Internazionale, Politica, Temi, Interventi

Alfio Nicotra è Co-Presidente nazionale di “Un Ponte Per”.

Ho davanti agli occhi la moltitudine di colori e di uomini e di donne scese in piazza il 5 novembre a Roma per chiedere al nostro Governo e a quelli della Ue di cambiare strada sulla guerra in Ucraina. Le opinioni pubbliche sono le uniche in grado di fermare il corso del conflitto e questa macabra danza sull’orlo dell’olocausto nucleare. Per farlo è necessario proseguire la mobilitazione, chiedere che anche le altre capitali europee scendano in piazza, prepararsi a reggere l’impatto dell’isteria bellica che sembra aver offuscato la mente della classe politica.

Per capire cosa la guerra ha scavato nelle nostre società è utile per un attimo riavvolgere il nastro e tornare allo scorso anno. Eravamo in un mondo che arrancava ancora nella pandemia da Covid-19, tra lockdown, monopoli dei vaccini, bollettini quotidiani di morti e nuovi infetti, con una pallida riscoperta da parte della politica della necessità di una sanità pubblica e universale, da decenni soggetta ai tagli dovuti alle politiche di bilancio e alla privatizzazione del diritto alla salute.

In Afghanistan le truppe occidentali abbandonavano al loro destino la popolazione civile facendo a loro modo giustizia della propaganda che per 20 anni aveva descritto la guerra in Afghanistan come una guerra per la civiltà e i diritti delle persone. Quella ritirata, immortalata nelle scene di fuga nell’aeroporto di Kabul, sembrava aprire un inizio di discussione sulla scelta occidentale d’investire nell’insicurezza delle armi e nelle missioni militari internazionali. Di fronte a tutti i teleschermi la NATO naufragava e si palesava per quello che era: l’alleanza dei Paesi ricchi che di volta in volta abbellivano il loro agire armato da gendarme del mondo con giustificazioni ideologiche che strumentalizzavano le sofferenze dei popoli. Un danno d’immagine così grave che lo stesso presidente francese Macron osò parlare dell’Alleanza Atlantica come quella di un corpo “in morte cerebrale”.

La Guerra mondiale a pezzi, che dal 1991 il pianeta sta vivendo, sembrava perdere consenso, imponendo finalmente una discussione sul reale progresso umano e sulla necessità non più rinviabile, di costruire la pace.

Il 24 febbraio, questo timido segnale è stato spazzato via dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, certo figlia del 2014 e della sanguinosa e dimenticata guerra civile nel Donbass, ma la qualità della scesa in campo di una potenza nucleare con centinaia di migliaia di soldati è stata uno shock non preventivabile, riproponendo una confrontation del terrore degna dei tempi della Guerra fredda.

Il dibattito pubblico in Italia è stato subito avvelenato da questo fatto. Dietro l’invio di armi c’è stata una opera di violenza culturale a chiunque ricordasse i principi della Carta costituzionale e financo quella dell’ONU. Insomma politica e diplomazia sono state messe da parte e si è prospettato la soluzione militare come la sola in grado di dare giustizia al popolo ucraino. Gli attacchi, il linciaggio vero e proprio, ai pacifisti, all’ANPI, alla CGIL, a Papa Francesco, sono i frutti avvelenati di una isteria bellicista che rischiano di travolgerci mettendoci in bocca cose che non abbiamo mai sostenuto, come la favoletta che i pacifisti volessero l’immediata resa dell’Ucraina a Putin e non invece una forte iniziativa autonoma dell’Europa per il cessate il fuoco e l’apertura di un negoziato, come avvenne nel 1975 a Helsinki, per arrivare a una intesa in grado di garantire la sicurezza comune di tutto il nostro continente, nessuno escluso.

Abbiamo visto il moribondo in elettroencefalogramma piatto della NATO riprendere non solo vitalità, ma indurre paesi storicamente neutrali come Svezia e Finlandia, finire per essere reclutati nell’Alleanza Atlantica.

Per non parlare del fiorire di tesi politiche tutte astratte e non basate sui dati razionali che hanno spinto i nostri Parlamenti a pianificare una corsa al riarmo e alle spese militari contrabbandandole come necessarie per la nostra sicurezza. Come se i 20 anni alle nostre spalle fossero stati due decenni di disarmo e non invece una silenziosa e devastante corsa a riempire gli arsenali come dimostrano i dati del Sipri in cui la spesa militare globale dal 2001 al 2021 è praticamente raddoppiata.

Abbiamo domandato con forza: aver raddoppiato le spese militare ha aumentato la nostra sicurezza o quella del pianeta, o siamo al contrario diventati tutti più insicuri tanto da essere arrivati sull’orlo del precipizio anche nucleare?

Per reagire alla campagna di linciaggio al pacifismo, non abbiamo esitato un secondo a salire sui pulmini delle carovane di STOP THE WAR NOW, perché i pacifisti non stanno con le mani in mano o seduti con i pop corn e una birra sul divano di casa a seguire i talk show sulla guerra. I pacifisti agiscono, stanno con le vittime della guerra anche sotto le bombe, come tutta la storia di “Un Ponte Per” e di altre organizzazioni pacifiste è lì a dimostrare.

Sentiamo ogni torto fatto a persone e popoli come un torto fatto a noi stessi e la nostra indole è agire. Dove sembra smarrirsi ogni proposta politica eccoci pronti a valorizzare ogni aggancio alle società civili ucraine e russe che parli un linguaggio diverso dalla guerra.

