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Bisogna pur domandarsi perché oggi le voci del pacifismo siano esigue, poco convincenti e trovino scarso consenso nella società: e comunque, se lo trovano, esso si manifesta in forme opache, quasi isolate, private o sui social, ma non in grado di manifestare una volontà collettiva, non in grado di incidere sulla realtà. Questo in una fase nella quale si sostiene che è iniziata la terza guerra mondiale e si percepisce che le guerre in corso (Russia-Ucraina, Israele-Palestina, l’operazione Aspides per la difesa della viabilità commerciale nello stretto del Mar Rosso) possono facilmente estendersi in un conflitto planetario. Eppure il pacifismo ha voce debole e il consenso popolare – intendo in modo visibile, manifestato – sembra pressoché inesistente, quasi a indicare i sentimenti di rassegnazione e impotenza o, peggio ancora, di disinteresse. La stragrande maggioranza dei cittadini è ostile alla guerra ma, se possiamo vedere, in Italia e in Europa, vie e piazze piene di manifestanti per l’8 marzo o per gli agricoltori in protesta, non vediamo altrettante energie per la pace. Tutto ciò sembra essere rafforzato dalla diffusa convinzione che le possibili soluzioni (accordi, tregue, armistizi fra Russia e Ucraina o Israele e Hamas) servirebbero solamente a rimandare una resa dei conti che sembra inevitabile: perché queste guerre apparentemente “locali” sono la manifestazione di conflitti ben più profondi ed estesi.

Si può tentare di comprendere qualcuna delle cause della debolezza attuale del pacifismo premettendo una definizione astratta, generica e idealizzata, delle caratteristiche del pacifismo stesso, al fine di cercare di vedere la crisi attuale di queste caratteristiche. I presupposti del pacifismo sono: la sacralità o il primato della vita dell’uomo; il rifiuto di ogni violenza, in ogni sua possibile forma; la convinzione che qualunque conflitto – collettivo, politico, economico ecc. – possa e debba essere superato attraverso il dialogo e il confronto (basato sul reciproco riconoscimento, che è condizione imprescindibile nel dialogo stesso. Questo aspetto, la necessità del reciproco riconoscimento, è di vitale importanza. È ovvio che il pacifismo che in un determinato conflitto si limiti a invocare il rifiuto della guerra in modo astratto senza riconoscere il senso profondo delle reciproche ragioni dei contendenti non riesce a farsi ascoltare perché si basa solamente su un’istanza etica incapace di entrare nel merito delle ragioni del conflitto. Come è altrettanto ovvio che se il pacifismo tende a privilegiare le ragioni di uno dei due contendenti possa essere accusato di ambiguità o di strumentalizzazione, cosa accaduta frequentemente in passato e anche oggi per i conflitti in corso, nei quali emerge con chiarezza che il tema del reciproco riconoscimento è assente o addirittura negato, anche talora in quelle forze che dichiarano di cercare la pace. Si può osservare, a questo proposito, che l’ideale pacifista può essere interpretato e vissuto in modi ben diversi a seconda che lo scopo sia l’evitare la nascita della guerra o invece tentare di fermare una guerra già iniziata.

Alcune cause della fiacchezza attuale del pacifismo sono facilmente intuibili, anche perché le ragioni storiche che lo hanno generato sono venute meno o sono addirittura fallite. Per esempio, il pacifismo di matrice socialista (mi riferisco a quello sorto nella Seconda Internazionale, del quale la motivazione profonda era il rifiuto di far combattere le classi nazionali subalterne nelle guerre nate dalla conflittualità degli interessi dei capitalismi nazionali) si è sostanzialmente autodistrutto dopo la caduta del Muro di Berlino, quando gli eredi di quell’area culturale-politica si sono praticamente accodati agli interventi democratici guidati dagli USA e dalla NATO (Kosovo, Afghanistan, Iraq, Iran…) per la necessità di non esiliarsi dai processi del neoliberismo e della globalizzazione, anzi convinti, in Europa, di poter guidare le redini dei processi aperti dopo il millenovecentottantanove.

