quella possibilità velata dalla caduta, le sue corse sfrenate, al fondo di una maschera gioiosa, nascondono il volto della contestazione contro il mondo, e, specificamente, il mondo moderno, che ha convertito, in maniera precoce, la creazione del bambino in ascesi dell’adulto, rispettando solamente le logiche della competizione e della vittoria. E, a ogni modo, è ancora lui a infrangere le barriere di quel mondo, questo bambino già vecchio, che, con la pole position a Jerez, diventa il più giovane poleman della storia della classe. Al termine della stagione, saranno sei le pole position, e, in sette occasioni, salirà sul podio. L’enfant prodige è tornato, anche se, paradosso, ha solo venti anni. La stagione 2020, accidentata dalla pandemia, per mostrare, finalmente, a questo mondo, che pur nel profondo si detesta, che vi è ancora quella possibilità, che sembrava scartata, di “segnare indelebilmente la storia della MotoGP”.

La prima tappa è a Jerez, El Diablo trionfa, sembra fuori di sé, è la sua prima vittoria in MotoGP. Il suo antagonista principale, il fenomeno Marquez si infortuna, non disputerà più alcun gran premio fino al termine della stagione. Si apre una nuova fase per Quartararo, la possibilità di rispondere, integralmente, alla chiamata. Il salto mortale, ad ogni modo, non si compie, le oscurità del nostro molteplice essere possono riemergere, soprattutto quando la luce della rivelazione sembrava averle costrette, una volta per tutte, in quell’abisso da cui si proviene. Questo abisso che può riesplodere nel momento di vertice, quando la vocazione può assumere il peso di un macigno, e quando la gioia del dono confina, pericolosamente, con il senso di colpa di non avere la forza di restituire, questo, al mondo. Vi è una immagine che esemplifica questa condizione di Quartararo, le lacrime disperate dopo il Gp di Valencia. La vittoria del titolo è, irrimediabilmente, compromessa, la sua stagione si concluderà con un mediocre ottavo posto.

Alla vera questione, tuttavia, perché Quartararo, non abbiamo, ancora, risposto. E, questo, perché arrischiarsi significherebbe radicalizzare noi stessi. Andare alla radice di quelle possibilità che, per comune vivere, abbiamo deciso di nascondere, non solo agli altri, bensì, soprattutto, alle nostre stesse esistenze. Perché, infatti, interrogarsi sull’enigma Quartararo, significa interrogare, in profondità, la nostra tragica e gioiosa condizione di esseri umani. Qual è l’autentico punto oscuro della caduta e della tragedia che, a distanza di sicurezza, ci affascina? Perché, questo eterno ritorno di caduta e ascesa, fallimento e rinascita?

Rispondere non possiamo, e, al fondo, non ne avvertiamo la necessità, non vogliamo. Andare a fondo alle opposizioni del particolare, di Quartararo, tuttavia, possiamo tentarlo. Il volto e la maschera, in un continuo interscambiarsi, tra realtà e illusione, tra ciò che afferma con le parole e ciò che mostra con il corpo. Ecco, dunque, come dalle sue parole affiorino, insieme, i termini di pressione e gioia. La pressione di non saper rispondere a quel dono di natura, e la gioia della propria vocazione, quel divertimento di essere al mondo e seguire, solamente, ciò che si ama. Quale è il volto e quale è la maschera? Domanda di impossibile risoluzione, perché la maschera, come scrive il giovane Lukàcs, è sempre reale, e perché volto e maschera nel pilota si alternano in un ciclico scambio.

Ciò che resta, è contemplare la contraddizione di questo talento in lotta contro se stesso, contro il suo auto-ostacolarsi, Questo amore per il dono, questo viverlo intensamente fino a morirne, fino alla possibilità di perderlo, definitivamente. Questo essere mosso da un amore verso la terra nel senso di istinto e passione. Questo non riuscire a combattere questo mondo, che pur si detesta, combattendo dentro di esso, e, insieme, planando dall’alto, mettendolo in cortocircuito.

Questo soprannome da cui abbiamo tratto origine, El Diablo, che nasconde dietro la sua scorza superficiale, quel Diavolo di cui abbiamo parlato inizialmente, ‘anelito sempre rivolto all’interno per quanto tutte le sue strade portino verso l’esterno’. Alla domanda ‘come è diventato El Diablo?’, Fabio risponderà, ‘grazie anche ad uno psicologo: mi ha insegnato l’autocontrollo e mi ha tolto i pensieri negativi dalla testa’.

Questo equilibrio, questa divina acrobazia, che ‘El Diablo’ ancora non ha ritrovato. E anche noi, da esterni, oscilliamo, perché, sì, desideriamo il suo sbocciare definitivo, e che, insieme, ad ogni modo, non perda quella molteplicità in cui ci siamo ritrovati.

Sogniamo, in Fabio Quartararo, e, forse, nel nostro esistere, un fiorire che non rimuova mai, definitivamente, quell’abisso.

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