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Fare società con la politica

La relazione tenuta da Mario Tronti all’assemblea annuale del Centro per la Riforma dello Stato il 27 giugno 2008. "La cosa che lascerei in dubbio - scrive Tronti - è se fare un grande partito della sinistra o un partito della grande sinistra. Fare società con la politica è direzione orientativa dei processi".
Pubblicato il 27 Giugno 2008
Materiali, Officine Tronti, Scritti
Il senso di questo impegnativo titolo, che tuttavia sembra avere per me una sua immediata chiarezza, si ricaverà dal giro del discorso. Però prima vorrei inquadrarlo nel contesto di una contingenza. Mi è capitato più volte di sostenere che la politica, o meglio la politica moderna, è nient’altro che il possesso strategico della congiuntura. Il fatto che oggi si pensi che si possa fare a meno di questo, è causa non ultima dell’attuale decadenza della società umana.
E allora vorrei dire subito una cosa. Questo è un momento favorevole. Perché c’è un passaggio di fase. Non di epoca. Non è concesso al nostro tempo di vivere un’epoca. Dobbiamo accontentarci delle fasi. Del resto, le epoche sono rare, arrivano all’improvviso, spezzano il continuum storico, mettono il mondo fuori dai cardini e da lì tutto ricomincia. Poi vengono i tempi normali, lunghi, interminabili, in cui invece tutto si riassesta, si riordina, si riequilibra. E non succede più niente. Il meglio che ti può capitare è un ’68. Tutto il resto è peggio. E un 1648, un 1789, un 1917, cioè i momenti, lì intorno, in cui si tagliano le teste dei re, be’ quelli, beato chi ha la fortuna di viverli.
Ora, a parte questa parentesi di filosofia della storia, in che senso cambia la fase? Per capire, credo che dobbiamo mettere a tema le “convergenze parallele”, tra le due transizioni che hanno occupato l’ultimo ventennio: la transizione di sistema politico, e la transizione di organizzazione della sinistra. Il discorso sul ventennio è essenziale e pensiamo di farlo in un appuntamento ad hoc. Se è vero che la transizione italiana si è chiusa, o si va chiudendo – ma questo è tema di discussione – a destra, dobbiamo chiederci se è proprio vero che la transizione della sinistra italiana si è chiusa,, o si va chiudendo, sul centrosinistra.
O se non ci sia un’altra opzione Questo è il tema di riflessione che si propone qui.
Un anno fa proponemmo un Laboratorio di cultura politica a sinistra, con l’intento di tenere il filo di un rapporto tra le varie anime della sinistra, a livello appunto di lavoro culturale che, non ho mai capito perché, viene in genere sospeso quando si assume una funzione di governo. Il mutamento di fase consiglia, secondo me, una correzione d’accento. Il Laboratorio di cultura politica deve diventare, provvisoriamente, un Laboratorio di politica.
Del resto, il confine tra politica e cultura politica è un filo sottile, che appena appena si scorge. E ci vuole arte per attraversarlo di qua e di là, senza calpestarlo, a seconda dei bisogni del momento.
Io non ho nulla contro quella che spregiativamente si chiama politique politicienne.
La vera politica è sempre solo politica e non tutte le altre cose assai più belle che gli si vogliono appiccicare addosso.
Il difetto sta non nella forma della prassi politica ma nella qualità del ceto politico. E’ questa sopratutto e prima di tutto che bisogna restaurare.
Credo che adesso sia il momento di un’iniziativa tutta politica.
Questo è, con la necessaria modestia, il senso dell’uscita con le Undici Tesi.
La necessità di portare a compimento la “nostra” transizione detta, essa, l’ordine del giorno ai temi di cultura politica.
C’ è allora un compito immediatamente politico, che personalmente sento dettato da un’etica della responsabilità, più che da un’etica della convinzione, che ci impone, nel tempo medio, cioè in un tempo né breve né lungo, di porci l’obiettivo di chiudere il dopo ’89.
Questa può essere la dodicesima tesi – queste tesi consideriamole in progress – e integriamo, aggiungiamo, sopprimiamo, in un lavoro collettivo, da laboratorio appunto.
Chiudere il dopo ’89 vuol dire superare la diaspora che ha diviso la sinistra a partire da quella data e ricomporla unitariamente, in grande, in avanti.
Questa è la tesi e vediamo adesso – sinteticamente – quali condizioni sono intervenute che rendono possibile questo passaggio.
Il passaggio di fase corrisponde a un passaggio di ciclo. Viviamo in una struttura-mondo e dentro questo ordine delle cose dobbiamo ragionare. Sta sotto i nostri occhi l’esaurimento del ciclo neoliberista. Che lo sviluppo capitalistico abbia un andamento ciclico, come ci avevano insegnato i maestri, da Marx a Schumpeter, ce lo siamo dimenticato. E invece la soluzione neoliberista è stata assolutizzata, come fosse l’approdo definitivo della storia del capitale. Non a caso è intervenuto lì quell’apparato ideologico che è andato sotto il nome di “fine della storia”, dopo la sconfitta del socialismo.
Il ciclo, che è partito dalla Trilaterale, si è espresso nelle politiche thatcheriane e reaganiane, ha occupato gli anni Ottanta, ha impiantato una globalizzazione selvaggia in nome del primato dell’economia, e di una economia finanziarizzata, volge al termine, o no? Discutiamone. Io vedo i segni di un ritorno di primato della politica, in nome dei bisogni di sistema, in presenza di un rallentamento dello sviluppo e di una perdita di competitività, non di questo o quel paese, ma dell’intero Occidente rispetto a un resto del mondo, che comincia a sfuggire alla sua egemonia.
La nuova destra riparte da qui.
C’è stato un segnale premonitore, che noi, sinistra, come al solito, per pigrizia intellettuale, non abbiamo colto. E’stata l’emergenza neo-con negli Usa. Io l’ho guardata con grande interesse. Un’emergenza breve nella durata ma durevole nelle conseguenze. Noi abbiamo visto il Bush della guerra, ma quella guerra, meno dettata da interessi economici e più preoccupata degli spazi geopolitici, era una forma di ritorno del primato della politica visto da destra. Questo dicevano l’enduring freedom, l’esportazione della democrazia, la guerra permanente, che scimmiottava la rivoluzione permanente, e così portava pezzi di cultura europea dentro la Casa Bianca.
Insomma, se la svolta neoliberista era partita dal Rapporto della Trilateral, la svolta neoconservatrice parte dal libro di Huntington sullo scontro di civiltà, un grande libro di cui si è letto spesso solo il titolo, senza cogliere l’analisi della nuova geopolitica. Di lì è ripartito un episodio di rivoluzione conservatrice. E la rivoluzione conservatrice ha anch’essa un andamento ciclico dentro la modernità capitalistica: e segna sempre una rivendicazione della logica del politico sulla logica dell’economico E non è reazione, come semplice ritorno al passato, è restaurazione modernizzatrice, è, secondo una formula molto felice, “modernismo reazionario”-
Questa è la destra permanente nel Moderno, prodotto genuino della forma permanentemente rivoluzionaria del capitalismo. Ma allora non bisogna ridurla alla momentanea irruzione delle soluzioni totalitarie. Questa rozza identificazione è, sì, essa, un lascito del Novecento. Come ben sapete, tutti vogliono uscire dal Novecento. C’è una ressa a chi guadagna prima l’uscita. Poi accade questa cosa strana: che i più vogliono uscire dalle cose giuste del Novecento, rimanendo nelle sue cose sbagliate. Sbagliata è oggi – oggi non ieri – questa riduzione della destra a fascismo.
Nel 1994 Democrazia e diritto, la rivista del Centro per la riforma dello Stato, pubblicò un fascicolo monografico sulle destre. Lì c’era il saggio di un ricercatore storico del Crs, Pasquale Serra, un uomo di grande spessore intellettuale ed umano – e vi assicuro, per lunga esperienza degli esseri umani, che tenere congiunti in una persona spessore intellettuale e spessore umano è cosa molto molto rara – un saggio dal titolo “Destra e fascismo. Impostazione del problema”, in cui si leggono all’inizio queste parole:<>. Se allora furono parole inascoltate, adesso è il momento di ascoltarle. E chi ha dissolto la destra come oggetto specifico di conoscenza? Si rispondeva lì, con questa ipotesi di lavoro:<<è stato il nesso che la cultura azionista ha istituito tra antifascismo e modernità e tra fascismo e tradizione>>.
La cultura azionista ha recato seri danni, soprattutto qui in Italia, al pensiero, e purtroppo non solo al pensiero, del movimento operaio.
Nel dopo-89 si è conquistata quell’egemonia che la forza del Pci le aveva giustamente negato.