Un pacifismo, di natura apparentemente pragmatica, autenticamente liberale e democratico, è legato alla convinzione – vedi William Penn, Immanuel Kant, James Madison ecc. – che le guerre non nascerebbero se potessero essere decise dai parlamenti rappresentanti dei popoli – ovviamente ostili alle sofferenze provocate dalle guerre – invece che dai governi. È un pacifismo legato alla speranza che la democrazia rappresentativa (come anche i processi federativi e confederativi, vedi Penn e Madison ecc.) avrebbe risolto il problema della guerra. Questo approccio (simile a quello che portò alla formazione della Società delle Nazioni nel 1920 e alla formazione dell’ONU nel 1945). legato alla speranza che le istituzioni democratiche potessero appunto perché espressione della volontà dei cittadini e dei popoli di affermare la pace, non ha mai raggiunto il suo scopo e si è svuotato e annichilito nell’ultimo trentennio a causa della crisi delle democrazie rappresentative, sia per il prevalere dei trattati internazionali (vedi NATO) che si sovrapponevano al potere dei parlamenti nazionali, sia per il progressivo infiacchirsi della politica rispetto al potere dei mercati, sia per il progressivo e strisciante percorso delle democrazie verso nuove forme di autoritarismo e di nazionalismo. Reazioni, queste, nate come difesa nei confronti del modello attuale di globalizzazione nonché come affermazione del multilateralismo in contrapposizione al modello di globalizzazione visto come nuova forma di dominio economico e culturale dell’Occidente e degli USA. Resta formalmente vero che un parlamento nazionale può, per esempio, decidere di non partecipare a un’operazione bellica della NATO. Ma a questo si oppongono numerosi fattori, per esempio il rischio dell’emarginazione politica: il fatto che un intervento sia concepito come un intervento per portare la pace in un dato conflitto, o l’interesse nazionale (vedi l’operazione Aspides), o la mancanza di una volontà politica che, nel rifiutare l’adesione a un intervento NATO, sviluppi le forze e le capacità di porsi come elemento di pace e di mediazione fra i contendenti.

Il pacifismo di matrice religiosa (prevalentemente cristiano e induista-gandhiano) vive crisi laceranti sulle quali tenterò qualche riflessione.

Bisogna tuttavia riconoscere dapprima che richiamarsi ai valori primari del cristianesimo sul tema della ricerca della pace non può garantire una credibilità accettabile perché, se escludiamo il primo fondatore (Gesù), dal secondo fondatore (Paolo) fino a oggi (letteralmente fino a oggi), passando per Agostino e Tommaso d’Aquino e Francisco de Vitoria ecc., troppe sono le contraddizioni e le incoerenze, sia sul piano ideale che su quello storico (come, se non peggio, negli altri monoteismi). Non è un caso che grandi pensatori e promotori del pacifismo quali Aldo Capitini abbiano avuto conflitti profondi con le autorità cattoliche. È cosa ben nota che nel pensiero e nella prassi i monoteismi abbiano spesso accettato, se non promosso o addirittura provocato la guerra, lasciando isolate le voci di pace che provenivano dal proprio interno e che si richiamavano ai principi fondanti di quelle religioni – soprattutto la cristiana. Oggi i motivi di crisi della chiesa cattolica rispetto al problema della pace si sono molto acuiti per numerosi motivi: posso ricordare per esempio che il cattolicesimo avverte la profonda necessità di non giungere a una irreversibile rottura con il cristianesimo ortodosso russo, profondamente nazionalista; o posso ricordare che l’area più tradizionalista del cattolicesimo, perplessa o ostile verso la linea di papa Francesco, ha forti simpatie verso l’ortodossia russa più tradizionalista e ostile al mondo corrotto delle democrazie occidentali. Il fatto che le guerre in corso coinvolgano forze religiose (cristiani ortodossi, islamici) che sostengono a gran voce che l’occidente cristiano e cattolico è irrimediabilmente corrotto rischia di creare una sorta di paralisi nella chiesa cattolica rispetto alla profonda convinzione della necessità di pace.

