Politica, Temi, Interventi

Nel gran mosaico che è stata la vita politica e istituzionale di Giorgio Napolitano, la tessera su cui ho sufficiente esperienza per poter intervenire è quella del suo impegno europeo. Entrambi, infatti, fummo eletti, io per la prima volta, nel 1989 al Parlamento Europeo.

Nel 1992, prima della conclusione della legislatura, lasciò il Parlamento Europeo perché fu eletto Presidente della Camera e per divenire, poi, ministro dell’Interno del Governo Prodi. Tornò nel 1999 per l’intera legislatura.

Nel 1989, non essendovi ancora incompatibilità tra presenza nei Parlamenti nazionali e Parlamento europeo, sia lui, sia, a maggior ragione, Achille Occhetto, erano impegnati prevalentemente in Italia, anche per gli eventi che, a seguito della caduta del muro di Berlino, determinarono i cambiamenti epocali che conosciamo e la fine del PCI, con il duro confronto che ne scaturì e la lunga transizione che attraverso diversi passaggi e scissioni approdò nel 2007 all’attuale PD.

La nostra delegazione, eletta all’epoca ancora dal PCI, comprendeva, tra gli altri: Luigi Colajanni, Luciana Castellina, Biagio De Giovanni, la giovane Dacia Valent e altri che, come me, venivano da esperienze politiche e amministrative più legate al territorio.

In altri gruppi politici europei, vi erano contemporaneamente: gli indimenticabili Alex Langer e Eugenio Melandri nel Gruppo dei Verdi, e ancora, Bettino Craxi, Giuliano Ferrara e Gianni Baget Bozzo, nel Gruppo Socialista. Nei popolari fece il suo ingresso Rosi Bindi; la sua elezione fece scalpore perché ottenne un numero di preferenze talmente sorprendenti, da sovvertire gli equilibri elettorali della DC dell’epoca.

La nostra delegazione affrontava il problema dell’uscita dal Gruppo dei “Comunisti e Apparentati”, in cui le diverse delegazioni nazionali vivevano da “separate in casa”, per dar vita al GUE (la sigla francese di Sinistra Unitaria Europea) di cui Luigi Colajanni assunse la presidenza.

Il GUE si collocava a sinistra del Gruppo Socialista e comprendeva formazioni di sinistra della Spagna, Grecia e Danimarca; ciò nell’attesa che maturassero le condizioni per l’ingresso nel Gruppo Socialista Europeo, cosa che avvenne nel 1992 con il PDS co-fondatore del Partito Socialista Europeo e componente del relativo gruppo parlamentare; tre mesi prima era avvenuto l’ingresso nell’Internazionale Socialista.

L’approdo alla socialdemocrazia sembrava aver risolto i problemi di collocazione internazionale e di legittimità rispetto alla partecipazione al governo nazionale. La storia ci dirà che le cose erano e rimangono molto più complicate di come allora apparissero.

Guardando alla crisi dell’intera sinistra in Europa, oggi, sarebbe importante capire perché la via socialdemocratica non bastò a salvare la sinistra di fronte ai grandi cambiamenti del capitalismo mondiale e cosa comportò la caduta di quel muro per l’intera Europa. Con Giorgio Ruffolo, collega e amico di quegli anni, ho spesso affrontato un nodo politico per me fondamentale ancora oggi e cioè: come mai i movimenti socialisti e comunisti che sono nati dal movimento operaio il quale, nel suo DNA ha sempre avuto l’internazionalismo, hanno finito per rinchiudersi nella dimensione nazionale al punto di accettare il paradosso che il conflitto si trasferisse dalla “classe” alle nazioni?

La risposta di Ruffolo era che il welfare, conquista del movimento operaio, soprattutto in Europa, era basato sul trasferimento dal profitto ai diritti sociali – compresi servizi universali quali sanità, istruzione, etc. – garantito dal ruolo dello Stato nazionale. Da qui la diffidenza verso la dimensione europea la quale, anche per questo, ha assunto, fin dall’inizio, come tratto dominante la dimensione del mercato prima e del capitalismo finanziario, poi. Concludendo entrambi che la globalizzazione aveva cambiato i dati del welfare: una ricchezza che non era più nazionale non poteva più essere redistribuita dagli Stati nazionali. Non averne tratto le conseguenze ha indotto le socialdemocrazie nazionali a sottovalutare la dimensione europea.

Sicuramente una costruzione europea democratica e federale potrebbe favorire il dispiegarsi di una dimensione sovranazionale non solo delle istituzioni, ma della stessa società europea, attraversata da interessi e conflitti che la dimensione nazionale non è più in grado di risolvere.

Anche per questi motivi sinistra e federalismo potrebbero ridare senso e un orizzonte alla sinistra in alternativa alla piega preoccupante che sta dominando la politica europea sulla guerra e sulle relazioni con il resto del mondo, a cominciare dalle politiche migratorie.

Per tornare a Giorgio Napolitano, il secondo periodo della sua presenza nel Parlamento europeo (1999-2004) fu quello dell’approfondimento della nostra conoscenza e di una intensa collaborazione; anche perché, nel frattempo, io ero divenuta Presidente della Delegazione italiana e vicepresidente del Gruppo Socialista mentre lui era il Presidente della Commissione Parlamentare “Affari istituzionali” che, sotto suo impulso, cambiò denominazione per divenire Commissione per gli Affari costituzionali”.

Proprio la legislatura Europea 1999-2004 fu quella in cui in Europa si riaprì la possibilità di dare una Costituzione all’Unione Europea e Giorgio Napolitano, da una posizione importante quale quello di Presidente della Commissione per gli Affari costituzionali, seguì questo processo cercando di influenzarne gli esiti.

Per la elaborazione di un nuovo Trattato era stata convocata una Convenzione formata da rappresentanti dei Governi (15), dei Parlamenti Nazionali (30), del Parlamento Europeo (16), e 2 rappresentanti della Commissione europea. Convenzione presieduta da Valery Giscard d’Estaing (ex Presidente della Repubblica francese) e da due vicepresidenti: Giuliano Amato e Jean-Luc Dehaene (ex Primo Ministro belga appartenente al PPE). I lavori ebbero inizio nel febbraio 2002 e si conclusero nel luglio 2003. L’impostazione burocratica del Gruppo socialista impedì la partecipazione di Giorgio Napolitano alla Convenzione con l’argomento, che facilmente poteva essere ribaltato, che egli era già Presidente della Commissione costituzionale.

I lavori furono molto complicati e spesso Giuliano Amato venne criticato per la sua eccessiva vocazione al compromesso, soprattutto con la delegazione del Regno Unito, tuttavia, i risultati, pur lontani dal Trattato Spinelli, approvato dal Parlamento europeo nel 1984, rappresentarono un indubbio progresso nel delineare gli ambiti di competenza delle diverse istituzioni: un ruolo accresciuto del Parlamento europeo; l’estensione del voto a maggioranza del Consiglio; l’unificazione dell’attività legislativa in un unico Consiglio; l’introduzione di una simbologia europea – bandiera, inno, motto “Unità nella diversità”; i progressi nella difesa europea, nella politica esterna e nei servizi diplomatici esterni, nella politica sociale; l’integrazione nel Trattato della Carta dei Diritti fondamentali.

Questo testo denominato Proposta di Trattato costituzionale, composto da una cinquantina di articoli, fu presentato dal Presidente Giscard d’Estaing al Consiglio europeo di Salonicco.

Il Consiglio, dopo averne manomesso alcuni dei punti fondamentali, decise di integrare il testo proposto dalla Convenzione con i trattati precedenti, costruendo un mostro giuridico difficilmente comprensibile anche perché composto da centinaia di articoli.

Firmato nel 2004, respinto dai referendum in Francia e Olanda nel 2005, ma confermato dai referendum in Spagna e Lussemburgo e ratificato da Parlamenti di altri 16 Paesi, si aprì la discussione su come proseguire. Discussione in cui Giorgio Napolitano si espose moltissimo nel sostenere che il processo di ratifica non dovesse essere interrotto e che, solo alla fine del processo, si sarebbe dovuto aprire un confronto con quei Paesi che avessero negato il consenso.

Le cose andarono diversamente, nel 2008, Merkel, Sarkozy e Blair, con l’acquiescenza del Governo italiano (presidente Prodi, ministro degli Esteri D’Alema), fecero prevalere la linea dell’interruzione del processo di ratifica in spregio al voto popolare maggioritario già espresso.

Il Trattato di Lisbona, che ne è seguito, può definirsi una vera e propria riscossa dell’assetto intergovernativo che fa dell’attuale Unione un ibrido istituzionale, indecifrabile nelle sue procedure e nelle competenze delle varie istituzioni agli occhi dei cittadini.

Furono quelli gli anni della mia intensa collaborazione con Giorgio Napolitano, anni di gran lavoro, di speranze e anche di delusioni.

La nostra delegazione comprendeva personalità come Giorgio Ruffolo, Bruno Trentin, Elena Pacciotti, Gianni Vattimo, Fiorella Ghilardotti, Renzo Imbeni. Demetrio Volcic, Claudio Fava, Gianni Pittella (che diventerà Presidente del Gruppo Socialisti e Democratici), Guido Sacconi (quest’ultimo si distinse per il suo memorabile Regolamento europeo sulla chimica).

Insieme, decidemmo di dare battaglia politica nel Gruppo Socialista costituendo un Gruppo intitolato a Spinelli che non aveva nulla di celebrativo, al contrario, voleva influenzare dall’interno le posizioni politiche del Gruppo, troppo corrive verso la deriva intergovernativa dell’Unione, soprattutto quando a presiedere i governi erano i socialisti.

L’importanza delle personalità che vi aderirono e il consenso che via, via i documenti elaborati dal Gruppo ricevevano dai colleghi, fino a raggiungere la maggioranza, erano da stimolo a non accettare mediazioni al ribasso, per andare incontro alle posizioni dei Laburisti inglesi.

In quegli anni ho potuto apprezzare l’uomo e le sue qualità, a cominciare dal rigore nel lavoro e dalla capacità di relazione con gli altri, sempre rispettoso e attento all’ascolto dei diversi punti di vista.

Ricordo con affetto la sua abitudine, soprattutto nel periodo della presidenza della Commissione costituzionale, di passare nel mio ufficio prima e dopo le riunioni per fornire alla “sua Capo delegazione” resoconti dettagliati e per avere un confronto sulle posizioni da assumere; pratica appartenente a una cultura politica che dava importanza all’agire comune e che suscitava in me anche un certo imbarazzo a causa della sua autorevolezza.

O ancora, la sua abitudine a chiamare al telefono direttamente le persone con cui voleva parlare, ritenendo una vera scortesia far chiamare dagli assistenti; cosa che a me è capitata di subire innumerevoli volte anche con giovani parlamentari o amministratori locali.

Una semplicità nei comportamenti che rivelavano più che una buona educazione.

La presenza a Bruxelles e, specialmente le sessioni plenarie a Strasburgo, offrivano anche occasioni di convivialità cui lui non si sottraeva, tanto da essere rimasto nel cuore dei molti collaboratori, sempre insieme alla sua indimenticabile Clio.

Sarebbe, tuttavia, riduttivo identificare il suo impegno europeista con la presenza nel Parlamento europeo. Egli, a differenza di molta sinistra, compresa gran parte di quella socialdemocratica, aveva nella sua cultura politica la dimensione europea come orizzonte e, seppure non sovrapponibile a quella di Altiero Spinelli, molto più radicale nel perseguimento del federalismo, la mantenne con coerenza fino alla fine dei suoi giorni, infatti, dopo le dimissioni da Presidente della Repubblica, tornò a essere Presidente onorario del Movimento Europeo che aveva presieduto effettivamente dal 1995 al 2006.

Sono stata positivamente colpita dalla bella cerimonia di saluto a Montecitorio, che ha fatto giustizia delle volgarità di alcune dichiarazioni e della sguaiata titolazione di alcuni giornali.

La storia politica e istituzionale di Giorgio Napolitano non è stata priva di passaggi controversi: ricordo quello causato dalla rottura tra Berlusconi e Fini nel 2010, che poteva comportare la caduta del Governo se il voto della mozione di sfiducia non fosse stato posposto per consentire l’approvazione del bilancio voluta dal Presidente della Repubblica.

Quel passaggio, tuttavia, mise anche in luce tutta la debolezza della politica, incapace, anche in quel caso, di far valere le sue prerogative e quelle del Parlamento e svela la strumentalità delle accuse della destra circa le circostanze della caduta del Governo Berlusconi avvenuta, comunque, nel 2011. Ne seguì la decisione di dare l’incarico di governo a Mario Monti, dando priorità all’esigenza di fronteggiare la crisi finanziaria, sottraendo alle italiane/italiani il diritto/potere del voto.

Una scelta in cui prevalse la convinzione di decidere nell’interesse del Paese, anche forzando le prerogative del ruolo istituzionale e il corretto funzionamento della democrazia parlamentare.

Avendo conosciuto da vicino l’uomo, sono convinta che, anche le decisioni più criticabili, furono sempre ispirate dal rigore che applicava innanzitutto a se stesso.

Un abbraccio caloroso va alla sua meravigliosa famiglia, a cominciare dalla cara Clio, che continuò ad essere se stessa in tutti i ruoli pubblici che ha dovuto sostenere accanto al suo Giorgio.

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Un commento a “Giorgio Napolitano e l’Europa”

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