E’ emerso un apparato ideologico in cui il berlusconismo ha fatto le veci del fascismo. Del tutto offuscando e nascondendo, come è proprio delle ideologie, la realtà delle cose. A una destra per vocazione premoderna si voleva contrapporre una sinistra per vocazione moderna.
Di fatto invece abbiamo vissuto una campagna elettorale in cui la prima forma di bipartitismo quasi perfetto ha visto una destra moderna e una sinistra postmoderna. Il leggìo di Spello e l’Arcobaleno: due metafore di una sola sconfitta.
Quella realtà delle cose si potrebbe dire in tanti altri modi: una destra concreta e una sinistra astratta, una destra pesante e una sinistra leggera, una destra realista e una sinistra ideologica, una destra dei bisogni e una sinistra dei diritti, una destra sul territorio e una sinistra nelle piazze, una destra storica e una sinistra senza storia.
Messa così, non c’era partita.
So che cosa state pensando: la solita sopravvalutazione dell’avversario. Ma quando diciamo destra, non ci deve venire in mente Berlusconi, i suoi affari privati e l’Italietta che lo segue. Dobbiamo fare il punto sull’attuale fase politica, di crisi/sviluppo, del ciclo capitalistico. E lì andare a capire il recupero di questo solido consenso a destra.
Mauro Calise ha parlato dell’eclissi del voto razionale, e dell’emergere di un voto carismatico macropersonale. Aldo Bonomi ci ha richiamato a quegli elementi prepolitici (stress, spaesamento, insicurezza, rassegnazione) che spostano i livelli di autorappresentazione dalla coscienza di classe alla coscienza di luogo.
E’ vero, sono tendenze reali: la destra può permettersi di solo rappresentarle, la sinistra deve contrastarle, alla radice, intervenendo sulla condizione sociale di massa. Il problema non è di radicarsi nel territorio, ma di cambiare il territorio.
Una città, una provincia, una regione, sono la stessa cosa che il paese: non si amministrano, si governano.
Fare società con la politica è direzione orientativa dei processi.
E’ un lavoro di ardua progettazione e difficilissima esecuzione.
Presuppone un ceto amministrativo e un ceto politico di alta qualità.
La rete di Fondazioni, che si va profilando, riapra il grande capitolo della formazione politica. Il ricambio generazionale, va bene. Ad una condizione: che nei fatti, nel pensiero, nella parola, nella consistenza umana, i figli si mostrino migliori dei padri.
Lavoro arduo per ragioni più di fondo. C’è un passaggio nelle Tesi che non sarà sfuggito ai lettori più attenti.
Diceva: la destra corrisponde di più e meglio al lato oscuro dell’animo umano.
Miei cari, è così.
Il buco antropologico, che il marxismo ci ha lasciato, non lo riempiremo raccontandoci la favola borghese-progressista dell’individuo sovrano.
L’homo oeconomicus descrive ancora benissimo la sostanza di questo individuo neutro,neutro, perché, purtroppo è senza differenza.
La femina oeconomica è lì, non solo simbolicamente, alla presidenza di Confindustria, ma diffusa nella società civile, in queste insopportabili donne in carriera, che non contestano, ma esercitano il potere maschile.
E l’homo democraticus descrive benissimo questa figura nostra contemporanea del cittadino-massa, la moltitudine che partecipa al rito delle primarie, credendo di contare, ma in realtà essendo solo contata.
Insomma, quella società civile, che la modernità ci aveva realisticamente presentata come sistema dei bisogni, la postmodernità ce la ripresenta ideologicamente come non-luogo dei desideri.
E allora, al brusco risveglio, ecco che riparte il lamento: non conosciamo più questa società.
E il discorso finisce lì. E lì rimarrà, finché non si procederà dicendo: non conosciamo più la struttura della società perché manca la forma dell’organizzazione politica: organizzazione del conflitto sociale, della lotta politica, della battaglia culturale, organizzazione del governo.
Perché quando acquisiremo l’idea che governo non è gestione, ma è direzione, cioè forma istituzionale di organizzazione del sociale?
Attenzione: su questo punto delicato insistono due diversità: una diversità di forma tra sinistra e nuova destra e una di sostanza tra sinistra e centro-sinistra.
Questa destra risolve, dove può, la decisione in una verticalizzazione istituzionale.
Il populismo/leaderismo preferirebbe convertirlo in un populismo/presidenzialismo.
Per noi il problema è di garantire la decisione entro un circuito istituzionale e, direi, qui conta la nostra particolare vocazione, anche dentro un circuito sociale, passando a ridisegnare una mappa di corpi e poteri intermedi, non come concessione al locale, ma come sussunzione di territori e di interessi a livello centrale.
Credo sia venuto il tempo di lavorare a proporre noi, da sinistra, la grande riforma costituzionale.
Il nostro modello dovremmo farlo girare intorno al perno di un decisionismo senza presidenzialismo.
Come assicurare una decisione politica che non abbia bisogno di una forma istituzionale verticalizzata. Che è lo stesso problema di ripensare una forma della rappresentanza non personalizzata. Che è poi lo stesso problema di liberarci dal fascino delle parole nuove e vuote – governance, governamentalità – e riacciuffare il tema serio e classico del governo politico dei processi.
Qui c’è il grande tema delle élites, l’unica cura ancora a nostra disposizione, se riusciamo a ritrovare i luoghi e i tempi della loro selezione, contro queste malattie della politica che sono populismo e leaderismo.
Io credo che la grande tradizione giuridica europea, l’eredità di quel monumento storico che è stato lo jus publicum europaeum, e non solo, quella filosofia del diritto che va da Roma a Weimar, abbia ancora molto da dire se la smette di parlare in inglese, cioè se la finisce di pensare che modello Westminster e Washington consensus siano soluzioni universali.
Ecco, dopo il Novecento: riprendo, brevemente, questo tema, a me molto caro. Per una considerazione, a cui riflettevo, proprio in questi giorni.
Il passato che non passa, e come, con quali forme, con quali idee, fare in modo che passi:
questo è un nostro tema.
Il problema della tradizione è problema politico per eccellenza.
Abbiamo imparato dal Novecento che i residuati bellici politico-ideologici rimangono sul terreno, nascosti, molto più a lungo delle realizzazioni sociali o istituzionali. Le forme crollano, a volte rapidamente, e invece, non tanto le idee, ma qualcosa di più profondo, forse di più inconscio, gli attaccamenti, le abitudini, i comportamenti, quelli che Tocqueville chiamava i costumi, resistono e sopravvivono.
Si credeva, dopo il ’91, che si stabilizzasse una struttura internazionale unipolare.
Questo l’ha creduto il Dipatimento di Stato e l’ha fatto credere al movimento no-global.
Non è andata così.
Da una struttura bipolare si è passati, si sta passando, a una struttura multipolare.
Che è il fenomeno più interessante che sta sotto i nostri occhi.
L’unica luce che attualmente si accende per il pensiero politico.
Visto che dall’interno dei nostri singoli paesi siamo praticamente a luci spente.
Il passaggio attraverso il socialismo in soli paesi non è stato recuperato pacificamente dentro una storia eterna del capitalismo-mondo.
Non c’ è stata semplice integrazione, come poteva apparire nell’immediato dopo ’89.
Il “secondo mondo” non si è dissolto, si presenta in altro modo.
Lì non si è ripartiti dal prima, si è ripartiti dal dopo.
Non si ritorna mai al prima, o meglio mai al prima della contingenza storica,mentre si torna al prima dell’eterno ritorno della storia, quello che porta in corpo le regolarità della politica. Ed è iniziato quello che è stato chiamato il nuovo “grande gioco”.
Il passaggio “ideologico” attraverso il socialismo ha ridepositato un livello diverso,scala allargata , di politiche di potenza. E attraverso questo una diversa divisione del mondo, non più bipolare, ma multipolare.
La mia idea è che noi, sinistra, italiana ed europea, dovremmo attrezzarci per una politica su due livelli: usando metafore gramsciane, una guerra di posizione sulla scena del paese e del continente, una guerra di movimento sullo scenario mondiale.
Perché Russia e Cina non sono integrabili in un ordine internazionale a egemonia unica?
Primo: perché lì c’è stato un evento rivoluzionario, scaturito dall’interno delle loro viscere. Secondo: perché sono grandi spazi, e grandi numeri. Mai dimenticare questo. Terzo: perché portano una storia di lunga durata, nazionale, statuale, imperiale, civiltà abituate,esse, a una posizione egemonica.
La globalizzazione economico-finanziaria produce politica-mondo, o è da essa prodotta, o, come è probabile ma non sicuro, si producono in reciproco contemporaneamente? Sta di fatto che noi, eredi eretici del marxismo, non riusciamo a decifrare il nomos della terra.
Di fronte all’emergere del BRIC – Brasile, Russia, India, Cina – possiamo solo sapere che se il tramonto dell’Occidente ha prodotto nel Novecento grande cultura, dopo il Novecento dovrebbe produrre grande politica.
Ma, ecco, che cosa voglio dire, con questo discorso apparentemente divagante su destini che non sono certo nelle nostre mani? Voglio dire una cosa semplice, conclusiva. Non possiamo fare tutto, possiamo fare solo certe cose.
Marx diceva: sono gli uomini che fanno la storia.
E noi, dopo che abbiamo corretto dicendo, sono gli uomini e le donne che fanno la storia, dobbiamo però comunque continuare la frase: ma la fanno in condizioni determinate. Bisogna riappropiarci di tutta intera questa verità.
Io non credo che esista una verità assoluta, valida per tutti. Credo che esistano delle verità assolute valide per alcuni, per molti, anche per uno solo.
Verità assolute di parte: che tu devi acquisire e coltivare e difendere e sviluppare.
Io, dicono che faccia il filosofo. Ebbene, ho sempre considerata come assoluta, per me, la verità che i filosofi non devono limitarsi a interpretare il mondo, ma devono interpretarlo per cambiarlo.
Come vedete, la professione di relativismo la lascio volentieri ai girotondi di MicroMega.
Credo che tra i compiti più attuali della sinistra ci siano oggi quelli di ritrovare e ridare alcune certezze, mettere dei punti fermi, offrire segni di orientamento, riprendersi un senso di affidabilità, basato sulla durata, sulla consistenza, sulla serietà, sulla profondità.
Va superato questo gap che si è formato tra una permanenza della pulsione di destra e l’effimero di una ragione di sinistra.
Pensate a quanti nomi e simboli abbiamo cambiato in questi vent’anni,anche nell’offerta elettorale. E potrete registrare il senso di disorientamento permanente che questo ha provocato.
Io sbaglierò, ma è più di un’impressione quella che ho e cioè che la l’esaurirsi del ciclo neoliberista e il riemergere di una destra identitaria va a costringere la sinistra a chiudere questa fase di innamoramento, subalterno, al leggero, al transitorio, al mediatico, al virtuale, e la costringa, se non vuole continuare a perdere, a ridefinirsi, sì, ma soprattutto a ricollocarsi, a ristabilirsi, anzi, a ristabilizzarsi.
La metafora, mitologica, del passaggio da Proteo ad Anteo, questo voleva dire.
La nuova fase, neoconservatrice e neomodernizzatrice, della destra ha seppellito le due opzioni dominanti nella sinistra del dopo Novecento:
un dopo Novecento precoce, perché cominciato nei due decenni finali.
Due opzioni creative, ognuna, di un consistente apparato ideologico.
L’una è il governo della Terza Via, l’altra è il movimento no global, o new global.
Il blairismo, con il suo intellettuale di riferimento Anthony Giddens, e con sullo sfondo il clintonismo, ricordiamolo, non era la classica terza via tra socialdemocrazia e comunismo. o tra capitalismo e socialismo, era la terza via tra sinistra e destra. Una scelta che credeva di essere un intelligente centrismo, pensate alla Mitte di Schroeder, finita coerentemente nella grosse Koalition.
La competizione era su chi sarebbe stato capace di gestire meglio il ciclo neoliberista, visto, ripeto, come l’approdo definitivo della modernizzazione e della globalizzazione. Una scelta subalterna con pretese egemoniche.
Non era di fatto meno subalterna, malgrado i simpatici toni antagonisti, l’opzione della generosa contestazione movimentista. Quell’inseguire sulle piazze gli spostamenti dei summit delle organizzazioni economiche e finanziarie mondiali,per scomparire subito dopo, presenti spettacolarmente davanti ai capi e assenti materialmente davanti ai poteri, era la simbologia di un rapporto di forze drammaticamente squilibrato.
C’è una diversità di fondo tra le due opzioni.
Quella governativa ha prodotto grigi ceti politici amministrativi e gestionali.
Quella movimentista ha visto uno splendido materiale umano politicamente sprecato.
La prospettiva di ricostruzione di una Grande Sinistra, ripeto gli aggettivi,
moderna, critica, autonoma, autorevole, popolare, vuole saltare oltre questi ostacoli.
Si capisce se stessi attraverso la conoscenza dell’avversario che si ha di fronte.
Io ho una provvisoria definizione dell’attuale destra, che vi invito a discutere:
destra democratica illiberale.