La tragedia della ricerca della pace, quando la guerra è già iniziata, a seconda delle varie fasi storiche, è che appena questa ricerca esce dal puro idealismo, cade in contraddizioni e ambiguità che le fanno perdere forza e credibilità. Perché quando è iniziata una guerra è inevitabile che chi chiede la pace possa essere ritenuto come uno strumento di una delle due parti contendenti, come oggi si può ben constatare. Accusa questa che trova una parziale giustificazione nel fatto che la richiesta della pace può essere accompagnata da riflessioni sulle responsabilità dell’uno o dell’altro contendente, riflessioni che di fatto possono svuotare il senso profondo della ricerca della pace, che implica il rifiuto dell’uso delle armi. In fondo anche papa Francesco dopo l’inizio della guerra di Ucraina aveva reagito parlando del latrare della NATO ai confini della Russia. Riflessione ben ragionevole anche se semplicistica, ma con questo approccio si può facilmente giustificare qualunque eccesso, in fin dei conti anche la Germania di Hitler aveva le sue buone motivazioni, considerando la durezza del Trattato di Versailles (Hitler stesso usava questa argomentazione nel Mein Kampf). È un fatto che dopo l’inizio di una guerra tentare di interromperla chiedendo la pace può significare il favorire uno dei due contendenti, cosa che concretamente crea le premesse di una nuova guerra – vi sono numerosi esempi, sia nel secolo scorso sia in questo – o favorire una condizione che perpetua uno stato di sottomissione, quale era per esempio la Pax Romana.

Pur nella paura derivante dalla percezione che le guerre in corso (Ucraina e Medio Oriente) possano trasformarsi in guerra planetaria con l’uso di armi spaventosamente distruttive, la ricerca della pace non ha oggi presa sulla coscienza popolare. Le coscienze cristiane o autenticamente liberali o socialiste, tutte potenzialmente legate, nelle loro radici più profonde, al rifiuto della guerra e orientate alla pace, sembrano svuotate, annichilite, annientate non (non ancora) a causa dello sviluppo di ideologie dichiaratamente belliciste, ma per cause che sono ancora in parte da approfondire nelle loro motivazioni più profonde: rassegnazione, senso di inutilità, difesa di interessi economici o corporativi, senso di inevitabilità di soluzioni apocalittiche, chiusura nel privato e nella dimensione dello spettacolo (guerre comprese)… Tutti fattori che hanno a che fare con la crisi delle democrazie rappresentative. L’idea della inevitabilità o della necessità della guerra sembra diffusamente accettata e sembra che lo scopo non sia quello di evitarla, ma eventualmente di tentare di ridurne i danni (ridurre le vittime civili, evitare l’uso di armi atomiche…).

Siccome i governanti non decidono di non fare guerre seguendo i consigli dei filosofi (come si augurava ironicamente Kant) e dei pensatori e dei papi, si potrebbe sperare che i governanti possano ascoltare (se non per altri motivi, almeno per la sopravvivenza del proprio potere) la richiesta di pace se giunge da vaste aree della cittadinanza, se viene chiesta con forza di numero e di azione (manifestazioni, scioperi, intensi dibattiti e via dicendo). Cosa questa che, se potesse diventare possibile, implicherebbe oggi in Italia e in molti paesi europei il distacco e la rottura con tutti (tutti!) i partiti che oggi sulle guerre giocano una partita di sistematico inganno e opportunismo e trasformismo. Va pur riconosciuto che, per esempio, nel conflitto Israele-Hamas non è sorta una vera richiesta collettiva di pace basata sul reciproco riconoscimento delle ragioni di Israele e di quelle della popolazione della Palestina: le numerose manifestazioni sono tutte a favore dell’uno o dell’altro contendente (ognuno dei quali vuole la morte dell’altro), non a favore di una pace possibile sulla base dei reciproci diritti e delle reciproche esigenze. E per quanto riguarda il conflitto in Ucraina sembra pilatesco un dibattito politico che si chiuda nel decidere se inviare o non più inviare armi all’Ucraina senza avere la capacità di vedere le cause profonde e lontane di un conflitto che non può avere una risposta nella soluzione del conflitto stesso, perché quel conflitto è per l’appunto solamente un segnale di una serie gigantesca di problemi che coinvolgono tutto il pianeta.