Siamo – ha scritto ai partecipanti alla carovana per Kiev il cardinale Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana – “delle luci accese in questa notte di tenebre”.

Come ha osservato il presidente fondatore di “Un Ponte Per”, Fabio Alberti, “quella all’Ucraina non è una guerra sola, ma sono tre guerre che si sommano l’una all’altra”. La prima, la più visibile, quella su cui i giornali e i politici parlano e commentano, è quella della Federazione Russa contro la Repubblica Ucraina. O meglio: del Governo russo, che ha ordinato l’invasione, contro le popolazioni ucraine, che si sono svegliate una mattina con i carri armati sotto casa.

La seconda è una guerra interna tra opposti nazionalismi. Il nazionalismo ucraino, che sventola le bandiere e vorrebbe un paese monoculturale cominciando con l’abolizione come ufficiale della lingua del 20% della popolazione, e il nazionalismo russo di Putin, quello che invece di democrazia e diritti per tutti le minoranze ha chiesto separazione e imbracciato le armi.

La terza guerra è quella per il dominio del globo. È quella tra il cosiddetto Occidente che dopo il crollo economico e istituzionale dell’Unione Sovietica ha deciso di lavorare per la supremazia invece che per l’inclusione. È quella dell’élite oligarchica russa che vorrebbe ripristinare il bipolarismo, il condominio del terrore.

È la guerra mondiale a pezzi di cui le prime due sono una parte.

Solo nella prima di queste tre guerre possiamo stare da una parte. È la parte di chi sta sotto. Di quelli la cui vita è stata travolta, che dormono nelle cantine o sono scappati, di quelli uccisi a freddo sulle strade o da ordigni sganciati da migliaia di chilometri. Ed è anche la parte dei ragazzi russi, mandati a morire con una divisa indosso e la testa riempita di sciocchezze nazionaliste, bruciati nei carri armati, giustiziati a freddo, calati nelle fosse comuni. Ed è anche la parte dei disertori, che da tutte le parti sono incarcerati e sottoposti al linciaggio morale.

Ci è stato detto, anche in queste ore con ripetitive “lettere aperte ai pacifisti”, che la nonviolenza è un nobile sentimento ma è inapplicabile quando un nemico feroce t’invade e vuole negare la tua stessa esistenza. Attenti, ci hanno ammonito in ogni editoriale, a non fare il gioco del tiranno, a farsi utilizzare per una manciata di consensi da qualche partito politico in difficoltà. Per sostenere questo hanno bisogno di descriverci come vogliono loro: anime belle, sicuramente in buona fede, ma incapaci di tradurre in proposte concrete il nostro desiderio di pace.

Noi non abbiamo mai avuto una idea astratta o religiosa della nonviolenza, ma abbiamo capito che se non rompiamo la spirale amico/nemico l’umanità continuerà a far girare al contrario la ruota della storia.

L’interventismo democratico ha sempre provato, dalla prima Guerra del Golfo in poi, a ingentilire la guerra, a dargli motivazioni nobili, a partorire un vero e proprio ossimoro come la cosiddetta “guerra umanitaria”. Questa costruzione ideologica ha bisogno della passivizzazione delle persone e non sopporta il prendere parola e il protagonismo del punto di vista pacifista. La stampa appare oggi desolatamente ridotta a una protesi militare, il giornalismo embedded dilaga ovunque. Ci dicono che loro in Ucraina ci sono stati, hanno visto Bucha e le altre stragi, le scuole e gli ospedali distrutti e per questo si sentono legittimati a chiedere che la guerra continui. Ma sotto le bombe non ci sono stati solo loro, ma anche noi pacifisti. È dal nostro mondo che è arrivata l’accoglienza per centinaia di migliaia di rifugiati ucraini che, a differenza del Governo, non consideriamo “un carico residuale” ma una umanità che deve essere sostenuta e accolta. Basterebbe ossigenare il cervello e aprire lo sguardo sul mondo per vedere nei centomila di Roma non degli “utili idioti” ma la proposta di una politica estera altra per il nostro Paese e per quelli dell’Unione Europea. Partendo esattamente dal punto di vista delle vittime, di chi i missili li riceve sulla propria testa, di chi è costretto a lasciare le proprie case o vedere i propri figli perire al fronte. Il cessate il fuoco subito, l’avviare finalmente una conferenza internazionale di pace, non appartiene alla sfera del pacifismo etico o di un astratto desiderio di pace. Esso s’invera nell’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite che non stabilisce solo il sacrosanto diritto all’autotutela di un paese sovrano aggredito, ma subito dopo impone alla comunità internazionale di agire per ristabilire la pace e porre fine al conflitto con gli strumenti del negoziato e della diplomazia.

Crista Wolf scriveva che tra “uccidere e morire c’è una terza via: vivere”. Vivere non è un atto di codardia, non è arrendersi, rassegnarsi al più prepotente. Ce lo dicono le donne iraniane o i ragazzi e le ragazze che stanno animando le lotte in Iraq: vivere è la precondizione per continuare la lotta per un mondo più giusto. Far tacere le armi significa restituire forza alla parola, consentire alle società civili di riorganizzarsi, di depurarsi dai deliri della violenza settaria e dei nazionalismi. Per questo la piazza di Roma ha dettato una agenda politica che auspichiamo sia l’inizio di una mobilitazione per la pace che coinvolga l’intero nostro continente.

Qui il PDF

Un commento a “Fermare subito la guerra”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *