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Ero andata a trovare Franco Piperno nella sua casa di Cosenza i primi di ottobre, con la mia amica Isa. C’erano con lui Marta, la sua compagna, e Enzo e Walter, i suoi fratelli; Elisabetta e altri amici stretti si alternavano a fargli visita. Stava male già allora, resisteva poco seduto, mangiava di malavoglia e parlava a fatica. Ma era felice di vedermi e di chiedermi notizie degli amici comuni, uno per uno: “Che fanno?”, sperando di sentirmi rispondere che qualcosa di politicamente sensato siamo ancora in grado di inventarcelo. Mentre lui riposava siamo rimasti lì a lungo a chiacchierare di tutto, compreso l’impatto del lavoro di cura nelle nostre vite, non previsto dalla nostra giovanile baldanza e così carico di spine ma anche di doni. È stata una gran bella giornata e sebbene immalinconite per Franco, Isa e io siamo tornate a casa felici di quel bagno di amicizia, intesa e complicità che si ricrea all’istante nelle famiglie elettive e allargate nate nei pressi del Sessantotto e seguenti. E nel nostro caso anche prima, perché il carisma di Franco aleggiava sulla sinistra extraparlamentare di Catanzaro già quando io ero bambina, Enzo mi portava a raccogliere funghi in Sila già prima di diventare un leader di Lotta Continua, Walter è stato un mio amico adorato negli anni del liceo, Marta, in anni più recenti, una fantastica compagna di scorribande newyorkesi. Nel corso del tempo ci siamo persi e ritrovati decine di volte, ogni volta come se ci fossimo visti la sera prima.

Lo racconto non solo perché il ricordo di quell’ultimo incontro allevia il dispiacere della perdita, ma soprattutto perché quando si parla degli anni Settanta nel linguaggio riduttivo dei media l’eredità affettiva di quella stagione non entra mai nel conto. E invece è il suo frutto migliore. Fra le altre cose, Franco è stato un grande e incessante costruttore di relazioni e di comunità. Le costruiva a modo suo, per irruzioni e sparizioni, inattese vicinanze e distratte lontananze, ma una volta che entravi nella sua orbita affettiva non ne uscivi più. Era parte della sua idea di politica: la comunità dei compagni e degli amici prima di tutto il resto. E non solo quella dei compagni storici. Una volta sono capitata per lavoro a Montreal, e non c’era nessuno fra quelli e quelle che ho incontrato che non avesse avuto a che fare con lui negli anni del suo esilio. Tornato in Italia, ha ricominciato con gli studenti dell’Unical, con i ragazzi di Radio Ciroma, con i militanti delle prime lotte a fianco dei Rom e dei migranti, e dopo i fatti di Genova 2001 con gli amici di Esc a Roma e di Uninomade in giro per l’Italia. Non la smetteva mai e gli riusciva sempre, perché maneggiava molto bene l’arma della seduzione, che si trattasse di donne, uomini, dei lupi che ha allevato a lungo con amore, delle folle convocate a decifrare sotto la sua guida il cielo stellato nelle notti d’estate.

Andrea Colombo ha scritto sul manifesto del 15 gennaio un pezzo intitolato La rivoluzione alla luce del sole che fa giustizia dei tentativi (di destra e di sinistra, vedi l’identico titolo in morte del “cattivo maestro” sul Giornale e su la Repubblica) di riportare la vita del leader di Potere operaio alla narrativa mainstream degli anni Settanta come anni di piombo tuttora carichi di misteri e di verità nascoste. Ma, scrive Andrea, “la sua idea di rivoluzione non aveva nulla di misterioso, segreto, cospiratorio. Era esplicita, ostentata, gridata alla luce del sole, come quando, in tempi nei quali i rapporti di forza rendevano normale dire quel che oggi nessuno oserebbe sussurrare, parlò apertamente di insurrezione necessaria e imminente”. Esplicito e privo di reticenza è sempre stato anche il racconto ex post degli anni Settanta – fondazione e scioglimento di Potere operaio, rapporti e non rapporti fra Potere operaio, Autonomia e BR, uso della violenza e della lotta armata, caso Moro, processo 7 aprile – che Piperno ha fornito più volte e in più sedi, pubbliche e ufficiali. Mi era capitato pochi mesi di fa di ritrovare per caso e di condividere su Facebook un suo faccia a faccia con Giovanni Minoli per “Mixer” del 1983: consiglio a chi nei Settanta non c’era di guardarlo per farsi un’idea di un’altra Italia, di un’altra stoffa di militanti, di un altro giornalismo rispetto a quello che oggi ci passa il convento. E a chi in questi giorni continua a reclamare sui social presunte verità nascoste di Piperno sul sequestro Moro e sul suo tentativo di sondare, su richiesta del PSI craxiano, la possibilità di una trattativa con le BR, consiglio di leggere il testo della sua audizione del 18 maggio 2000 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo. La verità è che in Italia più passa il tempo più la narrativa mainstream della nebbia che ancora avvolgerebbe gli anni Settanta serve non per scoprire ciò che non si sa, ma per non fare i conti con ciò che si sa.