Poiché anche per il cittadino distratto è evidente che le proposte e le speranze di pace manifestate da partiti e uomini politici sono puramente in funzione elettoralistica o visibilmente proiettate a far prevalere le ragioni di uno dei due contendenti; e poiché il dibattito intellettuale chiuso nelle TV o sui giornali non sviluppa sollecitazioni significative nel sentire dei cittadini; e poiché il male delle guerre in corso viene percepito solamente in funzione del costo delle materie prime o per altre ricadute negative analoghe senza che si riesca a far emergere il senso profondo della tragedia in corso e dei suoi possibili effetti nefasti, suppongo che la vera posta in gioco oggi sia quella del trovare il modo di far vedere ai cittadini il senso vero di ciò che stiamo vivendo. Allo scopo di ottenere l’unica cosa che può essere raggiunta (anche se apparentemente impossibile) ovvero che il nostro Governo giunga a porsi con convinzione – per la manifesta volontà dei cittadini – come elemento di mediazione e di capacità di dialogo fra tutte le parti contendenti.

In assenza di questo scopo tutto resta chiuso all’interno di sterili testimonianze intellettuali e morali che possono servire a salvarsi la coscienza ma che non possono raggiungere alcuno scopo.

Spero che sia evidente che non scrivo per riversare su carta il mio pessimismo o per dare fatui e ridicoli consigli che non avrei comunque la capacità di dare: il punto vero è che le speranze di pace non hanno alcuna possibilità di realizzarsi o comunque di ridurre i danni se non si manifestano attivamente come sentimento di una intera collettività o almeno di gran parte della stessa. Si può anche credere che gran parte dei cittadini siano oppressi e impauriti dalle guerre, si può sperare che siano in disaccordo profondo con la guerra e che vogliano la pace qui, e nelle guerre vicine e nelle guerre lontane, ma se questo non emerge con convinzione e energia (pacifica) nulla cambierà. Perché non vi sono milioni, decine di milioni di cittadini europei che chiedono nelle piazze la pace a gran voce? Aiutando così anche le opposizioni alle volontà violente e bellicose di Zelenskyj e di Putin e di Netanyahu e di Hamas?

Ma a questo si oppongono molti fattori che mi limito a elencare disordinatamente e per titoli.

Il fatto che non esistano forze politiche in parlamento realmente pacifiste, l’esigenza di pace talora manifestata da questo o quel partito che a destra e a sinistra mostra chiaramente lo scopo di favorire uno dei due contendenti. Se è evidente che nella cessazione di una guerra una delle due parti sarà o riterrà di essere penalizzata rispetto all’altra, è altrettanto evidente che chi lavora in un progetto di pace non ha credibilità se favorisce in modo manifesto uno dei due contendenti.

Se non esistono forze politiche seriamente orientate alla ricerca della pace, oggi non esistono più nemmeno nei corpi intermedi (che un tempo potevano essere sorgenti o forze stimolanti per lo sviluppo di dibattito su questo tema) energie e volontà capaci di sviluppare stimoli vitali sul tema della pace.

L’evidente progressivo distacco della società dalla politica – premessa fondamentale per il declinare e la caduta della democrazia – allontana gran parte dell’opinione pubblica dal tema della guerra (e quindi della pace) vista ancora come fenomeno distante nonostante che si percepiscano le conseguenze economiche. E infatti il dibattito politico proposto ai cittadini riguarda in modo acceso problemi che non hanno a che fare con la tragedia attuale e quella incombente della guerra, con deviazioni sistematiche e continue nelle quali la guerra appare solamente come dibattito sulle armi da inviare o da non inviare, o sostegni da dare o non dare, o disdegno morale di fronte alle atrocità, esaltando gli animi dei cittadini (che a questo stanno) su temi variegati indubbiamente importanti ma decisamente secondari rispetto alla tragedia incombente, come il clima, le parole scritte da un generale, o se il tal politico o il tal altro sia o no un poco fascista, o se le farine di insetti siano il male della nazione o il PNRR e via dicendo.

È pur vero che l’assalto del 6 gennaio 2021 al Campidoglio a Washington e alcune manifestazioni di opposizione alle misure dei governi nel periodo del Covid sono nate sui social, ma si tratta di casi che avevano alle spalle degli ispiratori molto convinti e attivi che oggi nei social sembrano non esservi sul tema della pace.

E forse incide anche il fatto che oggi gran parte dei cittadini vive la dimensione narrata nel Truman show, il senso del vivere in un mondo nel quale nulla è reale (guerre comprese) e se qualcosa è reale essa non si differenzia da quella irreale, con la diffusa e crescente convinzione di vivere in una dimensione ritenuta sistematicamente ingannevole (il pensiero unico).

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