Una definizione compatta, che andrebbe sciolta, per essere utilizzata.
Quello che non si può fare è semplicemente rovesciarla, come abbiamo fatto,
presentandoci come sinistra democratica liberale.
Non bisogna mai essere solo anti,
bisogna costringere l’avversario ad essere solo anti.
Questo decide su chi ha in mano l’iniziativa. E chi ha in mano l’iniziativa, salvo eccezioni, di solito vince.
Guardate come è vivo e vegeto ancora l’anticomunismo.
Il comunismo, anche dalla tomba, costringe i capitalisti ad essere anticomunisti.
Perché? Perché è statto un grande soggetto del Novecento.
La sinistra deve tornare ad essere una forza con cui bisogna fare i conti.
E certo il tema della libertà deve declinarlo in proprio.
Non prenderlo dal bagaglio liberale e nemmeno da quello democratico.
Ma riscoprirlo dalla tradizione socialista e comunista
e dalla quella cristiana, tutte tradizioni non borghesi della libertà umana.
Ma qui freno, per non andare a sbattere.
So che in questo discorso mancano molte cose, alcune mancanze volute, altre dimenticate.
Io non sono in grado di declinare una sinistra, come si dice, plurale.
Mi mancano delle competenze, delle conoscenze, delle sensibilità.
Invito altri però a farlo.
C’è ad esempio il tema delle nuove culture.
Ma mi diceva ieri Fulvia Bandoli: non è che poi queste culture siano nuove,
il femminismo, l’ambientalismo, il pacifismo, hanno ormai qualche decennio di vita.
Allora non chiamiamole culture nuove, chiamiamole culture altre, rispetto alla tradizione del movimento operaio.
C’è un bell’intervento di Peppe Allegri, nella discussione sulle tesi che guarda queste cose da un altro punto di vista, che è quello della generazione degli anni Settanta, quella generazione che ha scartato violentemente dalla nostra storia e non l’abbiamo più recuperata. E’ quella cultura metropolitana, così vicina al sentire dei giovani d’oggi e così lontana dalle nostre abitudini e dalle nostre frequentazioni.
Guai a farsi scappare lì la parola Partito.
E dunque bisogna spiegarsi, perché contro quella parola c’è adesso una santa alleanza
di tutte le potenze, nuoviste e reazionarie, dell’antipolitica.
Anche le culture altre devono però ricollocarsi nella nuova fase.
E prendere l’iniziativa di mettere i piedi nella congiuntura.
E’ una raccomandazione che farei in particolare al femminismo della differenza,
che tra quelle culture è quella che sento più vicino,
per quanto mi ha dato di spunti, di idee, di scoperte.
Mi pare di scorgere una similitudine tra la sua situazione e la situazione attuale della sinistra.
Anche se la rivoluzione femminile eccede il problema della sinistra.
Ma, ecco, vedo un analoga crisi di consenso. Un isolamento e un’autoreferenzialità, che non arriva quasi per nulla al sociale e prende spesso il politico per il lato sbagliato, rivendicando un criterio di quantità, invece che fare perno su uno specifico di qualità, che sarebbe invece reso possibile dalla ricchezza culturale dell’elaborazione.
E cioè una potenzialità non espressa e quasi repressa. E il motivo mi pare stia nella stessa difficoltà della sinistra a tenere tra le dita il filo fra tradizione e innovazione.
Il passo indietro per saltare in avanti non è stato molto apprezzato.
E’ scattata la sindrome progressista, che è stata la matrice comune della sinistra, di quella rivoluzionaria e di quella riformista. La fiducia nelle magnifiche sorti della storia mi ha sempre fatto pensare a quella vignetta con l’ubriaco romanaccio attaccato al lampione che diceva:
se er monno gira, casa mia deve passa’ qua davanti.
Ho trovato citata una frase di Enzo Paci, un moderno fenomenologo, scritta per il terzo Catalogo della casa editrice Il Saggiatore, una frase di eco benjaminiana.
“La vera novità è un passo verso il passato e la vera comprensione del passato è un passo verso l’avvenire”.
Vi ricordate quando Vittorio Foa teorizzò la mossa del cavallo.
L’abbiamo fatta. Non mi pare che abbia funzionato. Forse dobbiamo rifare la mossa della torre: riprendere la strada diritta e lunga.
La cosa che lascerei in dubbio è se fare un grande partito della sinistra o un partito della grande sinistra.

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