All’epoca, peraltro, io non vivevo a Roma, non simpatizzavo né per Potere operaio né per Autonomia e da femminista contestavo vibratamente l’uso politico della violenza come risvolto dell’ordine patriarcale e di una virilità malintesa. Delle vicende degli anni Settanta ho discusso con Franco in anni più recenti, quando lui, influenzato dall’esperienza del comunitarismo nordamericano e calato nell’esperienza dell’amministrazione di Cosenza di Giacomo Mancini e di Eva Catizone, parlava più di autogoverno, autogestione, municipalismo e genius loci che di strategie insurrezionali e rivoluzionarie. Di quelle conversazioni è impossibile restituire la densità, che faceva tutt’uno con la densità del personaggio e con la sua ineguagliabile eloquenza. Colpivano però l’ampiezza della prospettiva unita all’analisi minuta e dettagliata dei fatti, l’intreccio fra vissuto personale e storia e fra razionalità e sensorialità, le cicatrici di ferite mai rimarginate come il rogo di Primavalle (che nel 1973 lo risolse a sciogliere Potere operaio, non perché l’organizzazione fosse coinvolta in quei fatti ma proprio perché non essendolo non era riuscita a evitarli) e ovviamente il processo 7 aprile e relativo carcere preventivo (una cinquantina di capi d’imputazione tutti caduti per assoluzione, salvo quello, giuridicamente controverso, di partecipazione ad associazione sovversiva).

Come in altri casi, anche nel caso di Piperno l’etichetta di “cattivo maestro” tanto abusata nel dibattito pubblico italiano serve in realtà a rinchiudere nella condanna morale e nel minoritarismo politico percorsi politici e intellettuali che andrebbero restituiti alla loro emblematicità del “lungo Sessantotto” italiano e del Novecento non solo italiano. Aldilà della leadership di Potere operaio, Franco Piperno è stato un politico di spessore, contrassegnato da un intreccio di visionarietà e realismo che forse, per restare nel campo dell’operaismo in cui si era formato dopo la precoce e traumatica espulsione dal Pci per “deviazionismo” nel 1967, lo avvicinava malgrado le apparenze più a Mario Tronti che a Toni Negri. Ed è stato un intellettuale di spessore, contrassegnato da un intreccio di cultura scientifica e umanistica che lo rendeva capace di continui spiazzamenti dal conformismo, anche e soprattutto di sinistra. Quando parlava di fisica entrava in un’altra dimensione, inaccessibile ai più, ma era proprio, o anche, la “fisica della materia” a preservarlo dalle derive dogmatiche del materialismo marxista.

Mentre vedevano la luce tre libri (Elogio dello spirito pubblico meridionale, Roma 1997; Lo spettacolo cosmico, Roma 2007; Sessantotto. L’anno che ritorna, Milano 2008), è rimasto a lungo nel cassetto come una sorta di atto mancato un libro sul tempo, perorazione fisico-filosofica a favore del “qui e ora” contro il gradualismo e della ciclicità ritornante contro la linea retta del progressismo. Ciclico, si sa, è anche il moto rotatorio della rivoluzione. E ciclica è stata anche la dimensione della vita di Franco, dove le stesse cose ritornavano sempre. A un certo punto però anche il tempo ciclico si interrompe. Colpisce, o forse va preso come un segno di kairós, che il suo si sia interrotto proprio mentre la combriccola nera che ci governa sta facendo di tutto per ribaltare il Sessantotto e gli anni Settanta nel loro contrario e trascinarci tutti e tutte dalla parte sbagliata della storia.

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2 commenti a “Franco Piperno, una biografia del Novecento”

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